Quando, ormai sedici anni fa, con l’amico Riccardo Gualdo scrivemmo Inglese – Italiano 1 a 1. Tradurre o non tradurre le parole inglesi? (Manni, 2003; seconda ed. 2008) le reazioni degli addetti ai lavori oscillarono dalla curiosità divertita al fastidio per un’operazione giudicata di stampo neopurista. Ci fu chi, a proposito delle nostre proposte di traduzione dei 200 anglicismi vagliati in quell’occasione, scrisse che o si è Migliorini, oppure sarebbe meglio rinunciare a fare gli onomaturghi. In altri casi il volume è stato (ed è) ostentatamente ignorato in studi di argomento consimile, sia di ispirazione diversa, sia tutto sommato affine. Partendo dal presupposto (all’epoca invero poco condiviso) che la crescente invadenza delle parole anglo-americane rappresentava un problema di non poco conto, la ragione profonda di quel volume risiedeva nel tentativo di individuare alcuni parametri (alla fine saranno quattordici) di linguistica interna ed esterna, in grado di far azzardare una prognosi sulle possibilità di successo di un traducente italiano, quale esso sia. Dietro tale modus operandi vi era il convincimento che non fosse possibile tradurre indiscriminatamente tutti i forestierismi, perché in taluni casi, per dire così, la battaglia pareva persa in partenza: quale speranza di successo avrebbe, oggi, anche il più brillante sostituto di parole come film, bar, smog, flirt, per non dire di tecnicismi quali chip, byte, bypass, screening? Ovviamente nessuna. La proposta dei sostituti italiani, in quel volume, non rappresentava, come dichiarato a più riprese, il fine primario, ma rientrava in un progetto ben più articolato.

Dalla taccia di allarmismo al gruppo Incipit

Come si suol dire, il tempo è galantuomo, e ciò che sedici anni fa apparve ai più un inutile allarmismo, appare oggi, agli occhi di molti, un serio elemento di riflessione. Possiamo dire che la sensibilità degli studiosi si è progressivamente allineata a quella dell’opinione pubblica, da sempre ostile al profluvio di anglicismi che giornali, televisione, internet rovesciano ogni giorno sulla nostra mensa linguistica. Grazie soprattutto al contributo degli scienziati, particolarmente spaventati dalla possibilità che l’italiano non sia più in grado in un futuro prossimo di veicolare contenuti di alta scientificità e specializzazione, si è cominciato a capire che l’acquiescenza tutta italiana verso il massiccio afflusso di parole straniere ha rappresentato il cavallo di Troia per consentire all’inglese di “vampirizzare” interi mondi della comunicazione relegando l’italiano in un ruolo sempre più appartato e secondario.

In un Convegno di studi organizzato presso l’Accademia della Crusca nel febbraio del 2015 (per gli atti: C. Marazzini - A. Petralli (a cura di), La lingua italiana e le lingue romanze di fronte agli anglicismi, Firenze, Accademia della Crusca-Goware, 2015) si decise di costituire un gruppo di lavoro (coordinato dal Presidente della Crusca Claudio Marazzini) battezzato Incipit, con lo scopo di intercettare i neologismi (di fatto, anglicismi) incipienti, in procinto di entrare o appena entrati nel campo della comunicazione pubblica (discorso politico, atti legislativi e amministrativi, documenti delle istituzioni accademiche, delle banche e di altri enti di interesse generale). Il gruppo Incipit (di cui fanno o hanno fatto parte, oltre a Marazzini, Michele Cortelazzo, Paolo D’Achille, Valeria Della Valle, Jean-Luc Egger, Claudio Giovanardi, Alessio Petralli, Luca Serianni, Annamaria Testa) ha finora prodotto dodici comunicati (leggibili nel sito dell’Accademia della Crusca) nei quali ha avanzato proposte ragionate, e spesso assai dibattute, di sostituenti italiani a fronte di parole inglesi presenti nella comunicazione pubblica. Mi limito a citare solo l’ultimo caso, molto recente, piuttosto scabroso: mi riferisco a revenge porn, espressione circolata negli ambienti politici, parlamentari e giornalistici, a proposito di un emendamento introdotto in un disegno di legge a tutela delle vittime della violenza domestica. L’anglicismo, per fortuna evitato dal legislatore italiano, allude alla diffusione di immagini o video sessualmente espliciti usati contro una donna per ricattarla. Come tradurre revenge porn evitando una lunga perifrasi? In questo caso il gruppo Incipit ha seguito la scelta di alcuni quotidiani che scrivevano di porno vendetta, proponendo, però, la forma univerbata pornovendetta. Seppure non del tutto soddisfacente sul piano semantico, tale soluzione ha il vantaggio di essere sintetica e di essere stata già adottata dai media; il successo del forestierismo, infatti, è spesso determinato da un eccessivo numero di sostituenti italiani, i quali finiscono con l’indebolirsi vicendevolmente.

