di Luigi Matt*

Chi si accosti alla narrativa italiana di oggi senza pregiudizi non può non rendersi conto della facilità con la quale si possono rintracciare esponenti delle più diverse tendenze linguistico-stilistiche. La diagnosi spessissimo ripetuta di un generale appiattimento della scrittura è frutto di un doppio errore di prospettiva: da un lato si sofferma l’attenzione solo su una minima porzione della sterminata galassia della narrativa, spesso su quella mediaticamente più visibile, ignorando le tante opere anticonvenzionali non destinate a diventare casi giornalistici; dall’altro si ha difficoltà a distinguere, all’interno della tendenza innegabilmente prevalente, quella che si è soliti designare con l’etichetta di stile semplice, che ad uno sguardo non superficiale si rivela estremamente variegata. Sulla base di esempi recentissimi (2014-2015), si proporranno osservazioni sparse – ovviamente parziali ma si spera precise – su alcune dinamiche in atto.

Amici e lacci dello stile semplice

Lo stile semplice, se usato al meglio, ha infinite potenzialità; per fare un solo esempio, è particolarmente adatto ai romanzi che fanno della rappresentazione psicologica dei personaggi il loro punto di forza, come avviene, per citare casi molto diversi tra loro, in La gemella H di Giorgio Falco, in Lacci di Domenico Starnone e in Il regno degli amici di Raul Montanari. Ma la semplicità può facilmente scadere a semplicismo; lo mostra con piena evidenza il caso di Eraldo Affinati, che in Vita di vita rivela una corrività di espressione che va di pari passo con il continuo ricorso alla sollecitazione di emozioni a buon mercato. Voler bene agli umili (nella fattispecie migranti e studenti disagiati) è certo commendevole, ma non basta a produrre letteratura degna di questo nome, specialmente se ci si abbandona a formule da rotocalco: «un figlio ti conduce dove non pensavi di andare»; «sento crescere dentro di me la forza del continente nero»; «Le azioni che compiamo non riguardano solo noi». Una scrittura di questo tipo, è bene precisare, va incontro ai gusti di un vasto pubblico, e anche di non pochi critici, che appaiono ormai assuefatti alla stereotipia, la quale sembra essere un buono strumento per la ricerca del successo.

La scomparsa degli arcaismi

Inesorabilmente attratte nell’orbita della lingua comune paiono essere anche quelle narrazioni che guardano alla tradizione: rispetto a qualche anno fa sembra in netto regresso la tendenza ad impreziosire la prosa attraverso l’inserimento di elementi desueti. Gli scrittori che perseguono un ideale di scrittura improntato alla classicità sfruttano le risorse dell’italiano innalzando il registro attraverso soluzioni lessicali e sintattiche che rimangono pur sempre all’interno dei confini della lingua d’uso. Interessante è il caso di Paola Capriolo, che in Mi ricordo rimane coerentemente legata all’estetica midcult delle opere che l’hanno resa nota alla fine degli anni Ottanta, ma rinunciando completamente ai facili effetti di “patinato” perseguiti in gioventù.

Anche romanzi incentrati su rievocazioni di un lontano passato, come Le vite di Monsù Desiderio di Fausta Garavini o Lisario e il piacere infinito delle donne di Antonella Cilento (entrambi di ambientazione secentesca), non mostrano concessioni verso quel recupero di tracce di italiano antico che ci si potrebbe attendere. Il processo di distacco dalla lingua della tradizione appare definitivamente compiuto: il passato non può più essere riattualizzato, ma solo citato. Gli arcaismi, ormai, si trovano quasi unicamente nei testi che si rifanno a qualche forma di plurilinguismo, o comunque in contesti che rendono il loro impiego esibitamente artificiale.

