di Gianna Marcato*

Un’attenta osservazione delle varietà di tradizione orale che all’italiano unitario si affiancano, condividendo una storia secolare, apre uno spaccato interessante sul modo in cui la figura femminile emerge, o viene nascosta, dalla lingua. Diversi sono i protagonismi femminili mediati dai dialetti, affidati non solo al lessico ed alle espressioni idiomatiche. In veneto, ad esempio, la trasparenza di genere è vistosamente garantita dalla morfologia: granda si oppone a grando, nevoda a nevodo ‘nipote’, anche dove l’italiano prevede una sola terminazione in -e. L’uso di capa de la cale, con evidente rifiuto del maschile inclusivo, segnala l’importanza del ruolo femminile in quella Chioggia in cui Bruno Migliorini colse il termine madresìa ‘cura amorevole’, suggerendo l’opportunità di inserire ufficialmente nella lingua questo tratto di regionalità. Per lunga tradizione persino il cognome viene adeguato al genere: se riferito a donna, Minto diventa Minta, Tessarolo diventa Tessarola.

La norma del comportamento maschile

Una miniera di riferimenti a quel modellamento culturale che, attraverso la lingua, agisce nel sociale la troviamo nelle espressioni idiomatiche relative alla donna trasmesse dai mille dialetti d’Italia: da nord a sud emerge una impressionante quantità di luoghi comuni condivisi. Valutando correttamente la funzione dei proverbi, sarebbe sbagliato considerarli la descrizione di una realtà di fatto: siamo piuttosto di fronte a strategie comunicative messe in atto per modellare i comportamenti secondo le esigenze della cultura dominante, cioè partendo da un’ottica in cui il comportamento maschile, dato per “normale” in assoluto, si fa, in quanto tale, elemento di paragone, “norma” che non ammette relativizzazioni.

Li paroli su comu li fimmini

Ecco allora come la lingua ci consegna alcune immagini in cui l’elemento femminile si connota di totale negatività o inconsistenza, a fronte di un totalizzante predominio maschile, perché, con metafora presa dal mondo animale, unu è lu gaddu (gallo) ntra na casa, o, prendendo a pretesto la foggia del vestire e dell’acconciarsi, quantu va un capèddu un cci vannu centu fodèddi (quanto vale un cappello non valgono cento fazzoletti), capiddi curti ciriveddu longu, capiddi longhi ciriveddu curtu (capelli corti cervello lungo, capelli lunghi cervello corto), oppure, con sempre più esplicita eloquenza, vali cchiù un omu di pàgghia (paglia) chi na donna d’oru, come sentenziano i siciliani. Li paroli su comu li fimmini, li fatti su comu li màsculi, dice ancora la Sicilia, per sancire la vacuità femminile che nulla sa concretizzare. Le done xe gran chiacolone (chiacchierone), le fa eco il Veneto, precisando che le arme de le done sono la lingua, le ugne (unghie), le lagrime . Se la donna è puramente parola ed emotività, è vero anche che delle parole di donna c’è una atavica paura, quasi come di un’antica magica saggezza che si voglia esorcizzare: consegi (consigli) de dona o i scota o no i val gninte (o scottano o non valgono niente), sentenzia il Veneto; pure ca è ssignèra (sincera) la fòmmena te dice sembre la bbuscéje (bugia), rincara l’Abruzzo.

