di Paolo D’Achille*

Tra i dialetti italiani, il romanesco è (e non da oggi) di gran lunga quello che si sente parlare più spesso al cinema, in televisione, alla radio, nella pubblicità. Almeno in parte, ciò si deve alla centralità di Roma, ma di certo conta anche il fatto che il dialetto della capitale è considerato – insieme ai dialetti toscani – quello più facilmente esportabile in quanto comprensibile un po’ in tutta Italia perché, di fatto, molto vicino all’italiano.

L’“italiano de Roma”

Come è stato rilevato da tempo, a Roma (come a Firenze) lingua e dialetto non sono codici nettamente distinti (come invece a Milano e a Palermo, a Napoli e a Venezia), ma si dispongono lungo un continuum all’interno del quale è difficile separare il dialetto dalla varietà regionale bassa di italiano (l’“italiano de Roma”, per riprendere la felice formula di Ugo Vignuzzi), tanto che non sembrano possibili enunciati totalmente in dialetto e forse neppure totalmente in italiano, perché è facile e naturale la risalita di tratti dialettali nel parlato informale dei colti (si pensi a frasi come mo’ vvengo, che stai a ffà?, pronunciate anche da romani che non si ritengono e non sono dialettofoni).

Toscanizzato dopo il Sacco

La prossimità con l’italiano, che fece parlare, negli anni Trenta, di un prossimo, definitivo “disfacimento” del romanesco nella lingua nazionale (Bruno Migliorini), è dovuto alla storia di questo dialetto, particolarmente movimentata. Il volgare parlato a Roma nel Medioevo (il romanesco antico o “di prima fase”, documentato dalla trecentesca Cronica dell’Anonimo romano) aveva acquisito varie caratteristiche che lo collegavano ai dialetti meridionali (come il dittongo “napoletano” in parole come uocchi ‘occhi’, tiempo ‘tempo’), mentre in età rinascimentale, specie dopo il Sacco borbonico del 1527 e il conseguente ripopolamento della città, subì una profonda toscanizzazione, che rese il romanesco moderno (o “di seconda fase”) strutturalmente assai prossimo alla lingua di base tosco-fiorentina. Dal Rinascimento fino all’Unità d’Italia, inoltre, le persone appartenenti agli strati alti della società romana, legate alla corte papale e non tutte di origine locale, usavano l’italiano e non il dialetto, proprio soprattutto di quegli strati popolari a cui il grande Belli eresse il suo “monumento”. Questa caratterizzazione sociolinguistica spiega la denominazione del dialetto di Roma non come romano ma come romanesco, con un suffisso almeno tendenzialmente di valore peggiorativo (che si è perpetuato nel più recente romanaccio, di uso locale).

Modello dello standard sotto il fascismo

All’indomani della presa di Porta Pia del 20 settembre 1870, quando Roma divenne capitale d’Italia, la situazione linguistica della città cambiò profondamente: le nuove ondate immigratorie, sia da Nord (i “piemontesi” della corte sabauda e dei quadri dirigenti dell’apparato statale) sia da Sud, sia anche dalle campagne ciociare e abruzzesi, determinarono inizialmente un nuovo processo di italianizzazione, che può essere esemplificato con il minor grado di dialettalità che le poesie di Pascarella, e poi soprattutto quelle di Trilussa, mostrano rispetto ai sonetti di Belli. Non è un caso che la pronuncia romana colta fu scelta negli anni del fascismo come il modello dello standard veicolato dalla radio, anche in alcune peculiarità che la differenziavano rispetto alla toscana. Tra queste sono da citare: il diverso grado di apertura delle vocali toniche e e o in varie parole (ébbe, colònna); la costante pronuncia della s intervocalica come sorda; alcune differenze nella resa della z, sorda o sonora; la mancata pronuncia come intensa della consonante iniziale di parola dopo da, dove e come interrogativo e viceversa la pronuncia rafforzata dell’iniziale di , , più, chiesa, sedia.

Demotivati in città

Poi, però, in seguito a vari fattori – lo spostamento forzato dei nuclei popolari dai rioni del centro alle borgate della periferia, l’ulteriore crescita demografica della città in seguito alle nuove ondate immigratorie, prevalentemente meridionali, del Secondo dopoguerra e, conseguentemente, la sua tracimazione fuori dalle mura, con la costituzione di un vasto hinterland, ma anche una sorta di «demotivazione normativa» (Pietro Trifone) dei romani nelle scelte linguistiche – si sono avuti la riemersione e persino lo sviluppo (presso le generazioni più giovani) di nuovi tratti dialettali, che hanno progressivamente allargato la forbice tra romanesco e italiano, nonostante l’avanzamento anche di tratti italianizzanti e, parallelamente, l’accoglimento in italiano di elementi dialettali romani, specie nel lessico e nella fraseologia.

Perdita di prestigio

Alla insospettata vitalità dialettale del romanesco (usato non solo nel parlato, ma anche nello scritto non letterario, come i graffiti e le scritte murali e gli striscioni delle tifoserie) ha fatto però da corrispettivo la sua progressiva perdita di prestigio sul piano nazionale, dovuta alla sua debolezza sia strutturale sia soprattutto sociolinguistica: nonostante la contiguità con la lingua (o forse proprio per questa) il romanesco è considerato un dialetto proprio soprattutto di persone incolte e volgari (i bulli e i “coatti” delle borgate periferiche), o comunque riservato a comunicazioni di carattere informale, dai messaggi di tono scherzoso agli alterchi più violenti. Il suo perdurante successo al cinema, sia nel genere comico (pensiamo almeno alle pellicole di Carlo Verdone), sia nel filone detto “neo-neorealistico” (rappresentato da film anche drammatici come Cuore cattivo o Questione di cuore) si spiega anche con questo.

