15 febbraio 2006

«Gli anglicismi? No problem, my dear»

Tullio De Mauro, ordinario di Linguistica generale presso l’Università “La Sapienza” di Roma e studioso di fama internazionale, è attento al problema degli anglicismi nella lingua italiana fin dal 1963, data di pubblicazione della Storia linguistica dell’Italia unita (Bari, Laterza). Nel 1999 ha diretto il Grande dizionario italiano dell’uso (GRADIT, Torino, Utet); nel 2001 ha curato, insieme a Marco Mancini, il Dizionario delle parole straniere nella lingua italiana (Milano, Garzanti). A De Mauro abbiamo rivolto alcune domande sull’ingresso degli anglicismi nella lingua italiana contemporanea.

Nella Storia linguistica dell'Italia unita, Lei quantificava nell'1,4% la quota dei forestierismi non adattati presenti in italiano; anche nel 1993, nel Lessico di frequenza dell'italiano parlato, osservava come gli anglicismi fossero a un livello di minima significatività statistica. Giuseppe Antonelli ha recentemente calcolato, sulla base del GRADIT, che gli anglicismi introdotti nella nostra lingua dal 1990 al 2003 sono più di 1.400, cioè quasi un terzo di quelli entrati nel corso della storia dell'italiano. Questo significa che la situazione è cambiata in modo radicale? Dobbiamo sempre ben distinguere tra presenza di un qualsiasi fenomeno nell'inventario potenziale di una lingua e presenza nei testi e discorsi. Nel GRADIT, che Lei gentilmente cita, gli esotismi non adattati sono circa 10.000: dunque circa il 4% dei 250.000 lemmi registrati. Ma la loro effettiva presenza nei testi, fastidiosa ed eccessiva o no che sia, è enormemente più bassa, come si vede ad esempio dai dati del Lessico dell'italiano parlato, dove, tra l'altro, l'esotismo statisticamente principe è okay, e come del resto si vede dalle liste del vocabolario di base (il vocabolario fondamentale e di più alta frequenza) in cui, a parte sport e bar, gli esotismi non adattati si contano sulle punte delle dita.Certamente i dati GRADIT ci consentono di dire in modo non impressionistico che tra le fonti di nuovi esotismi l'inglese ha da oltre trent’anni il primato su ogni altra lingua.

Dunque l'allarme per l'invasione degli anglicismi resta ingiustificato?Ma vede, credo che la libertà di allarme sia un diritto umano primario. Non la negherei a nessuno. In fatto di lingua, personalmente, più che dagli anglismi o altri xenismi, sono allarmato da varie cose: dall'assai basso livello di conoscenza di lingue straniere nel confronto internazionale (sulla importanza di una buona conoscenza per usare in modo fine le parole della lingua nativa insisteva già Leopardi); oppure da un dato che forse dovrebbe preoccupare anche più largamente: alle indagini osservative di cui disponiamo risulta che più del 90% delle persone sa ormai usare l'italiano nel parlato, ma due terzi hanno difficoltà nella lettura e scrittura e metà di questi è a rischio di ripiombare nell'analfabetismo totale. Che italiano parleranno e parlano i due terzi o il terzo? Ogni lingua di società complesse esige certamente un retroterra di cultura intellettuale più ricco di quello nostro attuale e questo vale ancor più per lingue di antica e dominante tradizione scritta e di morfologia complicata, resa anomala dalle rilatinizzazioni, come è l'italiano. Questi mi paiono fenomeni più minacciosi e profondi rispetto all'esibizione di qualche anglismo di troppo. Nel 1987, nella Presentazione al Dizionario degli anglicismi nell'italiano postunitario di Gaetano Rando, Luca Serianni affermava che alla consistente penetrazione dell'inglese nei settori tecnico-scientifici non corrispondesse un analogo primato nella lingua della conversazione tra persone colte e in quella familiare. Cosa è cambiato nel frattempo? Direi che Serianni vedeva bene allora e che le cose non sono molto cambiate, come ho accennato già nella prima risposta. Solo un esempio tra mille: giorni fa ho partecipato per un'intera mattina a un interessante convegno sull'educazione degli adulti, hanno parlato decine di persone, si è parlato molto di istruzione e educazione lungo tutta la vita. Bene, nessuno ha mai detto long-life learnig, e sarebbe stato un anglismo giustificato dal largo uso tecnico internazionale.

