di Michele A. Cortelazzo*

È almeno dal 1979 che il lessico italiano si è arricchito di una parola, burocratese, che indica, con una connotazione palesemente dispregiativa, “il linguaggio inutilmente complicato ed ermetico in uso nella pubblica amministrazione”: un segnale che colloca alla fine degli anni Settanta l’esplodere del senso di fastidio e di insoddisfazione per la lingua utilizzata dalla burocrazia italiana, un fastidio che, almeno nella stampa, tendeva a tramutarsi, se non in rivolta, certo in indignazione e denuncia.

In realtà, la denuncia era precedente: risalgono agli anni Sessanta due altre parole (d’autore, queste) per designare quello che ora chiamiamo burocratese: burolingua, utilizzato nel titolo di un libro di Cesare Garelli, dedicato, a dire il vero, al linguaggio giornalistico (Garelli 1968) e, soprattutto, antilingua, coniazione di Italo Calvino, in un noto articolo (Calvino 1965) nel quale lo scrittore ligure aveva mostrato come un fatto banale, il ritrovamento di alcune bottiglie provenienti da un furto, poteva essere raccontato da un parlante comune, in poche parole, per poi essere verbalizzato da un agente di polizia in un testo lungo, prolisso e meno preciso.

Tuttavia, la protesta contro il linguaggio burocratico non è né recente né solo italiana. Già nell’Ottocento, infatti, in un Manuale, o sia la guida per migliorare lo stile di cancelleria di Giuseppe Dembsher (Milano, 1830), troviamo alcune indicazioni condivisibilissime su come si può mitigare, se non proprio evitare, l’oscurità della scrittura burocratica: «se si eviteranno i vocaboli di multiforme significato; se la costruzione sarà la più semplice possibile; se i periodi saranno brevi; se non si adopreranno voci nuove o straniere che in caso di assoluta necessità»; sempre dell’Ottocento è la coniazione, in inglese, di una parola assimilabile all’attuale burocratese: officialese, che rimonta al 1884.

Un’altra spia della diffusione un po’ in tutto il mondo della critica al linguaggio burocratico è l’impegno di molti governi per correggere i limiti comunicativi della tradizionale scrittura amministrativa (dal governo statunitense a quelli svedese, tedesco, belga, francese e via dicendo: una serie di link alle diverse esperienze internazionali si trova all’indirizzo http://www.maldura.unipd.it/buro/link.html). Obiettivo di tutte queste iniziative è quello di diradare la nebbia che ammanta e confonde le comunicazioni di molte amministrazioni pubbliche (fight the fog, ‘combatti la nebbia’, è il titolo di un manualetto per la semplificazione dei testi amministrativi prodotto negli ambienti della Direzione Generale della Traduzione della Commissione europea).

L’immagine della nebbia ci è molto utile per dare una giusta collocazione al linguaggio amministrativo e alle sue oscurità. La lingua amministrativa ha delle ineliminabili componenti di complessità che dipendono dalla complessità dell’azione della burocrazia, il cui compito è governare il funzionamento dell’aspetto pubblico di una società sempre più complessa. Su questa complessità si stende, proprio come la nebbia su un paesaggio magari già di per sé brutto, un’ulteriore complessità linguistica, questa sì eliminabile, che rende i testi amministrativi di difficile, se non proibitiva, lettura per la maggior parte dei cittadini. Non necessariamente questa ulteriore complessità è voluta, con lo scopo (come spesso si crede) di esercitare il potere del burocrate sul cittadino. Molto più spesso la difficoltà e l’oscurità della scrittura amministrativa nascono dal fatto che il dipendente pubblico riconosce come destinatario dei suoi testi non il cittadino che li legge, ma il superiore che li firma; oppure dalla convinzione che il modo più appropriato per marcare linguisticamente il decoro dell’amministrazione a nome della quale il dipendente scrive sia quello di usare una lingua complessa e lontana dalla lingua comune; o ancora dall’idea che una scrittura complicata possa dare maggiore autorevolezza ai propri scritti; dall’inerzia, in virtù della quale ogni dipendente cerca di scrivere come hanno scritto tutti i dipendenti che l’hanno preceduto, talvolta accentuando le caratteristiche che differenziano la scrittura amministrativa dalla lingua comune; dall’inevitabile tendenza a scrivere nello stesso modo in cui sono scritte le norme (leggi, regolamenti, ordinanze) che stanno alla base delle comunicazioni burocratiche; o infine, anche, per sciatteria o scarso dominio della lingua italiana.

