di Giuseppe Antonelli*

«È uno di quegli esseri le cui determinazioni stanno tra la coscienza e Dio, e che la Provvidenza caccia sulla terra per insegnare ai despoti che il termine della loro potenza è nelle mani di un uomo solo». In Noi credevamo, il film che Mario Martone ha dedicato al nostro Risorgimento, Giuseppe Mazzini (interpretato da Toni Servillo) parla così. Le sue battute sono segnate quasi tutte da un tono febbrile, spiritato come il suo sguardo: «quand’anche le vostre speranze fossero state deluse non sette volte, ma settanta volte sette, non rinnegate mai la speranza». Un tono oracolare, proprio come quello dei suoi scritti, da cui quelle battute in gran parte provengono: «questi scritti mi colpivano alla lettura», ha raccontato lo stesso Martone, «e pensavo che fossero degli elementi cinematografici potenzialmente fortissimi in quanto tali».

Nel Paese degli analfabeti

Che il fascino di Mazzini derivasse proprio da quel suo gettare «le idee come un oracolo», lo aveva già notato Francesco De Sanctis. La lingua di Mazzini, sosteneva in un corso universitario tenuto nel 1873-74 (vale a dire l’anno dopo la morte del patriota), «è solenne come di chi insegna una verità oratoria, come di chi vuol persuadere. Una lingua siffatta può aprirsi la via in mezzo ad una gioventù intelligente, ma non nel popolo». In effetti, nel Dizionario politico popolare stampato e diffuso a Torino dall’associazione Libera Propaganda (1851), alla voce Popolo si leggeva: «In un paese veramente libero il popolo è la massa di tutti i cittadini. Ma nei dispotici o semiliberi, dove sono tirannicamente disegnate le distinzioni sociali, il popolo abbraccia le classi povere, quelle cioè che non posseggono se non le forze individuali delle proprie braccia». E che, possiamo aggiungere, non sapevano leggere né scrivere: nel 1861 il 75% della popolazione del neonato Regno d’Italia era analfabeta, con picchi dell’85-90% nel Sud e nelle isole; non più del 10% degli italiani era in grado di parlare la lingua italiana.

Per l’élite rivoluzionaria

Tutti fatti che Mazzini aveva ben presenti, se è vero che già nel 1834 scriveva a Niccolò Tommaseo: «quanto al parlare al popolo, avete ragione – e parlerei: ma le vie mancano; ed erriamo per entro a un cerchio senza inoltrare. Il popolo non può leggere, o non sa leggere – dove l’apostolato verbale trova la forca, non sono a sperare apostoli. Dunque, tentiamo della claque, che intende far coi discorsi e con l’entusiasmo una leva per giungere sino al popolo. Sorgiamo, e lo educheremo». È a un’élite rivoluzionaria che Mazzini intende rivolgersi, e per farlo adopera una lingua di registro alto, saldamente ancorata alla tradizione letteraria.

Una lingua che di solito seleziona – all’interno di oscillazioni molto comuni all’epoca – la variante più ricercata (gli imperfetti in -ea/-eano, come precorrea, irridea, esprimea, ponean; o il tipo dimanda per domanda) e non rifugge, nella sua enfasi lirica, da varianti già all’epoca proprie del linguaggio poetico, come core o desio. È l’«arcaismo sdegnoso» (così l’ha definito Sebastiano Timpanaro) che nel primo Ottocento accomunava anche Foscolo, Cattaneo, Pisacane, caratterizzava la lingua dei giornali democratici: come ha notato Andrea Masini, «il cultismo lessicale spesseggia nei fogli rivoluzionari, al servizio di un dettato informato all’eloquenza».

Un continuo coinvolgimento emotivo

Mazzini, d’altronde, era profondamente convinto dell’efficacia di uno stile che suonasse mistico ed oracolare. «Le parole de’ sommi», cominciava il suo D’una letteratura europea (1829), «quanto più riescono oscure, più covano il germe d’una profonda e utile verità». E riconducibile all’enfasi e all’eloquenza è anche l’oralità simulata di molti scritti mazziniani: movenze di parlato che ben si sposano con la temperatura alta di un continuo coinvolgimentoemotivo (secondo la tecnica che nella retorica politica si definisce oggi embrayage). Tra queste movenze, una certa frequenza di allocuzioni («Operai italiani, questo discorso è grave. Mettetevi una mano sul cuore, e rispondeteci: vivete voi vita d’uomini?» Agli italiani e specialmente agli Operai Italiani, 1840) e l’uso animato della punteggiatura, con grande ricchezza di esclamative e domande retoriche («Un re tra gli attuali? Vergogna, e scherno! Qual è fra i tirannetti italiani, che non abbia col sangue de’ nostri sudditi segnato il patto con l’Austria? Qual è quei, che il passato non separi violentemente e inesorabilmente dal suo popolo e dall’avvenire?» Di alcune cause che impedirono finora lo sviluppo della libertà in Italia, 1832).

