Per una parte consistente della sua storia ultramillenaria, l’italiano è stato proprietà pressoché esclusiva degli scrittori: prima degli scrittori che produssero e poi di quelli che si adeguarono al modello offerto dalla lingua letteraria di un luogo e di un tempo specifici, rappresentati dalla Firenze del Trecento.

Il relativo atto fu stilato e pubblicato nel 1525 da Pietro Bembo, inventore del Rinascimento italiano, col titolo di Prose della volgar lingua. Nel primo dei tre libri di cui si compone l’opera si leggono due affermazioni che potrebbero costituirne l’estratto.

La prima: «non si può dire che sia veramente lingua alcuna favella che non ha scrittore».

La seconda: «se io volessi dire che la fiorentina lingua piú regolata si vede essere, piú vaga, piú pura […], i miei due Toschi vi porrei dinanzi, il Boccaccio e il Petrarca senza più».

La lingua ha gli scrittori; specularmente, gli scrittori hanno la lingua. Chi intende scrivere in prosa, imiti il Decameron di Giovanni Boccaccio; chi vuole scrivere in versi, si adegui a quello offerto da  Francesco Petrarca col suo Canzoniere.

Non solo scritte ma anche e soprattutto parlate

Per circa tre secoli i letterati italiani quasi non misero in discussione queste affermazioni di principio. Il primo a revocare agli scrittori in generale e ai due nominati in particolare la proprietà esclusiva della lingua fu Alessandro Manzoni. Persuaso che questa fosse un oggetto fatto di parole non solo scritte ma anche e soprattutto parlate, produsse l’edizione definitiva dei Promessi sposi (1840-’42) cercando di avvicinarsi non alla lingua scritta dei letterati, ma a quella parlata dalle persone colte della Firenze del suo tempo: una lingua viva e vera. Questo pur importante passaggio di proprietà non coinvolse tutti gli italiani, ma solo quelli che, per loro buona sorte, erano nati e vissuti in Toscana; inoltre, affidando la sua proposta di rinnovamento a un romanzo, Manzoni non metteva in discussione la funzione pedagogica degli scrittori nel suo progetto di educazione linguistica e civile. Fu la storia a cambiare le cose, in forza di un processo lungo e lento, iniziato con l’Unità d’Italia e concluso – forse – solo nell’ultimo quarto del secolo scorso.

«Ma ste fregnacce, tu, come le sai?»

Come autori di grammatiche scolastiche, di dizionari e di manuali divulgativi che cercano di spiegare in modo semplice e chiaro le regole della lingua, ci è capitato spesso di sentirci chiedere da dove ci venga l’autorità per stabilire modi e comportamenti linguistici; insomma di sentirci dire, dall’interlocutore di turno, qualcosa di simile a quel che disse un popolano al protagonista della Scoperta dell’America di Cesare Pascarella, efficacemente ricordato da Tullio De Mauro nell’introduzione al Grande Dizionario Italiano dell’Uso da lui diretto: «Ma ste fregnacce, tu, come le sai?».

Il profetico Quintino Sella

In casi del genere rispondiamo sempre, come è ovvio, che la lingua non è proprietà dei grammatici e dei linguisti, ma di tutti quelli che la adoperano. Del resto, ben più autorevolmente di noi, già nel 1869 Quintino Sella, nella famosa gita a Brusuglio evocata da Giovan Battista Giorgini nell’introduzione al Novo vocabolario della lingua italiana, durante una proverbiale lite linguistica con Manzoni sostenne che quella degli italiani sarebbe stata «una lingua nova, una lingua media»; una lingua che «sarà un po’ di tutto, e diventerà col tempo la lingua di tutti». La convinzione profetica del ministro delle Finanze del primo Parlamento italiano trova conferma nella realtà attuale: l’italiano è diventato la lingua di tutti gli italiani, vecchi e nuovi, che contribuiscono collettivamente a mantenerla in vita e a modificarla in base all’uso che ne fanno.

La norma cambia

Se la lingua è proprietà di tutti, più difficile è  stabilire se tutti la usino con proprietà. L’italiano è cambiato e continua a cambiare; parallelamente è cambiata, e continua a cambiare, la norma che lo descrive, definibile come la media degli usi statisticamente rilevanti della comunità di persone che parlano e scrivono in italiano.

Risposte tranquillizzanti

Quando, nei nostri manuali e nelle rubriche ospitate da periodici di larghissima diffusione, diamo indicazioni sui dubbi più comuni  relativi alla grafia (sognamo o sogniamo?), alla pronuncia   (àmaca o amàca?), alla morfologia nominale (archeologi o archeologhi?) e verbale (benedicevo o benedivo?) dell’italiano, constatiamo  di non essere sempre convincenti, in particolare quando diamo una risposta tranquillizzante, dicendo a chi ci legge che, tra due forme in concorrenza, può scegliere quella che preferisce: ampissimo e amplissimo, anzitempo e anzi tempo, appagarsi di e appagarsi con qualcosa, ha atterrato e è atterrato…

Un improbabile lassez-faire

Non siamo e non ci sentiamo, per questo, dei lassisti, sostenitori di un improbabile lassez-faire linguistico, anche perché sappiamo bene che l’errore di lingua genera una sanzione sociale tanto più forte quanto più ampio è il numero di persone che lo percepiscono: si pensi, in proposito, alle molte reazioni ironiche e divertite suscitate dal congiuntivo sbagliato del personaggio pubblico di turno; si pensi, ancora, alle polemiche poco pacate suscitate dall’uso (improprio!) di piuttosto che col significato di o.

Regole non negoziabili e scelte libere

Non siamo, si diceva, dei lassisti. È appena uscita l’edizione riveduta e aggiornata di un nostro libro programmaticamente intitolato Viva la grammatica!, in cui i suggerimenti non vincolanti convivono con le regole alle quali non si può e non si deve contravvenire. Perché, come ha perfettamente spiegato Michele Prandi, di questo è fatta la grammatica di una lingua: di regole non negoziabili, alle quali non si può contravvenire se non a scapito dell’efficacia nello scambio comunicativo, e di scelte liberamente applicabili. La proprietà dell’italiano, anzi: la proprietà nell’italiano consiste, a nostro avviso, nell’adeguarsi alle prime e nel muoversi con disinvoltura tra le seconde.

Riferimenti bibliografici

Pietro Bembo, Prose e rime, a cura di Carlo Dionisotti, Torino, UTET, 19662.

Tullio De Mauro, La Fabbrica delle Parole. Il lessico e problemi di lessicologia, Torino, UTET Libreria, 2005.

Giovan Battista Giorgini, Introduzione a G. B. G. e Emilio Broglio, Nòvo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze, Firenze, Cellini, 1870-97.

Michele Prandi, Giuliana De Santis, Le regole e le scelte. Manuale di linguistica e grammatica italiana, Torino, UTET Università, 2011.

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