19 luglio 2012

Il femminile in grammatiche, dizionari, manuali (e giornali)

Sul problema del femminile e del maschile nella lingua italiana, accanto alle soluzioni indicate da Alma Sabatini a partire dal 1987 con le famose Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, c'è stata, in anni ormai lontani, anche una riflessione teorica: la relazione tra lingua e sesso fu analizzata, nel 1986, da Patrizia Violi nel saggio L'infinito singolare. Considerazioni sulla differenza sessuale nel linguaggio. E nel 1995, in un convegno a Sappada intitolato "Dialettologia al femminile" la questione fu affrontata dal punto di vista dei linguisti (e soprattutto delle linguiste e delle dialettologhe), dando come risultato il volume Donna e linguaggio, curato da Gianna Marcato (che aveva analizzato a fondo la questione nel 1988 in Lingua e sesso). Tra questi modi diversi di affrontare la questione, uno pragmaticamente orientato a rilevare i casi di disparità linguistica tra donna e uomo e a fornire soluzioni concrete, l'altro volto a indagare come dietro all'apparente neutralità del sistema linguistico si nascondano la differenza e la discriminazione sessuale, l'ultimo impegnato dal fronte scientifico ad analizzare i vari aspetti della variabile sesso nei processi di mutamento linguistico, il dibattito si è sviluppato con fasi alterne: ogni tanto la questione sembra assopirsi e «passare di moda», per poi risvegliarsi occasionalmente, su sollecitazione dei media, tutte le volte che un termine declinato al femminile comincia a diffondersi (basti pensare al clamore suscitato, nel corso degli anni, tutte le volte che una donna ha firmato come sindaca un atto ufficiale o alle resistenze nell’uso di forme grammaticalmente del tutto legittime come avvocata e ministra).
 
La flessione nominale androcentrica
 
La portata del problema, che indubbiamente sarebbe di respiro più vasto, e che negli Stati Uniti ha preso in considerazione l'intero rapporto donna-linguaggio, sembra dunque ridursi e restringersi, per quanto riguarda la lingua italiana, soprattutto al problema del nome delle professioni e delle cariche al femminile. Questo apparente immiserimento della questione può aiutare a liberarci con esempi pratici dal pregiudizio e dal luogo comune secondo i quali, imponendo un certo uso linguistico, si possano modificare anche l'atteggiamento, il costume, la mentalità a essi sottostanti. Per quanto riguarda la lingua italiana, la flessione nominale è indubbiamente androcentrica, nel senso che il maschile è usato per indicare il genere maschile vero e proprio (presidente, prete, bue), il semplice maschile grammaticale (lampo, dente, fiume), espressioni astratte sostantivate (il bello, il giusto, il vero), la specie (l'Uomo 'la razza umana'): quali sono le conseguenze di questa griglia linguistica impostata sui generi maschile/femminile (ma soprattutto, come abbiamo visto, sul maschile?).
 
He , she, it, anche l’inglese è sessuato
 
Chi parla lingue prive di genere (o meglio, di genere naturale o logico), come per esempio l'inglese, dovrebbe essere più libero dai condizionamenti linguistici, mentre chi parla una lingua in cui esistono i generi è obbligato a far rientrare le rappresentazioni simboliche nelle caselle grammaticali preesistenti. Ma le cose non stanno esattamente così: in inglese la distinzione tra maschile, femminile e neutro avviene solo con i pronomi di terza persona singolare: he/him "lui" (soggetto/oggetto), she/her "lei" (soggetto/oggetto), it "esso" (neutro); oppure, con i pronomi e gli aggettivi possessivi corrispondenti: his "suo-di lui", her "suo-di lei", its "suo-di quella cosa". Non esiste, come si vede, una forma di pronome personale di terza persona non marcato per sesso: sono stati proposti nuovi pronomi "non sessuati", ma si è trattato di tentativi isolati e velleitari. Questo per dire che non sarà l'eliminazione della distinzione tra i generi grammaticali, o l'imposizione di forme pronominali non marcate sessualmente a modificare le rappresentazioni simboliche interiorizzate, basate su una visione del mondo centrata sull'elemento maschile.
 
Cambiare la visione del mondo nelle grammatiche
 
I casi di azione linguistica pianificata di cui si è fatta esperienza nel passato (penso alla campagna del fascismo contro i forestierismi, o anche alla politica francese di opposizione alla diffusione dell'angloamericano) non hanno portato a risultati concreti, dimostrando, se ce ne fosse bisogno, che la lingua rispecchia e segue la realtà, e non sarà modificandola a tavolino che riusciremo a modificare e a migliorare la situazione. Questo non vuol dire, naturalmente, che non si debba fare niente, ma mi sembra che i campi d'intervento debbano essere, per quanto riguarda l'azione linguistica, altri. Mi riferisco, in particolare, agli strumenti attraverso i quali la lingua viene convenzionalmente rappresentata e descritta: le grammatiche, i dizionari, i manuali di divulgazione linguistica, i mezzi d’informazione. A proposito delle prime, credo che più che il problema dell'accordo di genere o del pronome al maschile, si debba considerare criticamente il contenuto dei manuali di grammatica, e fare attenzione alla visione del mondo riproposta attraverso gli esempi: per intenderci, chi per mestiere scrive grammatiche della lingua italiana, non dovrebbe mai ricorrere a esempi di fraseologia in cui siano riconoscibili modelli stereotipati di comportamenti sessisti, come avveniva, invece, nei sussidiari e nelle grammatiche fino alla prima metà del secolo scorso. Da tempo ogni grammatica dedica alla questione uno spazio particolare. In Lingua comune, per esempio, un riquadro intitolato “La ministra è stata ricevuta” spiega che le difficoltà nell’utilizzare i femminili dei nomi indicanti professioni e cariche sono culturali, più che linguistiche, e vengono date indicazioni pratiche sulle soluzioni esistenti.
 
