L’Ottocento operistico si apre con l’astro di Gioacchino Rossini, che dura, luminosissimo, per un ventennio, interrompendosi nel 1829 con il Guglielmo Tell: se, nella musica, registro serio e registro comico si avvicinano molto, così non è nella lingua dei libretti, dove i due poli restano ancora nettamente separati. Già si stava però affacciando una nuova sensibilità, che si potrebbe convenzionalmente datare a partire dal 1827, anno della prima del Pirata di Bellini: prevarranno d’ora in avanti le opere serie e i nuovi soggetti romantici, e dal predominio degli affetti rossiniano si passerà a quello della passione amorosa che, specialmente con Verdi, darà vita a molte e differenti individualità e ad altrettante situazioni drammatiche. Le ragioni del cuore entrano in conflitto con la ragion di Stato, sullo sfondo di ambientazioni storico-geografiche variabili, oscillando perlopiù tra Medioevo e Rinascimento e svariando dalla Spagna, alla Svizzera, al Tirolo fino a terre ed epoche più lontane.

Il vero teatro italiano del secolo

Il melodramma ottocentesco assume un’importanza notevolissima e finisce col rappresentare, nei fatti, il vero corrispettivo drammaturgico italiano al teatro e al romanzo europei (francesi, inglesi, tedeschi) della stessa epoca. È del resto significativo quanto noto che venticinque dei ventisei soggetti dei melodrammi verdiani siano stati tratti da opere francesi, inglesi o tedesche (mentre solo uno, giovanile, ha invece una fonte italiana, I Lombardi alla prima crociata, tratto dall’omonimo poema di Tommaso Grossi del 1826) e che questo debito non sia esclusivamente verdiano: al solo Friedrich Schiller, ad esempio, si devono non solo le trame di Giovanna d’Arco, Luisa Miller, I masnadieri e Don Carlo, ma anche quelle del Guglielmo Tell di Rossini e di Maria Stuarda di Donizetti, e altrettanto si potrebbe dire per Victor Hugo e per William Shakespeare.

Tra Metastasio e il graviloquio delle tragedie alfieriane

Cambiano dunque profondamente i canoni, le ambientazioni, il motore e i finali (quasi sempre tragici) delle trame, i ruoli delle vocalità e il ruolo della musica rispetto alla parola: se oggi ci richiamiamo alle “opere metastasiane” in virtù del suo librettista, ricordiamo quelle “verdiane” in ragione del loro musicista. Cambia dunque, ma forse meno rispetto al resto, anche il profilo linguistico. L’Ottocento eredita la leggerezza del parlato serio metastasiano, ancora servibile in certi passaggi discorsivi, ma soprattutto accoglie e riusa il graviloquio delle tragedie alfieriane che, traducendosi in termini di densità e aulicità, rimarrà il tratto più caratterizzante della lingua melodrammatica. È una lingua affinata per rispondere adeguatamente a ragioni fondamentalmente sceniche e drammaturgiche: prova ne sia il fatto che le uniche opere teatrali d’impronta non alfieriana d’un certo rilievo a quest’epoca, cioè il Conte di Carmagnola e l’Adelchi di Manzoni, sono scritte intenzionalmente, come affermato dal loro autore, «per lettori e non altro» e «senza alcun riguardo all’effetto, agli usi, al comodo della scena».

Densità e aulicità

Parlando di lingua e di grammatica, densità vuol dire ad esempio omissione dell’articolo («[Il] Morbo accusar bugiardo», Il pirata, con musica di Bellini e libretto di Romani), del pronome personale («Affretta[ti]», Lucrezia Borgia, di Donizetti e Romani), della congiunzione subordinativa di («E a me [di] sottrarti speri?», Norma, di Bellini e Romani), mentre l’aulicità è data da scelte linguistiche distanti dalla lingua corrente, corrispondenti spesso ad arcaismi, come desso (‘proprio lui’: «Egli è desso!», Verdi e Piave, Rigoletto) e ne ‘ci, a noi’ («Ne chiama / forse all’armi?», Verdi e Cammarano, Alzira), ma anche a soluzioni espressive più recenti ma di nicchia, come il cosiddetto “imperativo tragico”, in cui il pronome compare anteposto al verbo all’imperativo («Mi perdona», Verdi e Piave, Ernani), oppure a certe formule tipicamente letterarie (è d’uopo ‘è necessario’, fa’ core ‘coraggio’, aita! ‘aiuto!’), a sinonimi colti (alma invece di anima, pondo ‘peso’, luna ‘mese’), a immagini metaforiche particolarmente pregnanti (come «egre soglie» per indicare l’abitazione dove si trova Violetta malata nella Traviata di Verdi e Piave), a perifrasi complesse che enfatizzano il tono del discorso («L’aure del giorno io spiro» ‘vivo’, nell’Alzira di Verdi e Cammarano).

