di Stefano Ondelli*
Di norma le lingue speciali sviluppano una terminologia che permette agli esperti di riferirsi con grande precisione ai fenomeni che studiano (per es. nel campo della medicina, dell’economia ecc.). Invece, quando pensiamo alla moda, pensiamo principalmente alla lingua utilizzata in riviste, cataloghi o anche trasmissioni televisive rivolte al grande pubblico. La funzione principale sembra essere quella di magnificare i prodotti per renderli desiderabili ai potenziali compratori, piuttosto che descriverli in dettaglio. Insomma non si tratta solo della comunicazione tra specialisti, ma di una serie di strategie con cui i mass media entrano in contatto con un numero molto ampio di parlanti, influenzandone gusti e scelte anche a livello della lingua. Forse proprio per questi motivi nell’italiano contemporaneo gli studi sulla moda non sono numerosi; eppure si tratta di un settore molto importante per il made in Italy dal punto di vista economico, sociale e culturale. La grande creatività, la forte permeabilità a influssi stranieri e il perenne rinnovamento che caratterizzano la lingua della moda radicalizzano le scelte e le strategie adottate dalla comunicazione giornalistica e pubblicitaria e potrebbero anticipare e consolidare tendenze in atto anche in altri settori; vale dunque la pena occuparsene.
Le osservazioni che seguono si basano su uno studio che ho condotto in collaborazione con Enrico Matzeu su 700 testi di tipo giornalistico che trattano di moda, pubblicati online su testate generaliste, periodici del settore o blog e siti specializzati tra ottobre 2012 e aprile 2013. In totale il corpus comprende poco più di 300.000 parole e non rivela una ricchezza lessicale diversa da quella che in genere caratterizza i testi giornalistici. Ciò è sorprendente: ci si potrebbe aspettare che testi che trattano sempre dello stesso argomento (in questo caso, la moda) tendano a ripetere più frequentemente le stesse parole, eppure questo non succede. Ma ancora più sorprendente è l’incidenza dei forestierismi non adattati: il 4,67% di tutte le occorrenze, cioè circa dieci volte di più rispetto alle percentuali rilevate in altre varietà di italiano (giornalistico, parlato ecc.).
Un altro dato che rappresenta in parte una novità riguarda l’origine dei forestierismi: fino a dieci anni fa i linguisti rilevavano ancora la preponderanza dei francesismi, mentre oggi possiamo dire che la stragrande maggioranza (oltre l’87% nel corpus esaminato) delle parole straniere nella moda sono inglesi (o almeno lo sembrano).
L’inglese è più cool ma il francese è più tecnico
Se prendiamo fashion,l’anglicismo più frequente nel nostro corpus, vediamo subito che è facile trovare una traduzione immediata: moda, insieme a musica e cucina, è probabilmente una delle parole più “italiane” in assoluto. Tuttavia fashion viene usato per il suo potere evocativo anche in funzione aggettivale (un tormentone fashion, ispirazioni fashion) e in combinazione con altre parole inglesi, vuoi a indicare concetti più o meno “tecnici”, che richiederebbero una perifrasi traduttiva (fashion director, fashion victim, fast fashion), vuoi in alternativa a sinonimi italiani (fashion week è quasi quattro volte più frequente di settimana della moda). Analogamente, essendo usati più spesso, designer e brand devono essere considerati più “alla moda” di stilista e marchio. Look, invece, ormai viene quasi percepito come una parola italiana, visto che compare anche in pseudoanglicismi secondo l’ordine determinato-determinante (look everyday, look grunge), persino con l’inserimento di francesismi (total look animalier); per sopperire a questo “acclimatamento linguistico”, la soluzione è introdurre altri anglicismi dotati di carica connotativa, come outfit (lo stesso avviene per jeans, affiancato da denim).
In generale, molti degli anglicismi più frequenti si alternano con parole italiane (trend/tendenza e style/stile) o anche francesi: chic si dimostra ancora vitale ma subisce sempre più la concorrenza di glamour (in italiano usato quasi sempre come aggettivo, mentre glamorous è raro, tutt’al più abbreviato in glam) o anche trendy. È evidente che lo stesso concetto, espresso in inglese, risulta più gradevole: pensiamo a quanto possiamo essere più invogliati all’acquisto di un capo low cost invece che a basso costo, a costi contenuti o a buon mercato: infatti leespressioni italiane non compaiono mai negli articoli che abbiamo consultato.