Piacente, silenziosa, alacre e sottomessa

Stando così le cose, da un capo all’altro d’Italia si pare concordare sul fatto che è bene che la donna resti sottomessa: nun ti fari méttiri la fadèdda (la gonna) da tò mugghieri, raccomanda il siciliano; no farte metare e cotoe (le gonne) in testa da to mujer ingiunge il veneto. E quindi, per non fare la sapientona che vuole dotorar, la parona che vuole portar le braghesse, deve saper tacere. In Veneto viene detto in modo spregiativo che bastano do done e un oca a fare un marcà (un mercato), in Abruzzo che la fommene ciarliere (la donna chiacchierona) duva va porta la fire (la fiera). In sostanza il modello suggerito dai proverbi nel mondo dei dialetti è quello di una donna che, piacente, silenziosa, alacre e sottomessa, sappia starsene a casa:se a Venezia vale il detto che eà piasa, che eà tasa, che eà staga casa, anche a Pescara, la fommen’ areterète è ddisiderète (la donna riservata è desiderata). Ci si potrebbe interrogare sulla ragione per cui una siffatta fraseologia sia stata tramandata anche dalla componente femminile della società, all’interno di una tradizione orale in cui la trasmissione della lingua è affidata unicamente alle scelte dei parlanti. C’è chi spiega il fatto ricordando che proverbi e frasi sentenziose erano per lo più usate dalle anziane custodi della tradizione, per tenere a freno le trasgressioni giovanili, possibili fonti di pericolo per le nuove generazioni, ribadendo una serie di principi a cui, magari a malincuore, era utile attenersi.

In realtà bisogna considerare che quella che domina nei proverbi è la dimensione empatica, una sorta di strizzatina d’occhio rivolta in direzione del più forte, che porta a leggere il mondo schierandosi dalla parte dei luoghi comuni vincenti: l’ottica dominante ha da sempre la possibilità di prevalere, determinando atteggiamenti mimetici anche nell’uso della lingua, indipendentemente dal fatto di aderire o meno al contenuto dell’enunciato.

Il dialetto parlato dalle donne

La dialettologia, scienza che si occupa dei dialetti nella loro dimensione linguistica e socio-antropologica, ha sottolineato nei primi decenni del ’900 aspetti diversi della lingua al femminile, andando dalla curiosa teorizzazione di G. Goidànich, secondo cui la tendenza all’innovazione tipicamente femminile dipendeva da una “corruzione” della lingua, essendo la donna «per l’udito, la memoria e l’attività muscolare più avaramente dotata che l’uomo», alla messa in risalto della conservatività femminile, da parte di C. Tagliavini e C. Merlo, che descrivono la donna come custode della purezza dell’idioma. G. Rohlfs, G. Tropea, E. Giammarco, guardando alla Calabria, alla Sicilia, all’Abruzzo, rivelano la presenza di usi lessicali diversi da parte dei due sessi, sottolineando l’isolamento femminile. Diversi sono anche i comportamenti nella trasmissione delle parlate locali: è per lo più la donna a decretare la cesura con la tradizione, soprattutto nei rapporti con le figlie femmine, come mostrano numerose ricerche, i cui risultati sembrano coincidere da Gressoney alle isole.

*Gianna Marcato insegna Dialettologia italiana all’Università di Padova. Sottolineando il valore sociolinguistico dei dialetti, ha messo a fuoco l’importanza di guardare alla lingua come ad una speciale “azione sociale”, atta a modellare i comportamenti. Guida allo studio dei dialetti_, Padova, Cleup, 2011, è la sua più recente pubblicazione. Interessata particolarmente alla dimensione femminile del linguaggio, ha curato l’edizione di_ Donna & linguaggio_, Padova, Cleup, 1995; è autrice, tra l’altro, di_ Italienisch: Sprache und Geschlechter. Lingua e sesso_, in G. Holtus et al. eds.,_ Lexicon der Romanistischen Linguistik_, Tübingen, Niemeyer, 1988, IV, pp. 237-246; e, in collaborazione con E.M. Thüne, di_ Gender and female visibility in Italian_, in M. Hellinger et al. eds.,_ Gender Across Languages_, Amsterdam, Benjamins, 2002, pp. 187-217. Prendendo spunto da una raccolta di testi dialettali, ha pubblicato, col contributo della Regione Abruzzo,_ La bella signora e lu re. Donna e linguaggio_, Ideasuoni ed., 2003._