Se negli anni Cinquanta la televisione ha insegnato l'italiano agli italiani, oggi sembra voler insegnare loro l'inglese. Quali effetti provoca nella lingua comune l'atteggiamento anglofilo dei grandi mezzi di comunicazione? Magari insegnasse l'inglese davvero. Insegna, in titoli di trasmissioni e di sue articolazioni, l'esibizione sciocca e inutile di qualche anglismo, come educational per educativo. Del resto, anche come ministro, ho protestato in Parlamento contro queste ridicolaggini, il question time, per le interrogazioni urgenti, o il Welfare del ministro Maroni. Ha da passà a nuttata. Molti settori della comunicazione scientifica (fisica, medicina) trovano nell'inglese la principale fonte di rinnovamento neologico. Ciò è dovuto solo al primato scientifico-tecnologico dei paesi anglosassoni oppure anche all'incapacità dell'italiano di rinnovarsi attraverso elementi endogeni? Tanto lavoro di ricerca nei campi più diversi nasce e si sviluppa in inglese, a opera di anglofoni nativi o di studiosi d'altra lingua nativa che usano l'inglese nella comunicazione scientifica. È ovvio che nuovi termini tecnici o nuove accezioni nascano in inglese. Nelle altre lingue si ricorre a prestiti grezzi o adattati e a calchi. In generale nelle sedi più qualificate gli anglismi grezzi cedono il passo a parole italiane equivalenti, se e dove ci sono. Spesso poi gli anglismi, come ad esempio attractor, sono latinismi che, adattati, rifluiscono in italiano senza problemi. Ma la sostituzione per calco o adattamento avviene anche (fu osservato a suo tempo per le parole di molti sport) se i significati da trasmettere sono molto diffusi. L'avvento di internet ha favorito, nell'ultimo decennio, l'ingresso di molti anglicismi. È stato osservato, però, che il lessico dell'informatica mostra i segni di una progressiva italianizzazione (ad esempio nella diffusione di allegato in luogo di attachment o di pennetta in luogo di pen-drive). Come si giustifica tale inversione di tendenza? Con le considerazioni svolte prima. Parecchi anni fa, del resto, mi accadde di studiare proprio gli anglismi informatici: spesseggiano nelle pubblicità dei computer, già nei manuali di istruzione si fanno più rari, scompaiono quasi nelle trattazioni tecnicoscientifiche specialistiche. Dietro c'è un fatto più generale, che gli anglofobi pare capiscano poco: l'abuso di tecnicismi e parole poco note (esotismi o no) appartiene alle fasce culturalmente basse dei locutori, a quelli che a Napoli chiamiamo mezze calzette. In un recente convegno (Che fine fanno i neologismi? - Accademia dei Lincei, 20 maggio 2005), Lei ha osservato che una giusta valutazione dei neologismi deve tener conto anche della rapidità di obsolescenza delle parole. Tra i neologismi che escono rapidamente dall'uso, è alta la quota degli anglicismi?

Non ho detto proprio questo, ho detto che la innovatività permanente che caratterizza le lingue storico-naturali si sostanzia tanto delle innovazioni lessicali e delle neosemie quanto nella obsolescenza di lessemi e di accezioni. Certo, l'obsolescenza colpisce anche parole che appena ieri erano nuove, neologismi. Nello stesso convegno, e poi in “Lingua e stile”, Vittorio Coletti ha dedicato a questi casi una particolare attenzione.

Le preoccupazioni di molti linguisti riguardano il fatto che oggi il flusso più abbondante di termini stranieri non riguarda prestiti di necessità come in passato, ma prestiti di lusso (monitor, abstract) oppure calchi semantici che non sarebbero indispensabili (imputare 'inserire dati', domestico 'nazionale', realizzare 'capire'). Ciò dipende solo dal prestigio dell'inglese o anche dall'atteggiamento di inerzia del parlante italiano? Bisogna studiare i singoli casi. Non saprei come sostituire, ormai, monitor, mentre è ovvia la sostituzione possibile di abstract e domestico mi pare un errore. Se alcuni sono inerti, altri, per esempio l’“intellettuale collettivo” di Wikipedia, sono alacri nel trovare buone soluzioni, e non sono accademici della lingua con feluche e marsine accademiche, ma persone normali, come Lei e me, che vivono nel mondo e non fuori. Il fenomeno degli pseudoanglicismi (parole che in inglese non esistono o hanno un significato diverso, come slip, smoking, anti-doping) è un sintomo della vitalità dell'italiano o della difficoltà a imparare correttamente l'inglese? C'è della fantasia innovativa dei frequentatori di alcuni linguaggi speciali (moda, sport, abbigliamento) e c'è anche la scarsa dimestichezza con lingue straniere, inglese compreso, di cui prima parlavo. Del resto non mancano nemmeno gli pseudolatinismi come una tantum, cui uno sciagurato ministro un po’ ignorante ha cercato di aggiungere un’una pocum (dico pocum).