Di norma sono le polirematiche a comparire come prestiti di necessità (capsule collection, flagship store, personal shopper, temporary shop) e a contribuire alla ricchissima tassonomia che notoriamente caratterizza vestiti e accessori: una volta che abbiamo deciso che una bag è più desiderabile di una borsa, possiamo sbizzarrirci nella scelta tra shopping bag, hand bag, shoulder bag, satchel bag, doctor bag, duffle bag, dust bag, mini bag, micro bag, Valli bag, Phoenix bag, Box bag, bag Lady Dior, Gucci bag ecc.
Come già detto, negli ultimi anni il tradizionale apporto francese è andato indebolendosi: nel nostro corpus solo maison , boutique (minacciato da store) e chic (di cui abbiamo detto sopra) superano le cento occorrenze. Resistono i prestiti che appartengono allo strato lessicale più tradizionale, come atelier , couturier (in alternativa a stilista e designer), couture, ton sur ton e prêt à porter (24 occorrenze, mentre ready to wear ne registra solo 3), e i tecnicismi che descrivono materiali e lavorazioni specifici, per es. chiffon , voile, satin, crêpe georgette, mélange, pied de poule, godet, matelassé, plissé. C’è da notare che l’accentazione risulta alquanto erratica, probabilmente in relazione al diverso grado di acclimatamento del prestito: decolleté, decolletè, decolté, decollété, décolléte, decollétée o decollete.
È una questione di forma…
La preponderanza dell’apporto inglese è confermata da fenomeni che vanno oltre il mero prestito lessicale, come avviene per la preposizione by seguita dal nome di chi ha prodotto o disegnato un capo, specie a segnalare collaborazioni tra stilisti e case di moda ( un vestito Balenciaga by Nicolas Ghesquière ). Certo, ci si può chiedere quanto il materiale linguistico preso a prestito resti inglese (o francese) una volta sottoposto alla rielaborazione della “creatività italiana”, che può comportare l’ellissi del secondo elemento delle polirematiche (di bomber jacket, boxer shorts , trench coat restano spesso solo bomber, boxer e trench ) e la derivazione tramite suffissi ( chiccoso e chicchissimo ) e prefissoidi ( minishorts , maxi pois , super cool , ultra shining, extra luxury, iperluxury ), addirittura mutuati da altre lingue ( überchic ).
Resta il fatto che se, come nelle altre lingue di specialità, il livello lessicale risulta caratterizzante, nell’italiano della moda la selezione non avviene in funzione della precisione terminologica ma con intenti principalmente fatici e persuasivi: in tal senso va interpretata l’enorme presenza di prestiti. Dall’esempio che segue:
La mania dell’eyeliner è un trend senza tempo: evergreen
mi pare di capire che un certo tipo di trucco (che probabilmente non ha traduzione in italiano) va sempre di moda. Ma il concetto viene ribadito con quattro soluzioni diverse (mania, trend, senza tempo ed evergreen), di cui due sono anglicismi. E suona molto meglio.
Letture consigliate
Barthes Roland Il sistema della moda, Einaudi, Torino, 1970 [tr. di Lidia Lonzi, Système de la Mode, Seuils, Paris, 1967].
Calligaro Giulia, «La lingua della moda contemporanea e i suoi forestierismi», in Lingua nostra, LX, 1999, pp 45-59.
Catricalà Maria, «Linguaggio della moda», in AA.VV., Enciclopedia dell’italiano, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 2011, pp. 898-901.
Matzeu Enrico e Ondelli Stefano, L’italiano della moda tra tecnicismo e pubblicità, in F. P. Macaluso (a cura di), La lingua variabile nei testi letterari, artistici e funzionali contemporanei: analisi, interpretazione, traduzione, Centro di studi filologici e linguistici siciliani, Palermo, 2014.
Russo Irene, «Il total black è trendy, lo chemisier è retro-chic. Il linguaggio settoriale della moda», in AA.VV. La Ricerca nella comunicazione interlinguistica, Franco Angeli, Milano, 2009, pp. 68-81.
*Stefano Ondelli è professore associato di Linguistica italiana presso il Dipartimento di studi giuridici, del linguaggio, dell’interpretazione e della traduzione dell’Università di Trieste. Si è occupato di didattica dell’italiano per stranieri, di italiano giuridico, dell’italiano di traduttori e interpreti, dell’italiano dei giornali e della moda. Tra le pubblicazioni principali: La lingua del diritto: proposta di classificazione di una varietà dell'italiano, Roma, Aracne editrice, 2007; La sentenza penale tra azione e narrazione, Padova CLEUP, 2012; Realizzazioni testuali ibride in contesto europeo. Lingue dell’UE e lingue nazionali a confronto, Trieste, EUT 2013.