di Maria Vittoria Dell'Anna*

«Inutile la chiarezza, se il giudice, vinto dalla prolissità, si addormenta. Più accetta la brevità, anche se oscura: quando un avvocato parla poco, il giudice, anche se non capisce quello che dice, capisce che ha ragione». Così Piero Calamandrei, nel suo famoso Elogio dei giudici scritto da un avvocato (1935), ragiona a proposito di brevità e chiarezza come doti amabili nella missione di eloquio e scrittura, oltre che di giustizia, dell’avvocato. Le cose non stanno diversamente, tuttora, per la scrittura del giudice: soprattutto, diremmo, in fatto di chiarezza. Oscurità e inutile complicazione sono infatti tradizionalmente riferite come qualità linguistiche negative da parte di chi - linguista o semplice osservatore non esperto di lingua o di diritto - si accosti alla lettura di una sentenza, ossia il testo principe tra quelli prodotti dal giudice nella sua quotidiana attività di decisione e applicazione della legge a casi e cause concrete. Periodi molto lunghi, frasi contorte e subordinate a incastro, sintassi complessa, lessico oscuro e distante dalla lingua comune, clichés burocratici, latinismi: questi alcuni dei tratti linguistici che rendono difficoltosa la lettura e la comprensione di una sentenza, in particolare della sezione centrale sui motivi della decisione (ricordo che il contenuto della sentenza è tipicamente distribuito in tre sezioni: lo Svolgimento del processo, che riferisce sui fatti della causa e anche sulle fasi dei processi precedenti, se si tratta di un processo giunto oltre il primo grado di giudizio; i Motivi della decisione, che illustrano, spiegano e argomentano le ragioni poste a fondamento della decisione finale; il Dispositivo, infine, che enuncia l’esito della causa e la decisione del giudice). Altri aspetti linguistici della sentenza sono condivisi dai testi giuridici (come quelli normativi) e in genere dai testi delle lingue speciali o settoriali: l’impersonalità, la tecnicità del lessico, la monoreferenzialità semantica.

Senza fluidità

Che cosa disturba, rallenta o impedisce di più la comprensione di una sentenza? In che cosa la scrittura di una sentenza può essere migliorata? In quale modo quella scrittura può essere “riscritta”? Proviamo a leggere il passo che segue, tratto dalla Motivazione di una decisione della Corte Suprema:

«Nonostante gli indirizzi giurisprudenziali sopra richiamati avessero delimitato, soprattutto sotto il profilo funzionale (ma con inevitabili riverberi anche sullo schema strutturale della fattispecie), la norma dell’art. 323 c.p. – la cui centralità nel sistema dei reati contro la pubblica amministrazione risultava, oltre che dalla corrispondente soppressione dei reati di interesse privato in atti di ufficio e di peculato «per distrazione», dalla significativa elevazione della sanzione prevista nell’editto – era conformata in modo così generico (sintomatica la permanenza nel testo dell’art. 323 «novellato» dell’espressione «abuso», ancora una volta, designante la condotta tipica) da apparire dotata di una tale capacità espansiva ai fini della perseguibilità dell’illecito amministrativo, da indurre il legislatore a riformulare il precetto al fine, per un verso, di limitarne la versatilità secondo schemi solo in parte corrispondenti al «diritto vivente» scaturente dagli approdi giurisprudenziali prima richiamati e, per un altro verso, di ridurre la misura della pena edittale, secondo uno schema chiaramente rivolto a precludere che il fumus delicti possa comportare limitazioni, in via cautelare, della libertà personale del soggetto indagato o imputato di abuso di ufficio». [C.Cass., sez. VI pen., 17-02-1998]

Le operazioni di riscrittura possono migliorare soprattutto il livello della sintassi e della testualità, puntando alla capacità dello scrivente di fare della sentenza un testo “fluido” e avendo in mente, come destinatario, tanto il pubblico degli addetti ai lavori, quanto il fruitore non esperto.

Non è solo una questione di lunghezza

Non si tratta soltanto di lunghezza di frasi e periodi. Alcune volte una riscrittura fluida può comportare passaggi più lunghi. Il breve passo «Ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento» (C. Cass., sez.un.pen., 10-07-2002) può essere trascritto, ad esempio, nel modo che segue: “Poiché si era ipotizzato che la condotta doverosa che aveva impedito l’evento fosse stata realizzata dal medico”, con il risultato di un periodo che è sì più lungo, ma che richiede al lettore uno sforzo minore per ricomporre la struttura profonda della frase e, in definitiva, per comprenderne il messaggio.

