di Francesca Serafini*

«Tanto per cominciare, il mio cazzo si meriterebbe un nome più decoroso. Non è giusto chiamarlo cazzo. Il mio cazzo non fa cazzate; non è un cazzaro; non cazzeggia».

Basta questa provocazione di Tiziano Scarpa – tratta da Corpo (2004), un curioso glossarietto letterario – per spiegare come i termini d’àmbito sessuale presentino da subito un problema linguistico: il valore dispregiativo generalmente attribuito loro, e il proliferare di derivati che nell’uso e nella percezione comuni tendono a dissiparne il legame col loro significato originario.

Processo nei confronti del quale aveva già messo in guardia Italo Calvino nel 1978 – quando invitata a usare proprio il termine cazzo in modo non automatico, «se no, è un bene nazionale che si deteriora» – e che sembra del tutto compiuto appena due anni dopo nelle parole di Alberto Arbasino (Paese senza), per cui era già diventato «un intercalare irreale, una interiezione come “poffare!” e “diancine!”, uno sfiatatoio come “cioè”».

Lo “sfiatatoio” è l’approdo a cui tendono molte parole relative al sesso. Ma il loro viaggio parte da lontano e quel viaggio, quasi sempre, parte da una metafora, come è il caso di cazzo, per intenderci.

Legame magico tra parola e oggetto

La sua etimologia è controversa ma, stando al DEI, deriverebbe da una voce greca che significava‘albero maestro della nave’, con evidente analogia nella forma. Il ricorso a immagini figurate è tipico del gergo, e permette a un gruppo ristretto di individui di creare complicità e un’intesa esclusiva, come nel giovanilese.

Nel caso delle parole del sesso, poi, agisce una molla ulteriore al bisogno di intimità (concetto su cui converrebbe leggere Georg Simmel) che di certo non manca, e il perché lo ha spiegato Galli de’ Paratesi nel suo libro Le brutte parole. Semantica dell’eufemismo (1969), ancora oggi punto di riferimento ineludibile:

«Il legame tra l’oggetto che una parola designa e la parola stessa è psicologicamente tanto forte da far sì che la carica emotiva che noi associamo all’uno si rifranga anche, con pari intensità, sull’altra. Nelle civiltà primitive tale identificazione tra parola e oggetto […] veniva vissuta come qualcosa di magico. Nelle lingue moderne […] Certe parole evocano in noi, oltre ad un concetto, anche la rappresentazione particolare che noi ne abbiamo ed il modo in cui lo viviamo: piacevole o spiacevole, temibile o no».

Il risultato è una costante spinta all’interdizione – una tendenza psicologica all’auto-censura che è ancora più pervasiva della censura imposta, tutto un altro capitolo da aprire – contrastata nei secoli con il ricorso all’allusione, attraverso l’uso eufemistico di parole e circonlocuzioni sostitutive, costantemente orientate a rimuovere tutto ciò che viene avvertito come “osceno”, con conseguenze linguistiche non solo nel lessico.

Fichi e metafore

Un esempio per chiarire. Come mai dal pero viene la pera, dal melo la mela, dall’arancio l’arancia e dal fico il fico? Il fatto è che la somiglianza dell’organo sessuale con il frutto sezionato ha portato a una precoce diffusione del termine col significato traslato, e dunque il cambio di genere e questa anomalia morfologica non rappresentano altro che il tentativo di rimuovere il riferimento osceno dalla parola d’uso quotidiano.

È proprio in risposta a questa spinta – avvertita in modo diverso da cultura a cultura – che si deve l’abbondanza di termini relativi al sesso (di cui si può avere un’idea consultando l’accurato Dizionario del lessico erotico Boggione-Casalegno); un repertorio, come tipico del gergo, precario, in continua evoluzione e dall’alta carica espressiva.

Il distanziamento figurato permette di avvicinarsi all’oggetto indicibile, ma non appena la metafora è sciolta, generalmente intesa, ecco che il termine assume di nuovo un connotato osceno (perché rende riconoscibile l’oggetto indicibile) e cade in disgrazia, confluendo molto spesso nel mare magno del turpiloquio.

Una sfiga orfica

In questo inceppo sta tutta la natura del lessico sessuale. Si potrebbe dire che qui, più che altrove, la parola è “orfica”, nel senso di ‘relativa a Orfeo e al suo mito’. Resta in vita finché Orfeo mantiene il patto. Ma non appena si volta per vedere Euridice (e dunque abbracciare il suo significato pieno) inevitabilmente muore, precipitando fatalmente nello “sfiatatoio” di cui parlava Arbasino, dove etimi e significati si confondono fino a non riconoscersi più.

Si pensi a sfiga per ‘sfortuna’. Scrive Carlo Fruttero nel Dizionario affettivo della lingua italiana (2008): «La “s” privativa esalta la cosa negata, massimo bene dunque dell’uomo, origine del mondo». Ma quanti sono gli italiani con la stessa sensibilità linguistica di Fruttero, in grado di ricollegare il termine alla sua etimologia? Ancora una volta si rimuove nella percezione l’elemento “sconveniente”. E allora: quali parole usare quando si intende raccontare gli oggetti e le azioni del sesso?

