di Claudio Cartoni*

Il tema della corretta relazione tra professionista e cliente assume una rilevanza sempre più elevata nella valutazione della qualità di una prestazione professionale. In particolare, nel campo della medicina, la divulgazione scientifica attraverso i media, la crescente sensibilità per la qualità della vita, le indicazioni del nuovo codice deontologico del medico, l’obbligo di raccogliere il consenso informato, la costituzione delle associazioni di pazienti hanno modificato in modo sostanziale la posizione del paziente da quella di ricevitore passivo di cure a quella di protagonista attivo nel processo terapeutico. La possibilità però per il paziente di essere in grado di partecipare attivamente al processo decisionale relativo alle scelte terapeutiche che lo riguardano è condizionata dalla qualità della comunicazione che intercorre tra lui e il suo medico. La relazione medico-paziente è giocoforza asimmetrica in termine di potere, poiché il medico è il detentore del sapere che determina e condiziona l’atto terapeutico. Di conseguenza una persona malata per potere scegliere in modo consapevole il suo percorso terapeutico necessita che il medico sappia offrirle quegli strumenti cognitivi ed emotivi per affrontarlo.

Duecentomila "colloqui difficili"

La comunicazione medico-paziente d’altro canto è un processo che si sviluppa nel tempo e che non si esaurisce in un unico colloquio. Oltre alla qualità e quantità di informazioni che il medico trasmette, assai influente è la modalità con cui egli si esprime ed in particolare il linguaggio verbale e non verbale che adotta. Sapere comunicare con un malato costituisce un’abilità clinica centrale in medicina e di fatto è uno dei compiti più frequenti per un clinico. È stato calcolato che un medico ospedaliero con 40 anni di attività farebbe tra i 150.000 e i 200.000 “colloqui difficili” con pazienti e familiari. Studi sperimentali hanno dimostrato come una comunicazione efficace ha effetti positivi sull’accuratezza nella raccolta dei dati su sintomi ed effetti collaterali, condiziona l’aderenza alle raccomandazioni terapeutiche, ha effetti sul benessere emozionale dei malati e contribuisce in modo significativo alla soddisfazione sia del paziente che del medico. Una comunicazione scadente costituisce un fattore importante nell’aumento delle controversie medico legali, della sofferenza psicologica dei pazienti e dei livelli di burn-out dei medici.

Zucker: il paziente e il medico paziente

La necessità di disporre di medici in grado di comunicare correttamente con il paziente è dunque sempre più impellente. In un editoriale pubblicato nel 2013 sull’autorevole rivista JAMA e intitolato Parlare al malato nel ventunesimo secolo, Abigail Zucker prova a descrivere le caratteristichedel bravo medico comunicatore:

«Il medico, naturalmente, dovrà parlare fluentemente la lingua clinica standard, compresa l’ordinaria terminologia medica usando allo stesso tempo frasi delicate improntate all’attenzione e alla compassione verso il paziente. Il medico sarà capace di tradurre il gergo medico in termini comprensibili per non addetti, saprà sdrammatizzare alcune parole come obeso, terminale o psicotico, che potrebbero causare allarme o ferire la sensibilità del malato. Egli saprà spiegare concetti statistici in modo accurato e comprensibile, avendo la pazienza e la forza d'animo necessarie per rispondere alle domande dei pazienti che riguardano le prove di efficacia di cure e test diagnostici. Il medico conoscerà abbastanza bene il vocabolario molto tecnico di rilevanti programmi di ricerca in corso per incoraggiare pazienti a parteciparvi. Egli sarà anche tenere il passo con la cultura popolare, conoscendo le informazioni divulgate dai media e potendo integrare i loro contenuti nel dialogo clinico con il paziente. Inoltre, cosa importante, il medico dovrà avere un modo virtuoso di immettere e recuperare dal PC i dati anamnestici e clinici e di recuperarli, con una capacità di parlare, pensare, ascoltare, e digitare allo stesso tempo che rivaleggia con quella di stenografi, interpreti simultanei e giornalisti specializzati. Il medico farà tutto questo in modo efficiente e in modo efficace attraverso decine di incontri clinici al giorno, ciascuno formulato in un linguaggio leggermente diverso».