Nel 1987 Arrigo Castellani proponeva di adattare tutte le parole straniere non compatibili con la struttura dell'italiano (fubbia per smog, intrèdima per week-end). Oggi, gli autori di Italiano-Inglese 1 a 1, Claudio Giovanardi e Riccardo Gualdo, avanzano delle proposte operative di sostituzione (giallino per post-it, bipolare per bipartisan) basate su una serie di parametri che tengono conto anche della storia della parola e del suo grado di penetrazione nella lingua comune. Quale dovrebbe essere il ruolo degli intellettuali e, in maniera specifica, dei linguisti? Migliorini, a suo tempo, fu un felice inventore di alcune soluzioni sostitutive di esotismi che i parlanti hanno accettato. L'ultima parola, ripeto, spetta a loro. Nel 2001 il disegno di legge 993 progettava l'istituzione di un ‘Consiglio superiore della lingua italiana’. Di là dalle polemiche suscitate dalla proposta di compilare una grammatica e un dizionario ufficiali, qual è la sua opinione sulla creazione di un organismo di questo genere? Non ne vedo l'utilità dal punto di vista dell'interesse generale del paese, se l'organismo è ben concepito. Se poi è mal pensato, vedo pericoli e danni.

La politica scolastica dell'attuale governo è basata sulle celebri “tre i”: inglese, informatica, impresa. Non si sente la mancanza di una quarta “i”, quella di italiano? Mi pare che nella realtà lo slogan non abbia avuto attuazione: le ore di inglese sono state drasticamente diminuite, il collegamento in rete delle classi e delle scuole è di là da venire (salvo interventi locali, come quello del Comune a Roma) e lascio volentieri ad altri ciò che riguarda lo stato delle nostre imprese. Certo, tra l'altro, nello slogan che condensava la politica scolastica dell'attuale maggioranza mancava la "i" di italiano. E anche questo spinge a guardare con qualche diffidenza gli improvvisi innamoramenti per organismi che dovrebbero metterci le braghe e farci parlare italiano a modo dei preposti del Consiglio.

È possibile che la lingua italiana torni a godere di un maggiore prestigio presso i parlanti, soppiantando il predominio dell'inglese? Quali condizioni dovrebbero verificarsi? La Sua domanda fa pensare che qui tutti parlino inglese e che il povero italiano sia reietto. Donde trae tale immagine delle cose? Il miglioramento delle conoscenze di lingue straniere in giro per il mondo va di pari passo con un più diffuso buon uso della lingua nativa e l'uno e l'altro fatto presuppongono un buon investimento (che non c'è) in più alti livelli di istruzione mediosuperiore (che non abbiamo), in biblioteche di pubblica lettura (che mancano).

In Francia e in Spagna, dove la tutela della lingua nazionale è affidata a organismi governativi, l'ingresso di anglicismi è nettamente inferiore rispetto all'Italia. Quali sono le ragioni storiche del diverso atteggiamento del nostro Paese? La Spagna è rimasta a lungo isolata dal contesto internazionale, soffocata dal fascismo franchista. Negli anni più recenti, tornata libera e colloquiante col mondo la nazione, anche la sua lingua è entratata in movimento, come mostrano ad esempio gli studi aggiornati di Manuel Leco. Ovviamente diverso era già da prima il caso dello spagnolo americano. Quanto alla Francia, la consultazione del Robert a me dà dati diversi e non mi pare che la legge Toubon abbia dato grandi risultati. Per quel che mi capita vedere studiando gli internazionalismi incipienti, spesso di matrice inglese, nell'accoglierli il francese è un passo indietro al tedesco e un passo avanti rispetto all'italiano. Ma non ho statistiche precise.

Infine, una domanda a Tullio De Mauro negli abiti del parlante e non in quelli dello studioso: nella conversazione quotidiana, in quale misura fa uso di anglicismi? Direi pochino, my dear, ma non al punto di chiamare computiere il computer e barro il bar.

Intervista a cura di Emiliano Picchiorri

Emiliano Picchiorri, dottorando di ricerca presso l’Università per stranieri di Siena, si è occupato della lingua letteraria del Due-Trecento (Novellino, Decameron, Trecentonovelle) e dell’Ottocento (Cesari, Bresciani, Purismo).


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