Il binomio maschile/femminile evoca, nella mappa concettuale di molti, una distinzione oppositiva contraddistinta da numerose asimmetrie riconducibili alle secolari disparità socioculturali tra uomo e donna. Tali sbilanciamenti si riversano anche nel sistema linguistico riguardo al quale la tematica si è sviluppata principalmente attraverso due orientamenti; in essi il genere (in ingl. gender) è rispettivamente inteso come variabile sociolinguistica, a cui imputare la (effettiva o presunta) differenza nel modo di esprimersi da parte dei due sessi, oppure come categoria grammaticale.

Quello che gli uomini e le donne (non) dicono

Che uomini e donne si servano dello strumento linguistico in maniera diversa è opinione diffusa tanto nella gente comune, quanto negli specialisti che hanno affrontato, con vari approcci, la questione, raggiungendo spesso risultati contraddittori. Comune denominatore dell’una e degli altri la tendenza a restituire una rappresentazione negativa del linguaggio femminile che trova molte corrispondenze anche nell’immaginario letterario sul modo di parlare (e scrivere) dei due sessi già a partire dal mondo antico.

La lingua delle donne sarebbe distinta da quella maschile, a lungo identificata come la varietà normativa, e si presenterebbe caratterizzata da una serie di fenomeni che riflettono la millenaria condizione subalterna femminile. Per timore di incorrere in giudizi negativi, le donne tenderebbero a essere conservative, a curare maggiormente la correttezza formale, ad aderire allo standard, o comunque ai moduli percepiti come prestigiosi (banditi quindi dialettalismi e popolarismi, come anche il turpiloquio). I loro enunciati sarebbero puntellati di segnali discorsivi ed espedienti attenuativi che denotano incertezza ed esitazione (e dunque debolezza), e il loro stile sarebbe improntato a una maggiore gentilezza (politeness o “strategia del garbo”) realizzata mediante l’uso di un’abbondante aggettivazione esornativa e il largo impiego di espressioni affettive, di diminutivi, di vezzeggiativi e alterati in genere che tradiscono un approccio emozionale, ingenuo e infantile. Le femmine sarebbero, inoltre, più dei maschi, fastidiosamente loquaci e prolisse, tenderebbero a pianificare diversamente il discorso, a selezionare e sviluppare argomenti specifici, in alcuni casi in esse (quasi) esclusivi (ad esempio quelli relativi alla cura della casa, alla maternità, alla cosmesi, alla moda e così via). In realtà gli esperimenti condotti hanno potuto assai di rado confermare un simile quadro, mentre sempre più chiaramente si è presa coscienza di un consolidato orizzonte di attese nei confronti del comportamento comunicativo dei due sessi che è alla base delle immagini preconcette attribuite al linguaggio maschile e femminile. In altre parole ci si aspetta che uomini e donne, in quanto tali, si esprimano ricorrendo a precise strategie, si servano di determinate espressioni e ne evitino altre. La consapevolezza di questa forte norma e aspettativa sociale, insieme ai moderni cambiamenti che hanno investito anche le relazioni tra i sessi, vanno progressivamente attenuando nell’opinione comune la percezione di una differenza. Accanto a questa neutralizzazione della diversità, almeno nell’idea che i parlanti hanno del loro linguaggio, tuttavia, si assiste, in tempi recenti all’insorgenza di nuovi stereotipi di genere. Si va in particolare affermando un’immagine sostanzialmente negativa della lingua usata dai maschi che, come è avvenuto per quella femminile, si configura come un costrutto sociale. I sondaggi più recenti tratteggiano gli uomini tendenzialmente poco inclini ai sentimentalismi, orientati verso uno stile comunicativo privo di coinvolgimento (in opposizione alla soggettività emotiva femminile), distaccati, poco collaborativi, spesso disinteressati, disattenti e sbrigativi. Sotto il profilo dell’organizzazione testuale il discorso maschile viene percepito come schematico, sintetico, quasi minimalista (anche se talvolta caratterizzato da un eccesso di precisione letto come indice di esibizionismo), a tratti superficiale e svogliato, privo di fantasia, ma anche sciatto, esitante e sconclusionato, fino a essere ritenuto perfino scortese e in alcuni casi arrogante.