Nonostante le caratteristiche della lingua amministrativa non corrispondano alle caratteristiche dell’italiano normalmente usato anche nella prosa colta (o forse proprio per questo), il linguaggio burocratico è però spesso considerato, specialmente da parte degli scriventi meno scolarizzati, un modello di stile: gli studi sull’italiano popolare, ad esempio, hanno mostrato come lo stile della burocrazia abbia rappresentato un modello di lingua “alto” per gli scriventi semicolti (Manlio Cortelazzo, 1972, 43).

Le caratteristiche del linguaggio amministrativo

Il fulcro della complessità del linguaggio amministrativo risiede nella complessità morfo-sintattica. I testi burocratici presentano una costruzione sintattica molto elaborata, che porta alla produzione di frasi lunghe e con un ampio e ramificato uso della subordinazione. In particolare, si nota la frequente tendenza, derivata dalla testualità giuridica, alla “frase unica”, cioè alla produzione di testi nei quali l’intero contenuto è condensato in una sola frase (o comunque la tendenza a far coincidere il capoverso con la frase):

Avendo questa Amministrazione proceduto alla stipulazione di contratto di lavoro a tempo indeterminato con soggetti risultati idonei a seguito dell’espletamento di procedure concorsuali, si chiede - ai sensi e per gli effetti di quanto al Capo V e VI del DPR 445/2000  - l’invio, anche a mezzo fax, relativamente alla Sig.ra Xxxxx Yyyyy – nata a Zzzzz il 30.08.1952 – di un certificato da cui risultino data e luogo di nascita, residenza, cittadinanza e godimento dei diritti politici e civili.

Strumenti per condensare un contenuto nozionale complesso in una sola frase sono il ricorso a proposizioni implicite, particolarmente quelle con il participio presente e il gerundio (“avendo questa Amministrazione proceduto …”), a nominalizzazioni (cioè sostantivi al posto di verbi per esprimere azioni come invio, stipulazione, espletamento), a incisi (“ai sensi e per gli effetti di quanto al Capo V e VI del DPR 445/2000”).

Inoltre sono frequenti le forme di spersonalizzazione, in conformità col carattere impersonale della pubblica amministrazione: dall’impersonale (“si chiede …”, “con la presente si comunica che…”), al passivo (“la Sua richiesta è stata respinta”), alle già citate nominalizzazioni, che sono funzionali, oltre alla condensazione sintattica, all’oscuramento dell’agente delle azioni rappresentate.

Vanno poi nella direzione di un aumento della complessità le locuzioni preposizionali e congiunzionali complesse (allo scopo di, ai fini di, a condizione che), la presenza di connettivi arcaici, o comunque di scarso uso nella lingua comune (altresì, allorquando, ivi, ove, all’uopo, nonché, ovvero), enclisi (partecipasi, comunicasi), verbi fraseologici (dare comunicazione, dare inizio, trovare applicazione, essere a conoscenza, portare a conclusione), ecc.