I medici reticenti e le cattive notizie

Ma dov’esiste questo tipo di medico? Come afferma la stessa autrice dell’editoriale, le iniziative per ottenere una formazione dei medici nel campo della comunicazione sono state assai limitate. In Italia il tempo e la rilevanza dati a questo tema sono tutt’ora assai scarsi. Con la conseguenza che i colloqui sulla prognosi di una malattia si fanno ancora con i parenti e non con i pazienti, spesso in corridoio e per pochi minuti, magari utilizzando termini incomprensibili e non decodificabili quali: remissione completa, remissione molecolare, fase avanzata di malattia, progressione di malattia, ri-stadiazione, azione di debulking, ecc. In verità nel nostro Paese ancora prima delle modalità di comunicazione con il paziente vi è la necessità di agire sulla reticenza di molti medici a fornire gli adeguati contenuti delle cosiddette cattive notizie, quali ad esempio l’informazione del passaggio dalla fase delle cure per guarire una persona alla fase delle cure palliative per assisterla i modo da garantirle una qualità di vita accettabile.

L'università degli autodidatti

L’Università fino ad oggi non ha considerato la comunicazione di notizie infauste come materia di insegnamento da inserire nei corsi di laurea e specializzazione. Tale situazione è particolarmente delicata in quelle branche della medicina come l’oncologia, l’ematologia e la medicina della rianimazione in cui l’alta frequenza di patologie a rischio di vita, la prognosi infausta, espongono quotidianamente medici, pazienti e familiari in comunicazioni complesse e stressanti e che spesso non riguardano un singolo episodio di cura ma il percorso della malattia fino alle fasi terminali.

Molti dei medici sono semplici autodidatti in termini di comunicazione oppure prendono ad esempio le strategie adottate da medici senior che non necessariamente sono adatte a favorire l’espressione di problemi da parte dei pazienti. La capacità di comunicare non può più essere considerata un’ abilità innata o intuitiva che ogni “buon medico” possiede. Essa costituisce al contrario un compito complesso da affrontare con specifiche abilità tecniche ed umane da apprendere secondo una metodologia didattica sostenuta da crescenti prove di efficacia.

Come è possibile formare

Le abilità comunicative possono dunque essere acquisite attraverso corsi di formazione specifici in cui medici e infermieri si misurano in sessioni pratiche role play, in alcuni casi con l’aiuto di attori specializzati. La sensibilizzazione sui temi della comunicazione degli studenti nei corsi di laurea e di specializzazione è possibile fornendo nozioni pratiche di counseling.

Dentro la narrazione, verso l'ascolto

Un ulteriore strumento per migliorare la qualità della comunicazione medico-paziente è rappresentato dalla medicina narrativa o medicina basata sulla narrazione. Questa può essere definita come “quello che viene circoscritto tra il professionista sanitario e il paziente, a partire dalla raccolta di informazioni su eventi precedenti alla malattia, a come la malattia si è manifestata, con attenzione ai risvolti psicologici, sociali e ontologici, ovvero esistenziali del paziente”. L’applicazione del metodo della medicina narrativa nella pratica clinica e non solo nella ricerca potrà dunque aiutare i professionisti sanitari a sviluppare una disposizione all’ascolto dei bisogni dei pazienti che è così assente nella frenetica medicina di oggi.

Bibliografia

Zuger A, Talking to Patients in the 21st Century, in «JAMA» («The Journal of the American Medical Association»), 2013; 309(22): 2384-2385.

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Morosini PL, De Santis A et al., Manuale di valutazione della comunicazione in oncologia. 2007, in «Rapporti Istituto Superiore di Sanità», 07/38 .

Greenhalgh T., Hurwitz B., Why study narrative, in «British Medical Journal», 1999.

*Claudio Cartoni è nato a Roma nel 1958. Medico chirurgo specializzato in Ematologia e in Oncologia, è dirigente medico e coordinatore dell'Unità di Cure palliative e di supporto presso l'unità di Ematologia del Policlinico Umberto I – Sapienza-Università di Roma e docente nel master di Medicina palliativa presso la facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università di Tor Vergata e dell'Università degli studi di Milano.