Le mille vite dei dialetti

Uno dei luoghi comuni più spesso ripetuti dai critici vuole che i narratori degli ultimi anni abbiano come modello linguistico principale le traduzioni di romanzi stranieri, in primo luogo americani. Verrebbe meno, in altri termini, qualsiasi aspetto stilistico dotato di una specifica italianità. A smentire tale lettura potrebbe bastare anche solo la constatazione di quanto nella narrativa, oggi forse più che mai, siano sfruttati i dialetti. Sono molte le funzioni che i dialettismi possono assumere in un romanzo: li si ritrova in effetti con la stessa facilità in testi che mostrano intenti realisti, lirici, comici, visionari. In Sulla faccia della terra di Giulio Angioni le parole logudoresi sembrano avere lo scopo di richiamare con evidenza un’idea di specificità antropologica della Sardegna, di là dal passare del tempo (la scelta certo non per caso ricade su termini propri del sardo antico – la vicenda si svolge nel medioevo – ma ben vivi ancora oggi). Saveria Chemotti (La figlia ingrata) e Barbara Buoso (L’ordine innaturale degli elementi) adoperano i dialetti veneti per evocare le ultime generazioni contadine, ricordate rispettivamente con problematico rimpianto e con sostanziale orrore. Ad alimentare una scrittura moderatamente espressivista sono impiegati gli elementi del dialetto calabrese che spesseggiano nelle pagine del Breve trattato sulle coincidenze di Domenico Dara, in cui attraverso l’alternanza o la compresenza di popolarità vernacolare e letterarietà alta si dà vita al racconto di una vicenda paradossale tenuta in equilibrio tra realismo e fiaba.

Il libro recente in cui è probabilmente più intenso l’uso del dialetto, che campeggia già nel titolo, è Lo scuru di Orazio Labbate; il siciliano è qui alla base della confessione-invettiva di una voce narrante cupa e a tratti  allucinata, ossessionata dal pensiero della morte, la cui efficacia testimonia che è possibile aderire allo stile dell’enfasi oggi così di moda senza cadere nel comico involontario (ciò che peraltro si può verificare anche in altri romanzi, come Cartongesso di Francesco Maino e L’invenzione della Madre di Marco Peano).

Dalla resistenza del metalinguaggio...

Da una decina di anni a questa parte sono andati aumentando i testi costruiti su basi “testimoniali” o “documentarie” (per riprendere due aggettivi piuttosto in auge), in cui si abbandonano le specificità della prosa letteraria per adottare forme di ibridazione col linguaggio giornalistico, in linea con un aperto rifiuto, di stampo più o meno esplicitamente moralistico, della letteratura “fine a sé stessa”. Ma va anche notato – con sollievo – che l’immaginazione, l’ironia, il gioco non sono affatto scomparsi dall’orizzonte letterario, pur se demonizzati da molti scrittori e critici. Anzi, forse proprio per comprensibile reazione al rischio di impoverimento di idee e di stili insito nelle tendenze rispondenti alla parola d’ordine del “ritorno alla realtà”, parecchi autori mettono al centro della scena il linguaggio, attraverso vari tipi di procedimenti metalinguistici. Memore della grande lezione delle analisi freudiane, Marina Mizzau in Se mi cerchi non ci sono fa scaturire la rappresentazione di una serie di personaggi dalle loro conversazioni piene di associazioni libere, lapsus, motti di spirito: elementi ben più rivelatori di tante azioni. Le Confessioni di uno spammer di Claudio Morici ospitano la riproduzione e l’analisi delle mail pubblicitarie generate da un traduttore automatico, piccoli capolavori di linguaggi inesistenti. Tutte le vicende raccontate in La strage dei congiuntivi di Massimo Roscia partono dall’insofferenza per gli usi sciatti, inconsapevoli, corrivi dell’italiano: i paranoici difensori della lingua protagonisti del romanzo – la cui scrittura è coerentemente impostata su di un registro iperletterario – si incaricano di punire con inaudita ferocia i responsabili di tali misfatti.