Anche il piano lessicale punta alla complessità: se per esprimere una stessa nozione, con lo stesso grado contestuale di precisione, esistono due parole, una comune e una più rara, la tendenza del linguaggio burocratico sarà quella di propendere per la parola più rara. Solo occasionalmente l’uso di parole rare nasce da esigenze di precisione denotativa (per es. quando si parla di locazione, come vuole la correttezza giuridica, e non di affitto come vorrebbe la lingua comune; oppure quando si parla di titolo di viaggio per indicare ogni possibile documento che dimostri il pagamento del viaggio in un mezzo di trasporto – quindi biglietto, ma anche abbonamento, tessera o altro). Più spesso la scelta di parole meno comuni pare gratuita: per es. nell’uso di istanza e non di domanda, di recarsi e non di andare, di trasmettere e non di mandare, ma spesso neppure di inviare o spedire, di diniego e non di rifiuto. Così anche la preferenza per gli astratti al posto dei concreti (problematiche al posto di problemi, modalità al posto di modo), per arcaismi lessicali (attergare, evincere, sullodato), forestierismi (tradizionalmente latinismi come de facto, contra legem, ecc., più recentemente anglicismi come city manager, front office, customer satisfaction), parafrasi ridondanti e ampollose per riferirsi a oggetti comuni e banali (anche quando si parla solo di vino,_ titolo di viaggio anche per indicare il semplice biglietto_,_ nucleo familiare_). Vi è infine la tendenza ad un ampio uso di abbreviazioni (c.m. per ‘corrente mese’, u.s. per ‘ultimo scorso’, S.V. per Signoria Vostra) e di sigle e acronimi (ad esempio ISEE per l’altrettanto oscuro Indicatore della Situazione Economica Equivalente o CFU per Credito Formativo Universitario), che possono talvolta risultare poco comprensibili per il parlante comune.

Come effetto delle caratteristiche indicate, il “livello retorico” delle comunicazioni risulta spesso alto; altrettanto spesso, tali comunicazioni risultano ipertrofiche, a causa della complessità lessicale e di quella morfologica: la lingua burocratica utilizza più parole di quella comune per dire le stesse cose, come ha ben mostrato Calvino 1965.

La riforma del linguaggio amministrativo

Da un quindicennio anche in Italia si stanno tentando azioni per modificare le consuetudini linguistiche con cui vengono redatti i testi amministrativi. Ci hanno provato ministri di diverse parti politiche (Sabino Cassese, Franco Bassanini, Franco Frattini, Mario Baccini), che hanno promosso anche la pubblicazione di strumenti per la cosiddetta semplificazione del linguaggio amministrativo (il Codice di stile del 1993, Fioritto 1997); si sono impegnati, nella teoria e nella pratica, molti professori universitari (li cito attraverso le loro pubblicazioni principali: Piemontese 1996, Cortelazzo/Pellegrino 2003,  Franceschini/Gigli 2003, Raso 2005).

Non ripercorrerò qui i suggerimenti per il miglioramento della scrittura amministrativa contenuti nei manuali appena citati (corrispondenti, a parte qualche adattamento, a quelli proposti per la scrittura amministrativa anche in altri Stati); rinvio alla sintesi, in trenta regole, disponibile all’indirizzo http://www.maldura.unipd.it/buro/trentaregole.html. Prendendo a prestito le premesse alle Regole e suggerimenti per la redazione dei testi normativi, il manuale approvato nel 2008 dalla Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni e delle Province autonome (è disponibile all’indirizzo http://www.parlamentiregionali.it/dbdata/documenti/%5B48749bf0f3ef4%5Dmanuale_drafting_12.07.pdf), possiamo sintetizzare così i criteri ai quali deve rispondere un testo amministrativo che voglia risultare davvero accessibile ai cittadini, sia pure nei limiti permessi dalla complessità dei suoi contenuti: chiarezza, precisione, uniformità, semplicità, economia. Un testo è chiaro se ha contenuti certi, una strutturazione nitida e uno sviluppo coerente; è preciso se non si presta ad equivoci; è uniforme se permette di riconoscere senza equivoci quando ci si riferisce a uno stesso argomento; è semplice se dà la preferenza a parole conosciute dalla maggior parte dei cittadini e se organizza le frasi in modo lineare; è economico se contiene tutto quello che è necessario, ma solo quello che è sufficiente, per lo sviluppo del suo contenuto. Sono principi imprescindibili, se non vogliamo che la nebbia dell’incomprensibilità tramuti in principi vuoti la semplificazione, la trasparenza e l’accessibilità che, secondo le leggi approvate negli ultimi decenni, animano le procedure della pubblica amministrazione.