Da quanno a gnaa faccio

È opportuno passare velocemente in rassegna i tratti che caratterizzano il romanesco contemporaneo rispetto all’italiano, suddividendoli in tre gruppi:

-          quelli documentati già nel romanesco antico, come la conservazione di e protonica, soprattutto in fonosintassi (romano de Roma, me fa ‘mi fa’, ma anche famme ‘fammi’); le assimilazioni progressive di ND > nn, MB > mm, LD > ll (nel romanesco di oggi però è vitale solo il primo tipo: quanno, tonnarelli;il secondo è molto raro e il terzo sopravvive soltanto in callo < caldo e nei suoi derivati, come callara, ‘caldo asfissiante’); l’affricazione della sibilante dopo n, r, l (penzo, borza, il zale); l’esito RJ > r (fornaro ‘fornaio’), le desinenze della prima persona plurale del presente in -amo, -emo, -imo (’nnamo, vedemo, venimo);

-          quelli che si sono sviluppati tra il Cinquecento e l’Ottocento, come l’assenza del dittongo in parole come bòno e còre; la resa come fricativa dell’affricata palatale sorda (disce ‘dice’), lo scadimento della laterale palatale a jod (fijio, e nel parlato molto veloce, anche fio), l’apocope della sillaba finale degli infiniti (stà ‘stare’, avé ‘avere’, séde ‘sedere’, morì ‘morire’), il passaggio di a postonica non finale a e (lèvete ‘lèvati’, pòrteno ‘portano’; in protonia regazzo ‘ragazzo, fidanzato’), la rotacizzazione di l preconsonantica (cortello ‘coltello’), lo sviluppo della nasale palatale in parole come gnente ‘niente’, spigne ‘spingere’, magnà ‘mangiare’, lo scempiamento di rr (guera ‘guerra’) e viceversa la pronuncia intensa di b e di g palatale intervocaliche (subbito, cuggino), l’articolo maschile er ‘il’;

-          quelli che si sono sviluppati nel corso del Novecento.

Tra questi ultimi, il tratto più appariscente è la cosiddetta “lex Porena” (dal nome dello studioso che per primo la registrò): si tratta del dileguo, in molti contesti sintattici, della laterale nei derivati da ILLE (articoli e preposizioni articolate, particelle pronominali, dimostrativi): ’a casa ‘la casa’, daa ggente ‘della gente’,’o vedi ‘lo vedi’, gnaa faccio < (nu)n je la faccio ‘non ce la faccio’, eccaa llà ‘eccola lì’, quoo bbòno ‘quello buono’. Molto importante anche la lenizione delle occlusive sorde intervocaliche, pronunciate con una minor tensione articolatoria, tanto da avvicinarsi alle corrispondenti sonore (hai capito suona quasi come ajgabìdo). Da segnalare ancora lo scempiamento di alcune doppie (matina ‘mattina’), la tendenza ad assimilare il gruppo consonantico st in ss, soprattutto se a seguire troviamo un’altra consonante (ssrano ‘strano’, quesso ‘questo’). A livello morfologico e sintattico sono da ricordare forme verbali ridotte come demo < dovemo ‘dobbiamo’, amo ‘abbiamo’ e aamo ‘avevamo’, l’uso dell’a allocutivo davanti a nomi propri spesso troncati (a bello! A Stè!), il costrutto dovere da + infinito.

La rivincita del romanesco

Sul piano lessicale, se oggi si sono perse voci tradizionali come marignano ‘melanzana’ e rampazzo ‘grappolo’ e nell’uso linguistico dei romani convivono voci locali e termini dello standard (salvadanaio e dindarolo, occhiaie e borze/calamari, bernoccolo e bozzo/ficozza/ficozzo), si sono diffusi neologismi dialettali come fico ‘bello’, piacione ‘vanitoso’, purciaro ‘avaro’, alcuni dei quali sono entrati anche in italiano.

Anche nel campo del linguaggio non verbale, ci sono gesti certamente marcati come romani, che accompagnano enunciati in dialetto (e che sono documentati anche in film di ambientazione romana): quello del “gabbio” (prigione), realizzato da una mano aperta con il palmo rivolto verso la faccia, e la cosiddetta “mano a cucchiara”, che consiste nell’appoggiare al lato della bocca la mano destra, con le dita unite come a formare una paletta, per dare rilievo a un enunciato (o a una sua parte) pronunciato ad alta voce o gridato.

In definitiva, mentre la varietà romana di italiano sembra aver perso definitivamente la partita di potersi proporre come base per un nuovo standard parlato, il romanesco ha recuperato una funzione identitaria sia all’interno sia all’esterno della città.

Per saperne di più:

Paolo D’Achille e Claudio Giovanardi, Dal Belli ar Cipolla. Conservazione e innovazione nel romanesco contemporaneo, Roma, Carocci, 2001; Pietro Trifone, Storia linguistica di Roma, Roma, Carocci, 2008.

*Paolo D’Achille è professore ordinario di Linguistica Italiana presso l’Università degli Studi Roma Tre. Ha condotto ricerche sulla situazione linguistica romana e laziale, con particolare riferimento ai secc. XIV-XVI, e su problemi di fonetica, morfologia, sintassi e lessico del dialetto romanesco dell’Ottocento e del Novecento. Si è inoltre occupato di questioni di storia della lingua italiana (i rapporti tra parlato e scritto sul piano sintattico, la produzione semicolta, i composti aggettivali, la lingua del melodramma) e di aspetti dell’italiano contemporaneo (in particolare i neologismi e la morfologia nominale). È corrispondente per il Lazio della «Rivista Italiana di Dialettologia» dal 1987.