L’inglese, gli atenei italiani e la scienza

Tutti coloro che hanno davvero a cuore la lingua italiana si sono rallegrati di fronte alla sentenza della Corte Costituzionale (24 febbraio 2017) che stabiliva l’illegittimità di tenere corsi esclusivamente in inglese nelle università italiane. Si tratta di una sentenza equilibrata, che certo non nega la possibilità di tenere corsi in lingua inglese (o in qualsiasi altra lingua straniera) ma impedisce che l’italiano venga marginalizzato o addirittura escluso dell’insegnamento universitario. Ricordiamo infatti che in un prestigioso ateneo italiano era stato introdotto l’obbligo di tenere corsi in inglese nei corsi di studio magistrali e nei dottorati di ricerca. C’è chi ha voluto vedere nella sentenza della Consulta un elemento di freno al processo di internazionalizzazione degli atenei italiani (un’interessante riconsiderazione della vicenda si trova nel volume a cura di Maria Agostina Cabiddu, L’italiano alla prova dell’internazionalizzazione, Milano, Guerini, 2017). Ma chi conosce il meccanismo della comunicazione linguistica sa che quando ci esprimiamo in una lingua che non è la nostra materna a un’inevitabile povertà linguistica corrisponderà un’altrettanto inevitabile povertà concettuale. Questo è l’aspetto fondamentale su cui gli scienziati insistono maggiormente: un inglese semplificato produrrà una scienza semplificata, mettendo le comunità scientifiche non anglofone naturali in una condizione di minorità (si veda, al riguardo, il fortunato volume dell’immunologa Maria Luisa Villa, L’inglese non basta. Una lingua per la società, Milano, Bruno Mondadori, 2013).

Il rischio banalizzazione nella lingua comune

Se, dunque, gli scienziati temono che la progressiva marginalizzazione dell’italiano come lingua della ricerca scientifica possa danneggiare la feconda tradizione del pensiero scientifico nostrano (da Galilei a Volta a Fermi, tanto per ricordare tre pilastri della scienza di tutti i tempi), non si può dire che la lingua comune, l’italiano della conversazione colta e anche della letteratura siano immuni da rischi. La pervasività degli anglicismi, con il loro carico di indefinitezza e di genericità, il loro essere buoni per tutti gli usi, la loro adattabilità a svariati contesti comunicativi, finiscono per oscurare le ricche e preziose risorse lessicali ed espressive di cui l’italiano dispone, anche a seguito di una storia linguistica che ha visto per secoli il predominio della lingua scritta di stampo letterario. Autori come Leopardi e Manzoni si sono dilungati sulla enorme ricchezza sinonimica della nostra lingua, valutandone gli aspetti positivi e quelli negativi. L’uso irriflesso dell’anglicismo rischia di desertificare il lessico italiano; le parole, se non usate a lungo, tendono a svanire dalla competenza attiva dei parlanti (e degli scriventi). La banalizzazione e l’impoverimento del lessico delle generazioni più giovani sono sotto gli occhi di tutti. Spesso si rimprovera alla letteratura contemporanea di non saper più andare oltre una lingua votata alla più trita quotidianità; e questo non già per una precisa scelta stilistico-espressiva, ma piuttosto per un’obiettiva carenza di risorse, in primis lessicali. Tutto ciò non è certo attribuibile esclusivamente all’eccesso di anglicismi, ma è frutto di concause ben note, prima fra tutte l’indebolimento della civiltà alfabetica e il trapasso verso quella elettronica; e tuttavia l’anglomania fa la sua parte.

Spoilerare e location

Vorrei fare solo un paio di esempi di ciò che intendo quando parlo dell’effetto di desertificazione del lessico italiana ad opera di (presunti) corrispondenti inglesi. Da qualche anno è di gran moda il verbo spoilerare (il correttore automatico del mio pc si ostina a scindere la grafia in spoiler are) dal sostantivo inglese spoiler ‘anticipazione’. Tale verbo indica l’anticipazione indesiderata del finale di un libro o di un film. Bene, l’italiano potrebbe opporre: anticipare, annunciare, preannunciare, (a voler gigioneggiare anche annunziare e preannunziare), dire, predire, rivelare, raccontare, svelare (sono solo le prime possibilità che mi vengono in mente senza particolare riflessione). Se l’unica soluzione possibile diventa però spoilerare, è chiaro che le alternative italiane si indeboliscono e escono dal raggio visivo del parlante comune; e con loro si perdono anche le sottili sfumature di significato che le distinguono l’una dall’altra. Ancora: l’anglicismo location. Lo si potrebbe sostituire di volta in volta con ambiente, ambientazione, situazione, luogo, locale, e ognuna di tali parole italiane avrebbe un valore suo proprio più definito e più raffinato rispetto all’omologante e banalizzante location.

Dunque, concludendo, il problema della progressiva anglicizzazione dell’italiano tocca aspetti diversi e agisce su diversi piani. Negli ultimi quindici anni, complice anche il quadro internazionale, le insidie per la nostra lingua sono decisamente aumentate. Perciò, dovendo pensare a una nuova edizione del volume del 2003, bisognerebbe forse riformulare il titolo così: Inglese  - Italiano 2 a 0.

Immagine: Bandiera per gli inglesi di origine italiana

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