Dal cadurcum allo sventrapapere

Quando, nel 1965, Pier Paolo Pasolini gira l’Italia per preparare il documentario sui costumi sessuali Comizi d’amore si accorge che: «In generale la gente queste cose non le conosce o non ne conosce la terminologia. Perché per parlarne o ci sono le cosiddette “brutte parole” oppure i termini troppo specifici».

Pasolini coglie l’aspetto centrale del lessico “erotico” che ancora oggi si muove nell’italiano, ma non solo, tra gli stessi estremi: l’algido repertorio medico-scientifico (i vari vagina, pene, per intenderci, dall’alto valore denotativo) e il gergo, con le sue infinite varianti (tutte con un alto valore connotativo).

La consapevolezza della molteplicità di varianti in àmbito gergale ha origine antichissima. Già in un glossario latino-eugubino trecentesco colpisce l’accumulo sinonimico con cui viene definito lo casso (‘hic priapus, hoc veretrum, hoc cadurcum, hic penes, nis, hoc fascinum, ecc.’), secondo un gusto nei secoli diventato proprio della tradizione comico-realistica che passa per i sonetti di Belli (si pensi a Er padre de li santi e La madre de le sante) per arrivare ai nostri giorni fino a Roberto Benigni e a una sua storica apparizione in prima serata su Rai Uno (www.youtube.com/watch?v=PvjHOzqMbs0).

Le varianti dialettali

Per spiegare le ragioni profonde di questo confinamento e l’origine di tutti i tabù, naturalmente il linguista non basta (non a caso Pasolini in Comizi d’amore coinvolge anche Cesare Musatti); ma c’è una cosa che può fare. E cioè notare come il gergo dalle nostre parti moltiplica le sue varianti anche in senso regionale, coerentemente con tutta la storia della lingua italiana tout court, quasi per ristabilire in questo contesto quel legame magico tra parola e oggetto di cui parlava Galli de’ Paratesi a proposito dei popoli antichi, e che sopravvive, secondo Luigi Meneghello, proprio nella parola dialettale che è «sempre incavicchiata alla realtà, per la ragione che è la cosa stessa, appercepita prima che imparassimo a ragionare, e non più sfumata in seguito dato che ci hanno insegnato a ragionare in un’altra lingua» (Libera nos a Malo, 1963).

Sbrogliare la matassina

Non sarà un caso che per far riferimento a un aspetto del sesso – sia pure con coerente presa di distanza – si fa ricorso al dialetto anche in un romanzo che programmaticamente lo rifiuta (Il tempo materiale di Giorgio Vasta, del 2008):

«A Palermo avere un’erezione si dice sbrogliare. Il pene non eretto è un grumo, una matassina di carne. L’eccitazione lo sgomitola, lo svolge nella sua estensione. Lo sbroglia. Ma questa è un’espressione dialettale e io in dialetto non parlo. […] Quando le parole del dialetto si sono addormentate le prendo in mano e studio come sono fatte: come tutto ciò che è naturale mi sembrano artificiali».

Con una piccola forzatura, la conclusione a cui arriva Vasta può attagliarsi anche al nostro ragionamento. Dal momento che non esiste niente di più naturale del sesso – da cui discende la vita stessa – e nondimeno, a osservarne la lingua con occhi da entomologo, non possiamo far altro che evidenziarne gli artifici. Come quelli più beceri e maschilisti (su questo aspetto è fondamentale Marina Yaguello, Le parole e le donne, del 1979), quelli più fantasiosi che muovono al riso. E come quelli che più cupamente inchiodano la parola ai suoi limiti.

*Francesca Serafini (1971), laureata in storia della lingua italiana, si è occupata della lingua del sesso nella postfazione al libro di Roberto Carvelli La comunità porno – La scena hard italiana in presa diretta (Coniglio editore, 2004). Ha scritto diversi saggi di linguistica fra cui Punteggiatura (Rizzoli, 2001), o, con l’Accademia degli Scrausi, Parola di scrittore (minimum fax_, 1997). Si occupa di cinema (nel 2002 ha curato per minimum fax i saggi_ I tre usi del coltello di David Mamet), di letteratura (recentemente ha pubblicato un racconto nell’antologia Auroralia curata da Gaja Cenciarelli) e di televisione. Ha scritto il film L’ombra del figlio per RTSI con Daniela Morelli e ha collaborato con diversi ruoli (story editor, sceneggiatrice, script editor_,_ headwriter_) a serie televisive di Rai e Mediaset (La Squadra,_ Medicina Generale_, ecc.), alternando la scrittura con l’attività didattica e di ricerca. Tiene un corso di scrittura televisiva per minimum fax e da anni è consulente di varie case editrici fra cui Bompiani e Mondadori Ragazzi._