… al virtuosismo del “metametalinguaggio”

Nel notevolissimo Senti le rane, Paolo Colagrande, esponente di quel filone narrativo “emiliano” (il cui padre putativo è Gianni Celati) che ha offerto splendidi frutti negli ultimi decenni, dà vita ad una narrazione stralunata e ossessiva capace di sortire effetti comici irresistibili soprattutto sfruttando la continua messa in rilievo delle risorse e dei limiti del linguaggio. Una vicenda semplicissima – un prete ha una relazione con una diciassettenne, la quale in seguito gli preferirà un altro uomo causando una crisi di gelosia che per poco non finirà in tragedia – viene dilatata a dismisura dalle infinite digressioni, false partenze, deviazioni, autocorrezioni di una voce narrante inaffidabile che rimugina su ogni parola usata fino a dar vita, virtuosisticamente, a quello che si potrebbe chiamare metametalinguaggio: «basta che uno dica metalinguaggio che tutti dicono metalinguaggio, anche nelle comuni azioni domestiche, tipo andare a far la spesa, vanno al banco gastronomia del Sigma a chiedere un etto di coppa e intanto tirano in ballo il metalinguaggio, col salumiere che a sua volta usa il metalinguaggio col prossimo cliente che poi va a casa sua e litiga con la moglie perché secondo lui la moglie è sempre dietro a far del metalinguaggio».

Un esempio di manierismo: Roderick Duddle

Per concludere, è opportuno soffermarsi su di un romanzo sorprendente, perfetto campione di quel manierismo che normalmente viene esecrato ma che ha dato risultati eccelsi nella prosa italiana novecentesca (basti pensare a Calvino e Manganelli): Roderick Duddle di Michele Mari. L’autore porta qui alle estreme conseguenze quella propensione per il falso già dimostrata in parecchi suoi testi: sin dalla prima pagina, si ha la sensazione di trovarsi di fronte ad un romanzo inglese dell’Ottocento, per di più in una traduzione risalente a qualche decennio fa. Mescolando reminiscenze di vari autori, tra cui in primis Dickens e Stevenson, Mari rivitalizza il genere del romanzo d’avventure, con i suoi intrecci e personaggi tanto più godibili quanto più inverosimili. Tra i molti accorgimenti adoperati per rendere l’atmosfera dei romanzi di un tempo, particolare rilievo assume una caratteristica di palese derivazione sterniana: la petulanza della voce verbale, che si concretizza in special modo nei frequenti appelli al lettore, che di volta in volta viene blandito, sollecitato o insolentito per mezzo di aggettivi sempre diversi: autorevole, accorto, coriaceo, curioso, deludente, docile, esoso, ingenuo, integerrimo, ipocrita, pavido, prudente, riluttante, sconcertato, sfrontato, supponente, timorato, venale, volubile, zelante, e tanti altri ancora.

Molto più che agli aulicismi, i quali compaiono solo sporadicamente (dispregio, inanità, maliosi), è alla sintassi che viene affidata la ricerca di un tono d’antan: la scrittura di Mari procede con un periodare assai variato, disponibile alla realizzazione di complesse impalcature ipotattiche, e pronto a sfruttare a fondo tutti i possibili effetti ricavabili da incisi, iperbati, inversioni. Un’operazione di questo genere, naturalmente, può risultare efficace solo se la resa stilistica è pressoché perfetta: Mari è forse l’unico scrittore italiano contemporaneo a cui può riuscire l’impresa, e a chi legge non rimane che consegnarsi ammirato, sospesa ogni possibile incredulità, ad un narratore ben conscio del suo potere: «Ma tu non scapperai, mio lettore, perché sei avido di sapere, e perché ti ho scelto fra tanti, e perché, appunto, sei mio».

*Luigi Matt insegna Storia della lingua italiana nell’Università di Sassari. È condirettore degli «Studi linguistici italiani». Ha pubblicato tra l’altro Teoria e prassi dell’epistolografia italiana tra Cinquecento e primo Seicento. Ricerche linguistiche e retoriche (Roma, Bonacci 2005), Gadda. Storia linguistica italiana (Roma, Carocci 2006), La narrativa del Novecento (Bologna, Il Mulino, 2001), ‘Quer pasticciaccio brutto de via Merulana’. Glossario romanesco (Roma, Aracne, 2012); Forme della narrativa italiana di oggi (Roma, Aracne, 2014).