28 settembre 2006

Un trailer linguistico (1945-2006)

L’italiano di Gary Cooper

La storia del cinema è legata a quella della lingua italiana a filo doppio: per i prestiti del cinema alla lingua comune e per la capacità dei dialoghisti ora di fotografare, ora di deformare (amplificandone o, viceversa, attenuandone alcuni tratti) le mille facce del nostro parlato. I prestiti veri e propri non sono numerosi, ma significativi: si tratta perlopiù di titoli di film felliniani diventati presto, e talora (dolcevita e paparazzo) non soltanto in Italia, parole comuni: amarcord ‘ricordo nostalgico, evocazione malinconica’, dall’omonimo film del 1973 (l’espressione romagnola vuol dire, letteralmente, ‘io mi ricordo’); bidone ‘imbroglio, raggiro’, dall’omonino film del 1955; dolcevita e paparazzo (da La dolce vita, 1955); vitellone ‘giovane ozioso e fatuo’, da I vitelloni, 1953. A parte Fellini (tuttora il regista italiano più conosciuto all’estero, almeno fino al "fenomeno Benigni" della Vita è bella, 1997), i nostri cineasti non sembrano aver inciso sull’italiano tanto quanto la televisione, alla quale spetta senza dubbio il titolo di prima vera maestra (buona o cattiva che sia) di lingua degli italiani, come Tullio De Mauro e Raffaele Simone hanno più volte ribadito. Occorre tuttavia ricordare il ruolo determinante del doppiaggio di film stranieri, americani nella fattispecie, da sempre preferiti dal grande pubblico nostrano. La tribù degli adattatori e dei doppiatori ha fatto della lingua italiana un uso un po’ ingessato: rispetto all’agile varietà dei dialoghi originali, la versione adattata sembrava, almeno fino al 1970, decisamente più scolastica, scevra quasi sempre da elementi regionali (che sarebbero parsi stranianti, in un contesto internazionale, e che, all’opposto, costituivano la conquista di maggior valore della produzione nazionale, almeno a partire dagli anni Trenta, con l’avvento del sonoro) e anche da un parlato dell’uso medio, realtà, come si sa, abbastanza recente. L’autarchia linguistica e la dialettofobia degli ultimi anni del fascismo hanno sicuramente ritardato lo svecchiamento del doppiaggio, che nondimeno, proprio in virtù della sua immobilità, ha esercitato una certa azione didattica sull’apprendimento linguistico degli italiani, se si considera, come ricorda brillantemente il regista Luigi Magni, che nell’immediato secondo dopoguerra «l’italiano lo parlava soltanto Gary Cooper, perché era doppiato». Salvo eccezioni (i ristoratori italoamericani Tony e Joe, doppiati in siciliano nel disegno animato Lilli e il vagabondo, 1955), la prima adozione del dialetto nel doppiaggio ha una data ben precisa: 1972, col Padrino di Coppola.

«Ehi amico, dacci un taglio!»

Da allora è storia nota, per il pubblico contemporaneo: è difficile, oggi, non incontrare almeno un’inflessione meridionale nella miriade di film americani sulla malavita d’impronta italiana. Ma, soprattutto, i film doppiati hanno regalato all’italiano, con costante indignazione dei puristi di ieri e di oggi, decine di calchi, precocemente segnalati, tra gli altri, da Raffaello Patuelli (1936): «La banda sta per l’inglese band; e chi non capisce che si vuol dire orchestrina? "è un amatore" dice la signora. Voi pensate subito a un dongiovanni; oppure a un raffinato collezionista. Si tratta invece di un agile tennista, di un robusto calciatore, di un rachitico cineasta, di un dilettante insomma, di un amateur. Così con queste rassomiglianze, sinonimie, omofonie, quelli che traducono il copione col vocabolario inglese alla mano, senza aver forse mai consultato in vita loro quello italiano, arrivano al prodigio della sincronizzazione. Ed ecco che gli indigeni diventano i nativi perché in inglese si chiamano natives, il fellone, il tristo, un villano dall’inglese vilain, il pudore, modestia, dall’inglese modesty, col beneplacito dell’etimologia e degli arcaismi che fanno sempre buon gioco quando torna conto appellarsi ad essi. Il carretto è diventato un vagone da wagon, l’articolo una storia da story, il festeggiare un celebrare da celebrate [...]. Quante sono le parole che offrono al traduttore semplicista una facile sincronizzazione! mustard è la salsa di senape ed egli la traduce con mostarda; camphorine è la naftalina ed egli la traduce con "canfora"». Oltre a quelli notati dal Patuelli, potremmo aggiungere almeno: dannato, dannazione e dannatamente (damn, damned; oggi perlopiù fottuto: fucking) invece di maledetto, maledizione e maledettamente; ehi, amico (ehi, man, o buddy, o mate e simili) invece di senti, bello, o della semplice eliminazione del vocativo; dacci un taglio (cut it out) invece di smettila o piantala o finiscila; ci puoi scommettere! (you bet!, o you can bet!) invece di senza dubbio!, ci puoi giurare!, te lo giuro!, naturalmente!, lo credo bene!, e simili; esatto (exactly) invece di , hai ragione, sono d’accordo, ecc.; abuso di voglio dire (I mean) invece di cioè; prego (please) invece di per favore; realizzare (to realize) invece di accorgersi, rendersi conto di; posso aiutarla? (can/may I help you?) invece di desidera?; suggestione (suggestion) invece di suggerimento; andare a vedere qualcuno (to see someone) invece di andare a trovare qualcuno; lasciami solo (leave me alone) in luogo di un più appropriato lasciami stare/in pace o vattene, e moltissimi altri. Ma già i primi analisti del film sonoro si erano accorti che d’oltreoceano arrivavano non soltanto calchi e cattive abitudini linguistiche, bensì anche un salutare ringiovanimento di stile dialogico e un allontanamento dalle pastoie dell’italiano scritto. Ecco le parole di Paolo Milano (1938): «Che linguaggio sceglierà il Cinema, fra i molti che ogni lingua possiede? Il più semplice, il più documentario, il più legato all’esistenza spicciola e quotidiana. Qualunque altro linguaggio più sostenuto, letterario o (come si suol dire) aulico, rischierebbe d’assumere un valore artistico proprio, a tutto scapito della visione filmica, in ibrido e sterile connubio [...]. [S]ullo schermo si deve parlare poco, e il linguaggio di tutti i giorni. Così stando le cose, gli americani sono a cavallo [...]: quel gergo disossato e breve che sembra fatto di ammiccamenti e di urti più che di parole, quell’inglese d’oltresponda diventato irrispettoso e pregnante. È la lingua cinematografica per eccellenza, sia detto senza complimento: cioè la lingua più lontana dalla poesia [...]. Ora, sarebbe tempo che anche il dialoghista cinematografico si associasse con lena e buon diritto a un’opera che si prosegue da più di un secolo, alla quale hanno contribuito e Manzoni e Verga e Pirandello, e a cui lavorano più o meno inconsapevolmente giornalisti e padri di famiglia e uomini della strada: la creazione di una lingua italiana di tutti i giorni [...] [I]l personaggio dello schermo deve parlare come quello che lo spettatore incontra ogni giorno a un angolo di strada, al caffè, in ufficio, in un salotto. Propongo una multa per il primo sceneggiatore che ancora una volta metterà in bocca a un personaggio di film una frase come "Ho detto loro...". Vergogna! Sullo schermo si dice, anche al plurale e in barba alla Crusca, "gli ho detto", e si resta in ottima compagnia, visto che Manzoni l’ha scritto tante volte».