Un uso che va di pari passo col frequente ricorso a figure di ripetizione e di amplificatio,come il poliptoto («la guerra non giunse; i colpi di Stato non giungeranno» Dell’iniziativa rivoluzionaria in Europa, 1834) o la classica anafora: «La monarchia diffida inevitabilmente, irrevocabilmente del popolo: quindi la necessità di mendicare un appoggio al di fuori – la necessità di cercarlo nel dispotismo che può frammettersi tra essi e l’irruzione paventata nelle pretese di libertà – la necessità, per serbarlo, di concessioni servili – la necessità di costituire il governo a governo di resistenza» (Alleanza repubblicana, 1866).

«Dio solo batte le ore del mondo»

Le strategie espressive adottate, insomma, si orientano tutte verso un atteggiamento coerentemente oratorio ed eloquente, che mira (come peraltro fa – con strumenti diversi – la comunicazione politica odierna) a un effetto suasivo più che persuasivo. La tendenza apodittica di Mazzini altro non è che la capacità di coniare frasi ad effetto, destinate a imprimersi nella memoria («Ma la verità non si spegne col freno, o col fuoco»; «Dio solo batte le ore del mondo»; «L’Italia è matura: bisogna fare») o – con sensibilità straordinariamente moderna – quelli che oggi chiameremmo slogan. Come già intuito da De Sanctis, Mazzini «sentiva il bisogno di trovare ciò che fa vibrare le fibre della generazione di cui voleva servirsi, e trovò infatti ed espose in modo sintetico ed efficace certe idee che potevano produrre impressione ed operare sugli anonimi, come ‘Dio e il Popolo’; ‘Pensiero ed azione’; ‘La vita è missione’».

Cenni bibliografici

Per il rapporto tra la sceneggiatura di Martone e gli scritti di Mazzini: Mario Martone, Noi credevamo, Milano, Bompiani, 2010.

Il giudizio di Francesco De Sanctis è nel volume Mazzini e la scuola democratica, Torino, Einaudi, 1951. Altri giudizi sulla lingua e lo stile di Mazzini si trovano in: Attilio Momigliano, La prosa romantica di Mazzini, raccolto nel suo Ultimi studi, Firenze, La Nuova Italia, 1954; Gianni Grana, Mazzini e la letteratura, nella Letteratura italiana. I minori tomo IV, Milano, Marzorati, 1962; Luigi Salvatorelli, introduzioneal II vol. delle Opere di Mazzini, Milano, Rizzoli, 1967; Guido Mazzoni, L’Ottocento, nella Storia letteraria d’Italia della Vallardi, Milano, 1973, vol. I, cap. X Scritti di propaganda civile e politica; G. Pirodda, Mazzini e gli scrittori democratici, Bari, Laterza, 1976; Quinto Marini, La letteratura del pieno Romanticismo e del Risorgimento. Niccolò Tommaseo, nella Storia della letteratura italiana diretta da E. Malato, vol. VII, Il primo Ottocento, Roma, Salerno editrice, 1998.

La lettera a Tommaseo è citata in Tiziana Donatella Traini, La lingua di Mazzini, «Il pensiero mazziniano», n° 1, 2001. Le considerazioni di Sebastiano Timpanaro sono tratte dal suo Giordani e la questione della lingua, in Id., Aspetti e figure della cultura ottocentesca, Pisa, Nistri-Lischi, 1980; quelle di Andrea Masini dal suo La lingua dei giornali nell’Ottocento, nella Storia della lingua italiana, a cura di L. Serianni e P. Trifone, vol. II, Torino, Einaudi, 1994; sul tema si vedano anche le osservazioni di Maria Corti, Il problema della lingua nel romanticismo italiano, in Ead., Nuovi metodi e fantasmi, Milano, Feltrinelli, 2001.

*Giuseppe Antonelli insegna Linguistica italiana all’Università di Cassino. Collabora all’«Indice dei libri del mese» e all’inserto domenicale del «Sole 24 ore». I suoi volumi più recenti sono L’italiano nella società della comunicazione (Il Mulino, 2007) e Ma cosa vuoi che sia una canzone. Mezzo secolo di italiano cantato (Il Mulino, 2010).

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