Scegliere meglio le parole

L’intervento linguistico può essere affrontato con successo anche sul piano lessicale. Al di là di esigenze pratiche di funzionamento tecnico e del ricorso ai tecnicismi specifici, che sono e restano ineliminabili in tutti i testi giuridici, le sentenze possono raggiungere precisione semantica anche se utilizzano forme della lingua comune, lontane dal sinonimo vezzoso o dal burocratese più criptico (il famoso di talché, o i non troppo chiari – per i più – acclarare e acclaramento, sinonimi di accertare e accertamento, più neutrali e diffusi e degni di un’uguale efficacia semantica).

Snellire la lingua per snellire i processi

Perché è utile, necessaria, una maggiore trasparenza linguistica della sentenza? La risposta risiede in un generale ripensamento del processo come servizio anche linguistico. In questo senso, il processo è oggetto di osservazione da parte di coloro che si occupano di semplificazione del linguaggio giuridico, filone di studi teorici e applicativi che, dall’iniziale e ormai più che ventennale interesse rivolto soprattutto ai testi della burocrazia e dell’amministrazione, da qualche anno ha allargato lo sguardo al funzionamento della comunicazione nelle aule dei tribunali. E lo ha allargato con una consapevolezza che si è fatta strada a partire dagli stessi giuristi, dai giudici, dagli avvocati, i quali hanno inteso il valore delle “buone pratiche” del processo (ad esempio il principio del giusto processo di ragionevole durata) anche nel senso delle buone prassi linguistiche. Gli Osservatori sulla giustizia, di concerto con esperti di altri settori capaci di offrire competenze utili (i linguisti, ad esempio!), sottolineano che semplificazione e virtuosismo linguistico sono una via non secondaria da seguire verso il ragionevole snellimento delle vicende processuali e che essi esigono specifici percorsi di informazione e formazione (linguistica) continua degli operatori del diritto dentro e fuori i tribunali. Dagli inizi degli anni 2000 assistiamo a un numero man mano crescente di convegni, seminari e giornate di studio sui temi del rapporto tra lingua e diritto organizzati (oltreché dalle università e dalle associazioni scientifiche, che se ne occupano per interessi in primo luogo disciplinari) proprio dagli ordini forensi, dai tribunali e dalle corti d’appello, dalla Scuola Superiore dell’Avvocatura e dalla Scuola Superiore della Magistratura, spesso – significativamente – con la collaborazione di istituzioni linguistiche (tra tutte l’Accademia della Crusca, da sempre molto attenta a questi temi). Tra i più recenti, ricordo i due convegni fiorentini Lingua e diritto. Scritto e parlato nelle professioni legali,organizzato nel marzo 2012 dall’Accademia della Crusca, dalla Scuola Superiore dell’Avvocatura e dall’Ordine degli Avvocati di Firenze, e Lingua e processo. Le parole del diritto di fronte al giudice, organizzato presso l’Accademia della Crusca nell’aprile 2014 dalla stessa Accademia, dalla Scuola Superiore della Magistratura e dall’Università di Firenze (per altre iniziative analoghe rimando ai siti Internet www.scuolasuperioreavvocatura.it, www.scuolamagistratura.it, www.accademiadellacrusca.it).

Tutti gli atti, non solo la sentenza

Semplificazione e buona prassi linguistica non possono riguardare la sola fase “più pubblica” del processo, ossia la decisione finale, la sentenza. Esse devono corrispondere a una nuova conduzione linguistica di ogni fase processuale come dovere e impegno di gruppo (di magistrati, avvocati, cancellieri) e investono perciò tutti gli atti del processo, riguardando la leggibilità e la comprensibilità dei provvedimenti scritti dal giudice, il raccordo, la sintesi e la chiarezza degli atti difensivi presentati dagli avvocati come requisito per motivazioni che soddisfino la richiesta di concisione dettata dai codici. Così, il dovere e l’impegno di efficienza linguistica da parte degli operatori del diritto diviene risposta al diritto di chiarezza e trasparenza anche linguistiche dei soggetti destinatari della parola processuale, a cominciare dai cittadini, da quel popolo italiano nel cui nome la sentenza è pronunciata.

*Maria Vittoria Dell’Anna è ricercatrice di Linguistica italiana presso l’Università del Salento. Si occupa di linguaggi specialistici dell’italiano, con riguardo per il linguaggio giuridico e per i linguaggi della comunicazione politico-istituzionale. Su questi temi ha pubblicato articoli e contributi in rivista e volume e varie monografie: In nome del popolo italiano. Linguaggio giuridico e lingua della sentenza in Italia_, Roma, Bonacci, 2013;_ Lingua italiana e politica_, Roma, Carocci, 2010;_ La faconda Repubblica. La lingua della politica in Italia (1992-2004), Lecce, Manni, 2004, con Riccardo Gualdo; Mi consenta un girotondo. Lingua e lessico nella Seconda Repubblica_, Galatina, Congedo, 2004, con Pierpaolo Lala._