All’innalzamento del registro lessicale corrisponde una più ricercata disposizione delle parole all’interno della frase, che si compone abitualmente di inversioni (tra verbo servile e verbo all’infinito: «Tradir ti vuoi?», tra complemento indiretto e verbo: «di vane lagrime / mi nutro ancor», tra complemento oggetto e verbo: «l'orror de' miei pensieri / questo amor disgombra almeno», tra sostantivo e complemento di specificazione «dell'amante il padre»: tutti passi del Pirata di Bellini e Romani).

Darsi del tu, del voi, del lei

Muta infine anche il sistema della deissi personale: ci si riferisce a sé stessi in terza persona («Perché al mondo di scherno far segno / di sua casa e d’Elvira l’onore?», chiede Elvira nell’Ernani di Verdi e Piave), si abbonda di forme impersonali («Si soccorra» ‘soccorriamo(lo)’ esorta Alvaro nella Forza del destino di Verdi e Piave), si dispiegano frequenti “allocuzioni simboliche”, ossia rivolte a un simbolo astratto («Ben io t’invenni, o fatal scritto!», Verdi e Solera, Nabucco), ci si serve di simmetrie e asimmetrie allocutive per manifestare i ruoli sociali e drammaturgici tra i personaggi (diversamente da Metastasio, dove vige complanarità allocutiva con tu generalizzato, in un’opera come la Traviata, ad esempio, Alfredo dà del tu alla domestica di Violetta Annina, la quale dà del voi a Violetta, ricevendone ancora il tu; Alfredo e Violetta passano dal voi iniziale al tu, una volta chiusa la scena in cui Alfredo le dichiara il suo amore: «Un dì, felice, eterea / mi balenaste innante» I 3), si dà spazio, con un certo riflesso didascalico, all’allocutività interna, in riferimento alle proprie emozioni («Io gelo!», Verdi e Solera, Oberto, conte di san Bonifacio).

Il realismo nell’opera buffa

Se è vero quanto detto fin qui, altro registro si avrà naturalmente nei libretti ‘buffi’ o comici (dando qui per netta la separazione tra due generi che potevano anche alternarsi all’interno di una stessa opera semiseria), considerando che i modelli culturali di riferimento, estendendosi perlomeno dalla tradizione comico-realistica, alla commedia dell’arte, alla scuola napoletana e a Goldoni, sono radicalmente diversi. È evidente, su tutti i livelli della lingua, soprattutto la forte carica realistica ed espressiva, ottenuta con l’ingresso di onomatopee, fonosimbolismi, alterati, voci quotidiane e gergali. Ma è sul finire del secolo, anche in questo caso individuabile convenzionalmente con il 1870 («l’ultimo Verdi dopo Aida», come ricorda Ilaria Bonomi), cioè con i due capolavori verdiani e shakespeariani Otello (1887) e Falstaff (1893), scritti da un virtuoso come Arrigo Boito, che l’opera si ammodernerà: il tradizionale antirealismo entra definitivamente in crisi e sarà superato di lì a poco (1896) dalla Bohème di Puccini. La forza propulsiva del melodramma non si è però ancora esaurita e continuerà anzi ancora alcuni decenni, lasciando un’eco amplissima e risuonando ancora oggi nella memoria degli italiani e nella cultura mondiale, in modo assolutamente autentico o sotto forme a volte completamente trasfigurate.

Letture consigliate

- Ilaria Bonomi, Lingua e drammaturgia nei libretti verdiani, in Un duplice anniversario: Giuseppe Verdi e Richard Wagner, Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere, Università degli Studi di Milano, Italia, 2014.

- Emanuele d'Angelo, Arrigo Boito drammaturgo per musica: idee, visioni, forma e battaglie, Marsilio, 2010.

- Vittorio Coletti, Da Monteverdi a Puccini, Einaudi, 2003.

- Fabio Rossi, "Quel ch'è padre, non è padre". Lingua e stile dei libretti rossiniani, Bonacci, 2005.

- Luca Serianni, Libretti verdiani: quel che resta di Metastasio, in Luca Serianni, Per l'italiano di ieri e di oggi, Il Mulino, 2017

- Ilaria Bonomi – Edoardo Buroni, La lingua dell’opera lirica, Il Mulino, 2017.

*Stefano Telve insegna Linguistica italiana presso l’Università degli studi della Tuscia (Viterbo). È membro dell’Associazione per la Storia della lingua italiana (ASLI) e si occupa di linguaggi specialistici, grammaticografia, lingua dei libretti d’opera, parlato trascritto, sintassi dell’italiano in diacronia.

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