A tutto questo, si deve aggiungere una considerazione fondamentale: la comunicazione delle amministrazioni pubbliche nazionali è sempre più radicata in un orizzonte europeo. Una parte sempre maggiore delle pratiche amministrative di tutti i giorni si basa su norme, ma ancor prima su concetti e pratiche, nate dalla messa in comune di nozioni e prassi elaborate nell’ambito dell’Unione Europea, come integrazione dell’esperienza di diversi Paesi. Da questa nuova realtà nascono un nuovo lessico e nuove modalità argomentative ed espositive. Ogni attività di riforma del linguaggio amministrativo non può prescindere da questo stato di fatto; un grande contributo per affrontare i problemi comunicativi e redazionali in quest’ottica può venire da iniziative ufficiali, ma anche dalla condivisione delle esperienze di quanti, in ambito locale, nazionale e comunitario, operano nella redazione di testi istituzionali, e ancor prima nella traduzione delle fonti elaborate in altre lingue (come avviene, ad esempio, nella Rete di eccellenza dell’italiano istituzionale: http://reterei.eu).

Bibliografia

Calvino Italo, 1965, Per ora sommersi dall’antilingua, «Il Giorno», 3 febbraio (ora in Una pietra sopra, Torino, Einaudi, 1980, pp. 122-126)

Codice di stile delle comunicazioni scritte ad uso delle amministrazioni pubbliche. Proposta e materiali di studio, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per la Funzione Pubblica, 1993.

Cortelazzo Manlio, 1972, Avviamento critico allo studio della dialettologia italiana, III, Lineamenti di italiano popolare, Pisa, Pacini.

Cortelazzo Michele A., Pellegrino Federica (a cura di), 2003, Guida alla scrittura istituzionale, Roma-Bari, Laterza.

Cortelazzo Michele A., Viale Matteo, 2006, Storia del linguaggio politico, giuridico e amministrativo nella Romània: italiano / Geschichte der Sprache der Politik, des Rechts und der Verwaltung in der Romania: Italienisch, in Gerhard Ernst, Martin-Dietrich Gleßgen, Christian Schmitt und Wolfgang Schweickard (a cura di), Romanische Sprachgeschichte. Ein internationales Handbuch zur Geschichte der romanischen Sprachen, 2. Teilband / Histoire linguistique de la Romània. Manuel international d’histoire linguistique de la Romània_, Tome 2_, Berlin – New York, Walter de Gruyter Verlag, pp. 2112-2123.

Fioritto Alfredo (a cura di), 1997, Manuale di stile. Strumenti per semplificare il linguaggio delle amministrazioni pubbliche. Proposta e materiali di studio, Bologna, Il Mulino.

Franceschini Fabrizio, Gigli Sara (a cura di), 2003, Manuale di scrittura amministrativa, Roma, Agenzia delle Entrate.

Garelli Cesare, 1968, La burolingua quotidiana. Appunti per una indagine sul linguaggio giornalistico, Genova, Sabatelli.

Piemontese Maria Emanuela, 1996, Capire e farsi capire. Teorie e tecniche della scrittura controllata, Napoli, Tecnodid.

Raso Tommaso, 2005, La scrittura burocratica. La lingua e l'organizzazione del testo, Roma, Carocci.

*Michele A. Cortelazzo (Padova, 1952), allievo di Gianfranco Folena, è professore ordinario per il settore “Linguistica italiana” all’Università di Padova. Ha insegnato anche nelle università di Saarbrücken, Innsbruck, Venezia, Trieste, Ferrara. Il linguaggio amministrativo è stato, negli ultimi anni, uno dei temi della sua ricerca: con Federica Pellegrino ha scritto una Guida alla scrittura istituzionale (Roma-Bari, Laterza, 2003) e con Chiara Di Benedetto e Matteo Viale ha coordinato la "traduzione in italiano" del manuale di "Istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione" (Padova, Cleup, 2008). Fa parte della REI, Rete di eccellenza dell′italiano istituzionale_, promossa dalla Direzione Generale della Traduzione della Commissione Europea (di cui presiede ora il Comitato di coordinamento) e ha fatto parte del gruppo di lavoro interregionale istituito dalla Conferenza dei Presidenti dei Consigli regionali, d′intesa con l′Osservatorio legislativo interregionale (OLI), che ha curato la terza edizione del manuale di redazione dei testi normativi, approvata nel 2008._

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