di Cecilia Robustelli*

Con l’espressione sessismo linguistico si fa riferimento alla nozione linguistic sexism elaborata negli anni ’60-’70 negli Stati Uniti nell’ambito degli studi sulla manifestazione della differenza sessuale nel linguaggio. Era emersa infatti una profonda discriminazione nel modo di rappresentare la donna rispetto all’uomo attraverso l’uso della lingua, e di ciò si discuteva anche in Italia soprattutto in ambito semiotico e filosofico. Nel 1987 l’uscita di un rivoluzionario volumetto, Il sessismo nella lingua italiana di Alma Sabatini, pubblicato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, allarga il dibattito all’ambito sociolinguistico e arriva a interessare attraverso la stampa anche il grande pubblico. Lo scopo del lavoro era politico e si riallacciava a quello di (ri)stabilire la “parità fra i sessi” – obiettivo all’epoca di primaria importanza – attraverso il riconoscimento delle differenze di genere (inteso come gender, concetto elaborato anch’esso in ambito statunitense, cioè l’insieme delle caratteristiche socioculturali che si legano all’appartenenza a uno dei due sessi). Al linguaggio viene riconosciuto un ruolo fondamentale nella costruzione sociale della realtà e, quindi, anche dell’identità di genere maschile e femminile: è perciò necessario che sia usato in modo non “sessista” e non privilegi più, come fa da secoli, il genere maschile né tantomento continui a tramandare tutta una serie di pregiudizi negativi nei confronti delle donne, ma diventi rispettoso di entrambi i generi.

Da evitare le cene “con una bionda”!

Tra le pieghe del linguaggio si nasconderebbero infatti trabocchetti sessisti nei quali finiscono regolarmente i parlanti meno accorti ma inciampano anche quelli più scaltriti: l’espressione i diritti dell’uomo escluderebbe di fatto la donna, un titolo di giornale come Cena con bionda rivelerebbe un uso discriminante della sineddoche, per non parlare dei casi di polarizzazione semantica, ovviamente a danno della donna, come nella coppia il/la governante. Per aiutare i parlanti a evitare usi sessisti, il terzo capitolo del volumetto, Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, segnala cosa evitare: per esempio la concordanza al maschile di aggettivi o participi passati riferiti a uomini e donne (perché dire Anna, Giulia e Andrea non sono ancora arrivati e non arrivate?); le forme in -essa, come avvocatessa, ridicolizzate già a fine Ottocento dagli oppositori all’emancipazionismo femminile, e soprattutto l’uso della forma maschile degli agentivi che indicano cariche o titoli professionali prestigiosi riferiti a donne, come in il ministro Tina Anselmi, pericoloso retaggio di un tempo non troppo lontano in cui questi erano loro preclusi. La stampa dà in pasto al grande pubblico ministra, chirurga, ingegnera suscitando alternativamente dileggio e timida approvazione. Le articolate proposte delle Raccomandazioni resteranno a lungo in una sorta di limbo lessicale ma ciò, in fondo, prova che lo stato non intendeva intervenire in modo autoritario sull’uso della lingua italiana, come alcuni pensavano nonostante la netta dissociazione della loro autrice, e che in fin dei conti le scelte sulla lingua sono davvero in mano a chi la usa.

Possiamo davvero dire ciò che vogliamo?

La questione del sessismo linguistico non può essere certo ridotta alla scelta fra le forme ministro/ministra, come hanno fatto i media, e infatti molti studiosi ne hanno colto gli aspetti scientifici enucleandone alcune questioni linguistiche di tipo generale (Lepschy e Marcato fra i primi) che innescheranno il dibattito rivitalizzando anche filoni di ricerca cari agli studiosi del passato, come la relazione tra lingua e pensiero e l’ipotesi che la lingua condizioni il modo di pensare (Sapir-Whorf). Così già nel 1988 compare il capitolo “Lingua e sesso” nel Lexicon der Romanistischen Linguistik, cui seguiranno negli anni numerosissimi saggi sulla variazione linguistica legata al genere che costituiscono oggi un’ampia bibliografia. Di sessismo linguistico e di gender, grazie anche ai concetti di empowerment e mainstreaming sviluppati a metà degli anni ’90, si parla e si scrive anche fuori dell’accademia: oltre alla stampa, in rete, nelle stanze della politica attente al politically correct, nelle amministrazioni pubbliche, con riferimento ai testi scolastici (ricordo il progetto POLITE, Pari Opportunità e libri di testo).