Scusi, lei è signorino?

Le riflessioni sul genere come categoria grammaticale sono sfociate nel dibattito sul sessismo che in Italia (come altrove) si è sviluppato nel contesto di una linguistica femminista militante. Nel nostro paese il fenomeno ha ricevuto, intorno alla metà degli anni Ottanta, un appoggio governativo ufficiale, che è confluito, concretamente, in una linea applicativa, rappresentata dai tentativi riformistici proposti da Alma Sabatini. La studiosa curò la stesura di un documento, istruttivamente intitolato Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana (1986; 19932) promosso dalla Presidenza del Consiglio e dalla Commissione per la parità e per le pari opportunità (istituita dal governo allora in carica). L’intervento, denunciando i residui ideologici di stampo androcentrico, metteva in luce gli aspetti più discriminanti nei confronti della donna nel sistema della lingua italiana, e proponeva in appendice una serie di suggerimenti mirati appunto a eliminare le dissimmetrie, talvolta rafforzate anche dalla scuola, più esplicitamente sessiste. Tra le Raccomandazioni si ricorderà la proposta di evitare il maschile non marcato (quello cioè che ingloba ambedue i generi), e quindi la preferenza per locuzioni come i diritti della persona o diritti umani e non i diritti dell’uomo; di eliminare l’articolo davanti ai cognomi di donna, quindi Hack e non la Hack, così come Rubbia e non il Rubbia; di abolire signorina (simmetricamente alla scomparsa di signorino) e signora quando è possibile usare un titolo professionale; di utilizzare il femminile di nomi professionali o di cariche, come ad es. la vigile, la sindaca, evitando il suffisso -essa, in molti casi ancora negativamente connotato (avvocatessa, presidentessa); di accordare il genere degli aggettivi e dei participi con quello dei nomi che sono in maggioranza (Liliana, Elvira, Gianni e Ida sono arrivate, anziché arrivati) o in caso di parità con l’ultimo nome (Marco, Ugo, Luana e Sandra sono partite, anziché partiti).

Sebbene per più aspetti poco condivisibili, e di fatto scarsamente sostenute da studiosi e intellettuali, le proposte di Alma Sabatini ebbero importanza nel sottolineare l’esigenza di un adeguamento della lingua a mutamenti radicali della società italiana, come quello dell’emancipazione femminile e dell’uguaglianza tra i sessi. Negli anni alcuni dei suggerimenti avanzati nelle Raccomandazioni sono gradualmente penetrati nell’uso, come l’eliminazione dell’articolo davanti ai cognomi di donna e l’impiego, moderatamente in aumento, di nomi professionali o di cariche come avvocata, ingegnera, ministra.

In via generale, tuttavia, si è fatta strada la consapevolezza della necessità di un cambiamento a monte, come molti studiosi hanno sottolineato, che sradichi gli stereotipi innanzitutto nella mente della gente, piuttosto che negli aspetti strutturali del sistema linguistico, la cui funzionalità dipende dal contesto e soprattutto dall’uso, e quest’ultimo, a sua volta, è correlato a fattori storici, sociali, economici, culturali, a modelli ancestrali. Come dire: è inutile affannarsi a cambiare le parole se non si modificano le immagini che esse evocano.

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*Rita Fresu (Roma, 1967) è professore associato di Linguistica italiana presso l’Università di Cagliari. Si è occupata di scritture non istituzionali di area mediana e alto-meridionale, di rapporti tra tipologia testuale e fenomeni linguistici, di questioni di gender_nella storia dell’italiano. Ha pubblicato diversi studi filologico-linguistici, molti dei quali relativi a scritture femminili (laiche e religiose). Ha condotto indagini sulla produzione narrativa e teatrale di Massimo Bontempelli. Recentemente si è dedicata alla lingua dell’editoria educativa e della paraletteratura femminile tra Otto e Novecento e alla letteratura femminile contemporanea in Sardegna. Collabora a numerose opere lessicografiche._