Che cosa attrae oggi le 200mila presenze pronte a saggiare nuovi stati di trance nel Salento, in agosto, per “La notte della Taranta”? Sarà forse la potente capacità di suggestionare che proviene dalla buia origine di questo rituale, in cui il ritmo frenetico e le danze ossessive sono la cura per esorcizzare il morbo causato dal morso del ragno e sferrare una serrata lotta contro la possessione, con un unico obiettivo: schiacciare il ragno. È questo un arcano che sceglie le sue vittime predilette, le donne, creature del sud di Ernesto De Martino, in cui magia e religione si mescolano.

Partendo dal documento Rai dal titolo Il male di San Donato del 1965 – ripreso a Montesano del Salento da Luigi Di Gianni, con la fotografia di Maurizio Salvatori – ci troviamo di fronte a una descrizione suggestiva della situazione di “isolamento” di questa terra negli anni ’60 e di un universo culturale che non risolve con la scienza, ma con la magia, gli stati di disagio psicofisico.

Il santo colpisce, il santo guarisce

Agli inizi di agosto, qui si assiste a manifestazioni e riti simili a quelli connessi al tarantismo: è lo stesso santo, secondo la credenza popolare, a determinare il male, che infetta l’intero paese, e a concedere successivamente la grazia di guarirne. Urla, lamenti, rotolamenti, gesti che reiterano ossessivamente un rituale alla presenza di uomini e donne che assistono in silenzio. Il documentario-documento si apre con le immagini in bianco e nero del paese deserto di Montesano il sei e il sette agosto del 1965. Le strade bianche e vuote, un bambino, un ragazzo che vende palloncini. In processione, dietro la statua del santo, sfilano donne e uomini malati, sostenuti dai propri cari, tra grida di disperazione. Nella chiesa, i corpi adagiati sul pavimento o inginocchiati ai piedi dell’altare della chiesa, pregano e invocano la grazia a San Donato, protettore degli epilettici e dei malati di mente, così come in passato si supplicava Esculapio.

Un dolore antico invade e brucia questi esseri che strisciano e si rotolano per terra parlando con il santo, urlando al santo, implorando il santo. Intorno un cerchio umano: si aspetta la grazia nella chiesa o nei suoi pressi per un’intera notte, dormendo e vegliando. Forse con le luci dell’alba la risoluzione; il male è andato via per sempre o ritornerà perché è lo stesso santo a costringere di legarsi a lui per l’intera esistenza? Non ci è dato di sapere.

La pellicola girata in bianco e nero, attraverso i giochi accecanti di luce e i forti contrasti mette in evidenza tragica, attraverso un susseguirsi di chiari e scuri, tutta la sofferenza dei volti e la drammaticità del rito.

Il ragno mitico

Il documentario La Taranta del 1962 di Gianfranco Mingozzi con le musiche originali registrate da Diego Carpitella e la fotografia di Ugo Piccone si apre con le immagini di un Salento arso dal sole, dalla solitudine e dal silenzio. La macchina da presa cattura e la pellicola si impressiona di immagini; i colori sono bianco e nero. Qui cresce il ragno che provoca il male; qui si nutre e matura la credenza popolare. L’estate acceca e la luce bianchissima penetra nell'uomo; la noia s'impossessa di ogni essere pensante; la monotonia deforma gli istinti. I tarantati, quando il male insorge, dicono di sentire la noia.

Attraverso il documentario entriamo nella stanza di Maria di Nardò; i musicisti “curatori” suonano, la macchina da presa gira e inquadra una signora anziana, vestita di nero e con lo sguardo altrove, seduta accanto ad una tenda a fantasia: qualcosa dietro quella tenda si muove. Un bambino scalzo seduto su una seggiola che tiene tra le braccia la figura del santo Paolo. Ecco che dalla tenda viene fuori una donna: rotola come il ragno che si è impossessato di lei; lotta e con il piede batte a terra per schiacciarlo. Sulla porta – in controluce – i bambini assistono alle “volute” della donna che cerca di liberarsi dal male. Sottovoce la richiesta al santo di salvezza, ma i tempi non sono maturi: il santo chiede ancora un sacrificio. Maria strappa con rabbia la figura di San Paolo e ricomincia a ballare fino a che non sente di aver ucciso la taranta ed essersi finalmente liberata.

