di Pietro Trifone*

«Parliamo italiano, quindi siamo italiani». Per quanto strano possa sembrare, una frase del genere non sarebbe neppure venuta in mente a gran parte dei nostri antenati, dato che per molto tempo l’italiano è stato una lingua assai poco parlata. In una situazione contraddistinta dalla varietà e dal vigore dei dialetti, la progressiva affermazione della lingua comune di base toscana ha riguardato pressoché esclusivamente l’uso scritto di una ristretta fascia di persone colte; mentre l’endemica piaga dell’analfabetismo ha impedito a larghi strati della popolazione di apprendere l’italiano. Il dialetto era del resto il mezzo espressivo di cui si avvalevano anche cittadini eminenti in circostanze ufficiali: lo stesso Vittorio Emanuele II, il primo re della nuova Italia, ricorreva al piemontese praticamente in ogni occasione. Soltanto dopo l’unificazione politica del Paese la nostra lingua è diventata gradualmente patrimonio effettivo della maggioranza degli italiani.

1861: due milioni di italofoni, forse

Tullio De Mauro ha stimato che al momento dell’Unità la percentuale della popolazione in grado di affrancarsi dall’uso del dialetto fosse pari al 2,5%, una quota comprensiva di coloro che avevano frequentato la scuola postelementare (meno dell’1%!), nonché dei toscani e dei romani semplicemente alfabetizzati, ammessi per la contiguità dei loro dialetti con la lingua comune. A questa ricostruzione alquanto pessimistica si è opposto Arrigo Castellani, il quale ha esteso ad altre zone del Lazio, dell’Umbria e delle Marche il criterio applicato da De Mauro per la Toscana e per Roma, ha incluso nel computo quasi tutti i toscani, italofoni «per diritto di nascita», e ha aggiunto tra gli italofoni per cultura anche i religiosi e chi avesse fruito di un’istruzione domiciliare. Rifacendo i conteggi su queste nuove basi, Castellani ha calcolato che negli anni dell’unificazione gli italofoni fossero circa il 10% della popolazione, ovvero più di 2 milioni di parlanti.

Un Paese di analfabeti

Alle correzioni quantitative di Castellani si è aggiunta poi la messa a punto metodologica di Francesco Bruni, condivisa da altri storici della lingua italiana, secondo cui l’intera questione va riesaminata tenendo presente che la lingua comune e gli idiomi locali sono i poli di un sistema più articolato, nel quale si possono distinguere varie soluzioni di compromesso, riferibili a un italiano regionale o a un dialetto incivilito. Gli scambi linguistici delle persone umili con il medico o l’avvocato, per esempio, dovevano avvenire non tanto in dialetto, quanto piuttosto in uno dei registri intermedi fra l’idioma locale e la lingua italiana. Al 10% di italofoni della stima di Castellani occorre quindi aggiungere un numero difficilmente precisabile di dialettofoni in possesso di una competenza della lingua italiana di tipo incerto e lacunoso, tale comunque da metterli in grado, all’occorrenza, di capire e farsi capire.

Questi rilievi valgono ad attenuare ma non certo a smentire la gravità del catastrofico quadro delineato da De Mauro. La disponibilità di una competenza linguistica così limitata e difettosa comportava evidentemente uno stato di subalternità comunicativa nei confronti degli interlocutori colti, che era poi la condizione più largamente diffusa nel Paese, dato l’altissimo numero di analfabeti: al momento dell’Unità non sapeva né leggere né scrivere circa il 75-80% degli italiani adulti. In alcune zone del Mezzogiorno d’Italia la moltitudine degli analfabeti superava il 90% della popolazione, e sfiorava il 100% nel caso della componente femminile.