I dialetti sullo schermo

Se torniamo alla produzione nazionale, non possiamo non rimanere colpiti dalla centralità della componente linguistica (e spesso metalinguistica) in film anche di serie B o C. Specialmente la filmografia comica fornisce esempi in gran messe. Su tutti Tòtò, più volte irresistibile "maestro" di lingua: dalle disquisizioni sugli accenti o sulle desinenze (mìssile o missìle, succube o succubo), alla celeberrima lettera dettata a Peppino De Filippo in Totò, Peppino e... la malafemmina, all’espressionistico eloquio mistilingue anglo-italo-franco-tedesco nel medesimo film. Non mancano, in Totò, sfuriate puristiche, contro lingue straniere e dialetti, talora concluse dall’esclamazione: «E parli italiano benedetto Iddio!». E che dire del camaleontismo di un Gassman o di un Giannini? O dell’impietoso ritratto, anche linguistico, del borghesuccio meschino e frustrato tratteggiato da Alberto Sordi? Pochi dialetti sono rimasti fuori dalla lente dei nostri dialoghisti "all’italiana" (Age e Scarpelli indiscussi maestri): la fanno da padrone il romanesco (spesso annacquato – dopo i fasti del realismo rosselliniano e desichiano – come nella saga di Poveri, ma belli, filmata da Dino Risi a partire dal 1957), il napoletano (il cui impiego filmico risale addirittura agli inserti cantati nelle sceneggiate filmate all’epoca del muto) e il siciliano (dai film sulla mala, alle commedie "erotiche" di Germi, alle farsacce di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia), seguiti, più o meno a pari merito, dalle varietà pugliesi (da Lino Banfi a Sergio Rubini), lombarde, romagnole, venete... Ultima, in ordine cronologico, la fortuna del toscano, a partire dalla serie di Amici miei (1975 e successivi) per finire con Benigni e con i più scialbi Nuti, Benvenuti, Pieraccioni e compagni. Ma le sfaccettature glottologiche della penisola continuano a interessare i nostri cineasti non soltanto sul versante dei dialetti, ma anche su quello delle varietà sociali e professionali. Come non ricordare, dunque, il Moretti di Ecce bombo (1978) e soprattutto di Palombella rossa (1989), caricatura del "giornalese" (come del "giovanilese" e del "politichese" era il primo film) pieno soltanto di luoghi comuni e di «plastismi» (come li avrebbe chiamati, qualche anno fa, la linguista Ornella Castellani Pollidori): «Lei parla in modo un po’ superficiale – sospira Moretti, discutendo con una giornalista che imbelletta le proprie domande a suon di tensione morale, rapporto in crisi, fuori di testa, Kitsch, chip, trend negativo – chi lo sa come scrive? [...] Dove l’andate a prendere queste espressioni?! [...] Come parla?! Le parole sono importanti! [...] Non riesco nemmeno a ripeterle queste espressioni. Noi dobbiamo essere insensibili. Noi dobbiamo essere indifferenti alle parole di oggi. [...] Chi parla male pensa male! E vive male. Bisogna trovare le parole giuste!». Lo snobismo non s’addice all’osservazione linguistica (né a quella scientifica in generale, ovviamente), e dunque possiamo reperire utile esemplificazione anche in film, forse esteticamente discutibili, attenti a ritrarre la lingua dei nuovi ricchi o arricchiti: dagli "yuppies" agli industrialotti lombardi abilmente "vocalizzati" da caratteristi di vaglia (Jerry Calà, Massimo Boldi, Ezio Greggio...) in tanti film dei fratelli Vanzina o di Enrico Oldoini. Il passaggio dei media da «scuola di lingua» a «specchio delle lingue» (Raffaele Simone) sembra pertanto ormai definitivamente compiuto e, secondo i critici più pessimisti, destinato a cedere il passo alla distruzione della lingua italiana.

 


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