Triplicano le ministre

L’italiano attuale testimonia molti tentativi di eliminare tutti quegli usi della lingua che possono dare della donna un’immagine negativa, come provano i numerosi convegni e corsi di formazione finalizzati a richiamare i parlanti a una maggiore consapevolezza del potere simbolico del linguaggio. La situazione è in movimento, ma il piatto della bilancia che la tradizione aveva appesantito di usi linguistici sessisti si va lentamente alleggerendo. Si notano una maggiore attenzione, da parte dei media, a usare il genere femminile per i titoli professionali e i ruoli istituzionali – sui maggiori quotidiani l’uso di ministra e deputata è triplicato nel quinquennio 2006-2010 rispetto al precedente – e a evitare il maschile “inclusivo”, cosicché i diritti dell’uomo viene riformulato in diritti della persona, e molti interventi “antidiscriminatori” sul linguaggio amministrativo (vedi le Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo di Comune di Firenze e Accademia della Crusca). Vivo è anche l’interesse di interpreti, traduttori, e di tutti coloro che operano in contesti internazionali (la Rete per l’eccellenza dell’italiano istituzionale (www.reterei.eu) ha dedicato la sua X giornata al tema “Politicamente o linguisticamente corretto?”, la Confederazione Svizzera ha pubblicato nel 2012 la Guida al pari trattamento linguistico di donna e uomo nei testi ufficiali della Confederazione), a riprova che lo sforzo di evitare gli usi linguistici sessisti, condiviso da altre lingue europee, è ormai diventato un fattore di mutamento linguistico transnazionale.

Bibliografia di riferimento

G. Lepschy, Lingua e sessismo, in Nuovi Saggi di linguistica italiana, Bologna, Il Mulino, 1989, pp. 61-84.

G. Marcato (a cura di), Donna e Linguaggio, Atti del Convegno Internazionale di studi Dialettologia la femminile (Sappada-Plodn, 26-30.6.1995), Padova, Cleup, 1995.

C. Robustelli, Lingua e identità di genere, «Studi Italiani di Linguistica Teorica e Applicata», XXIX, 2000, 507-527.

C. Robustelli, Lingua, genere e politica linguistica nell’Italia dopo l’Unità, in Storia della lingua e storia dell’Italia unita. L’italiano e lo stato nazionale, Atti del IX Convegno dell’Associazione per la Storia della lingua italiana (Firenze, 2-4 dicembre 2010), Firenze, Cesati, 2011, pp. 587-600.

C. Robustelli, Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministratuvo, con prefazione di Nicoletta Maraschio, Progetto Genere e linguaggio. Parole e immagini delle comunicazione, Firenze, Comune di Firenze, 2012 (scaricabile da http://unimore.academia.edu/CeciliaRobustelli).

Sapegno Maria Serena (a cura di), Che genere di lingua? Sessismo e potere discriminatorio delle parole, Roma, Carocci, 2010.

*Cecilia Robustelli (Pontedera, 1957) è professoressa associata di Linguistica italiana presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. Si è laureata a Pisa e ha proseguito gli studi e condotto attività scientifica e didattica in Inghilterra (Università di Reading, Master e PhD) e USA (Cornell University, Fulbright Visiting Scholar). Si è occupata di sintassi storica, storia della grammatica, grammatica dell’italiano contemporaneo. Ha pubblicato studi filologico-linguistici sulla complementazione verbale nell'italiano antico, sull’elaborazione della norma dell’italiano nel Cinque e nel Seicento, sulla tradizione testuale dei testi grammaticali italiani cinque-seicenteschi, e una grammatica dell’italiano per apprendendi anglofoni (in collaborazione con Martin Maiden). Collabora con l’Accademia della Crusca per le questioni relative alla politica linguistica europea. È autrice di numerosi lavori sul rapporto tra lingua e genere.