Successi nell’istruzione pubblica

L’unificazione politica e la conseguente centralizzazione amministrativa, la leva militare obbligatoria su base nazionale, i rivolgimenti demografici prodotti dalle migrazioni verso le città o verso l’estero, l’azione sempre più estesa e incisiva dei mezzi di comunicazione di massa, lo sviluppo dell’economia e della cultura favoriscono la diffusione dell’italiano come attrezzo dell’uso oltre che come congegno letterario, determinando nel contempo una progressiva riduzione della distanza tra lo scritto e il parlato. Va sottolineato che già nel cinquantennio successivo all’Unità, pur tra grandi difficoltà e con forti squilibri, il giovane Stato riesce a conseguire risultati significativi nel campo dell’istruzione pubblica, tanto che nel 1911 la percentuale nazionale di analfabeti risulta quasi dimezzata rispetto al 1861, scendendo fino al 40%. Per la prima volta nella storia, dunque, la componente alfabetizzata del popolo italiano diviene maggioritaria all’interno del Paese, grazie anche a opportuni interventi di politica scolastica. La legge Coppino del 15 luglio 1877, in particolare, rende effettivo l’obbligo della frequenza scolastica per i bambini e le bambine di sei anni, introducendo sanzioni e ammende a carico dei genitori inadempienti, che invece non erano previste affatto nella precedente legge Casati. Si trattava senza dubbio di un contributo importante alla lotta contro il diffuso fenomeno dell’evasione; anche se la nuova legge limitava l’obbligo scolastico «al corso elementare inferiore, il quale dura di regola fino ai nove anni».

Le varietà regionali di italiano

Liberati dal secolare isolamento, entrati in relazione con varietà urbane dai tratti meno marcati o con lo stesso modello dell’italiano scritto, nei primi decenni postunitari i dialetti cominciano a intraprendere con maggiore decisione un processo di avvicinamento alla lingua. Questo cammino passa attraverso la nascita di sistemi linguistici fortemente innovativi, le varietà regionali di italiano, che fioriscono allorché gruppi sempre più numerosi di parlanti abituati al monolinguismo dialettale si sforzano, con vario risultato, di usare la lingua comune. In un primo tempo il fenomeno interessa soprattutto le città, al cui interno gli idiomi in contatto tendono a stemperarsi uno nell’altro e a coagularsi in varietà delocalizzate, ognuna delle quali assume una fisonomia linguistica sostanzialmente italiana nelle strutture fondamentali, ma con palesi tracce del dialetto di partenza.

Dialetti: prematuro il de profundis

Nel corso del Novecento la formazione di varietà regionali di italiano si estende progressivamente in tutte le aree del Paese, divenendo la modalità principale dell’emancipazione dalla dialettofonia e contribuendo in misura notevole all’evoluzione del repertorio linguistico nazionale. Sembra peraltro prematuro il de profundis che viene spesso intonato in memoria delle parlate locali. La «prepotente italianizzazione» dei dialetti che De Mauro registrava nel 1963 ha anzi smussato i suoi artigli: secondo i dati Istat del 2006, infatti, circa un italiano su due continua tranquillamente a utilizzarli, per lo più in alternanza con la lingua nazionale, quando si rivolge a familiari e amici, e uno su quattro non smette di servirsene anche negli scambi con estranei.

Riferimenti bibliografici:

F. Bruni (a cura di), L’italiano nelle regioni. Storia della lingua italiana, Milano, Garzanti, 1996; A. Castellani, Nuovi saggi di filologia e linguistica italiana e romanza (1976-2004), a cura di V. Della Valle, G. Frosini, P. Manni, L. Serianni, Roma, Salerno Editrice, 2009; Tullio De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Bari-Roma, Laterza, 1991.

*Pietro Trifone è professore di Storia della lingua italiana nell’Università di Roma “Tor Vergata”. Queste le sue opere più recenti: Rinascimento dal basso. Il nuovo spazio del volgare tra Quattro e Cinquecento_, Roma, Bulzoni, 2006;_ Malalingua. L’italiano scorretto da Dante a oggi_, Bologna, Il Mulino, 2007;_ Storia linguistica di Roma_, Roma, Carocci, 2008;_ Storia linguistica dell’Italia disunita_, Bologna, Il Mulino, 2010._ Trifone ha inoltre curato il volume Lingua e identità. Una storia sociale dell’italiano_, Roma, Carocci, 2009._

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