Le inquadrature dall’alto (presumibilmente scelte per non essere importuni e per non arrestare o snaturare i gesti istintivi, all’interno del rituale) mettono in evidenza la piazza gremita di persone e le tarantate che vagano. Urla e lamenti ci giungono attraverso l’audio. La pellicola in bianco e nero, che mette a nudo la miseria nera e la sofferenza con grande maestria e arte, s’impressiona di ogni minuzia; i contrasti dei chiaroscuri esaltano rughe, volti spigolosi, mani callose, occhi sofferenti: raccontano il dolore.

Potere magico di uno scatto

Sono stati gli scatti artistici di André Martin a stimolare Ernesto De Martino, come egli stesso riporta (De Martino 1994: 30). Nelle immagini del fotografo francese, i ritratti dei volti delle donne, chiusi nei fazzoletti per avvolgere il capo, appaiono come sculture; ombre scure “disegnate” sugli occhi cancellano lo sguardo. Una donna in primo piano batte i pugni sul petto ed è messa in chiaro da una luce, si tratta quasi certamente di una maschera in camera oscura. Guardando le fotografie non si può non rimanere con il fiato sospeso. Nella memoria della carta sono fissati i volti contriti e segnati dal dolore che continuano ad officiare i santi, le tarantolate ferme e in movimento, il rito dell’esorcismo e del culto di Santu Paulu; è come se da quella stessa carta riuscissimo ad ascoltare la reiterazione ritmica di una formula “maga”, destinata a scacciare il male dal corpo. Forse guardandole oggi qualcuno potrà sorridere, ma ne sarà certamente rapito. Anche il sorriso e la beffa sono modi intelligenti per esorcizzare ciò che ci spaventa.

Ancora le immagini forti e cariche di pathos delle fotografie di testimonianza e partecipazione di Chiara Samugheo (nata a Bari), mettono in risalto le zone nascoste della Puglia, ingravidate dal mistero e dalla magia. In un’intervista per il progetto di Flee (piattaforma culturale fondata da Alan Marzo, Olivier Duport e Carl Åhnebrink destinata all’ibridazione culturale), rilasciata ad Alan Marzo, la Samugheo ha spiegato di essere stata contagiata «dall’isteria di queste donne e dalla loro massima espressione dell’eros» (Uccello 2019). Donne senza età, vestite di bianco o di nero, ballano e si dimenano sui pavimenti, in alcuni casi accompagnate da madri, sorelle e mariti. Scalze ai piedi del santo: è la nudità dell’anima. Una molteplicità di sguardi persi nel vuoto che la sapiente mano della fotografa sa intrappolare e donare alla memoria storica. Sono quasi sempre le donne invasate – stese a terra a simulare i movimenti di un ragno – i soggetti principali delle fotografie di Chiara Samugheo. Su alcune di esse la luce è diretta, su altre è sovraesposta: nessuna ombra rende più drammatico il momento. Nella limpidezza e attraverso la luce “impressionata”, in questa narrazione per immagini dalla forte carica evocativa, si può leggere chiaramente una terra arsa e avvampata e dal sole, come gli uomini e le donne che la abitano.

Suggerimenti di lettura

Nel testo sono citati E. De Martino (La Terra del rimorso, Saggiatore, Milano, 1994); A. Martin (Les noires vallées du repentir. Contribution à l’étude de la mentalité magico-religieuse en Italie meridionale, Editions Entente, Parigi, 1975); L. Chiriatti e M. Nocera, a cura di (Immagini del tarantismo. Galatina: il luogo del culto, Capone, Lecce, 2002); S. Uccello (Maledetta taranta, ora ti facciamo la festa, in ilsole24ore magazine del 27.11.2019).

Immagine: Notte della Taranta, 15a edizione del Festival della musica salentina. Il palco con le scenografie di Mimmo Paladino, Melpignano 2012