No alla donna giudice
 
Per quanto riguarda i dizionari della lingua italiana, almeno fino agli anni Sessanta la dizionaristica, cioè la tecnica di compilazione dei dizionari, era in mano agli uomini, e dunque la visione del mondo registrata nei vocabolari non poteva che essere «al maschile». Da allora, però, le cose sono cambiate: le redazioni delle imprese lessicografiche promosse dall'editoria italiana sono composte, al contrario, soprattutto da donne (anche se i dizionari hanno continuato, almeno fino al 2008, a essere diretti solo da uomini), e questo cambiamento ha avuto come conseguenza, nel corso degli ultimi decenni, una progressiva e crescente attenzione alla registrazione di esempi e definizioni non basati su formule stereotipate e idee preconcette. Non mi soffermerò sulle scelte operate nella terza edizione del Vocabolario Treccani, già descritte in altra occasione, tutte coerenti e in linea con queste considerazioni, ma su quelle presenti nei manuali di divulgazione linguistica, concepiti per spiegare in modo semplice le regole e le consuetudini della lingua italiana, e destinati a essere letti da un gran numero di lettori. In queste guide si è posta particolare attenzione all’argomento. Per esempio, in quelle firmate con Giuseppe Patota, è stato sempre dedicato largo spazio al problema dei nomi di professione al femminile, dando concrete indicazioni sul loro uso. Oltre a ricordare che verso questi termini ci sono ostilità e preconcetti, abbiamo dato indicazioni concrete, riassumibili così: non lasciare nomi maschili riferiti a donne: la ministra Paola Severino, non il ministro Paola Severino; la magistrata Simonetta Matone, non il magistrato Simonetta Matone; evitare i nomi di professione che terminano in -essa (tranne quelli già affermati, come dottoressa, studentessa, ecc.), perché hanno una sfumatura ironica o peggiorativa: la giudice Francesca Vitale, non la giudichessa Francesca Vitale; la vigile Luisa Masi, non la vigilessa Luisa Masi; la presidente Anna Maria Tarantola, non la presidentessa Anna Maria Tarantola; evitare di aggiungere la parola donna al nome maschile che indica la professione o la carica (donna giudice, donna poliziotto, notaio donna, chirurgo donna, ecc.), perché questo tipo di accostamento, solo apparentemente neutro, sposta l’attenzione sul sesso della persona invece che sul ruolo professionale svolto. Si tratta di soluzioni che suscitano talvolta reazioni di rifiuto, in base a pregiudizi ideologici o estetici. In realtà sono parole come le altre, né belle né brutte: l’unica differenza sta nel fatto che non siamo abituati a usarle. Solo continuando a diffondere i nuovi termini, attraverso gli strumenti indicati e i mezzi di informazione, si potrà arrivare a un cambiamento nelle abitudini linguistiche realmente condiviso dai parlanti.
 
Bibliografia di riferimento
 
Sabatini, A. (1987), Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, in Il sessismo nella lingua italiana, Commissione Nazionale per la realizzazione della parità tra uomo e donna Roma, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri.  
 
Violi, P. (1988), L’infinito singolare. Considerazioni sulla differenza sessuale nel linguaggio, Verona, essedue edizioni.
 
Marcato, G. (1988), Italienisch: Sprache und Geschlechter. Lingua e sesso . Lexicon der Romanistischen Linguistik,a cura diGünter Holtus , Michael Metzeltin, Christian Schmitt, Tübingen, Narr, pp. 273-46.
 
Marcato, G. a cura di (1995), Donna e linguaggio, Padova, CLEUP.
 
Robustelli, C., G. Kustatscher (2008), Buongiorno dottoressa! Vademecum per la sensibilizzazione all’uso di una lingua non sessista, Komitees für Chancengleichheit in den Sanitatsbetrieben, Bozen, Meran, Brixen, Bruneck.
 
Serianni, L., Della Valle, V., Patota G., Schiannini D., (2011), Lingua Comune. La grammatica e il testo, Milano, Bruno Mondadori.
 
Armeni, R., a cura di (2011), Parola di donna, Milano, Ponte alle Grazie.
 
Della Valle, V., Patota, G. (2011), Viva la grammatica!, Milano, Sperling & Kupfer.
 
Della Valle V., Patota G., (2012), Ciliegie o ciliegie? e altri 2406 dubbi della lingua italiana, Milano, Sperling & Kupfer.
 
 
 

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