01 gennaio 1970

Poesia, rime e ghiribizzi linguistici nella pubblicità

di Andrea Afribo*

 

Il poeta è un copywriter?

 

Le risorse del linguaggio poetico aiutano il pubblicitario? C’entra la poesia con la pubblicità? Si può rispondere “sì”, “no” e pure “dipende”, e sono tutte risposte giuste, legittime e legittimabili con prove al seguito.

Chi risponde “sì” ha dalla sua non poche ragioni. Ne enumero alcune. 1) Come la poesia la pubblicità ha una lingua che (tendenzialmente) odia il ‘grado zero’, ama la connotazione e, direbbe Jakobson, annovera, tra le sue funzioni primarie, quella appunto poetica. Diciamo che poetizza il prodotto, il quale appena uscito dalla fabbrica sa parlare solo in prosa. 2) I pubblicitari possono essere (letteralmente) dei poeti e i poeti possono essere (ancora letteralmente) dei pubblicitari. Restando in Italia, D’Annunzio è stato anche un copywriter, più recentemente poeti meno noti ma importanti, come Roberto Sanesi, Lamberto Pignotti o Franco Buffoni, nascondono nel loro curriculum un’esperienza in pubblicità. Infine, secondo un grande studioso, Leo Spitzer, il copywriter è «un poeta frustrato i cui sogni liceali non si sono avverati». 3) Nell’immaginario degli italiani, secondo una recentissima indagine Eurisko, la creatività del pubblicitario è contigua a quella del poeta e dell’artista in genere, staccatissima da quella dell’economista o di chi fa marketing.

Ma la prova più evidente del legame stretto tra poesia e linguaggio pubblicitario è 4) l’abbondanza di slogan, headline, jingle ecc. scritti in rima o in versi dalla ritmica più o meno riconoscibile. Qualche esempio memorabile: «Lavazza crema e gusto. Ogni momento è quello giusto», «Ho un debole per l’uomo in Lebole», «Baleno, e lavoro meno», un endecasillabo come «A dir la tua virtù basta un sorriso» (réclame di un dentrificio), la coppia di ottonari baciati di «La morale è sempre quella, fai merenda con Girella», l’ottonario «frutta fresca a pezzettoni» (baseline della marmellata Santarosa). E se non c’è la rima c’è una notevole assonanza come nel pay off «Dove c’è Aia c’è gioia» (di un’azienda agroalimentare), oppure c’è un calembour o qualsiasi altro capriccio retorico o fonico. Ma l’importazione di tecniche o materiali del poetico nella pagina pubblicitaria può comprendere anche un’impaginazione del testo fitta di a-capo, il taglia-incolla o il calco di poesie e versi famosi: il dantesco «I’ son Beatrice che ti faccio andare» è servito a pubblicizzare un purgante che si chiamava proprio così, Beatrice; suonava un po’ cavallina pascoliana e un po’ pioggia dannunziana un testo della pasta Buitoni: «Così… così calda! sentirla fragrante… (c’è tanto sapore) sentire appetito… che bella, che ricca… la pasta… che pasta! è pasta Buitoni».

 

«La pigrizia del copywriter genera mostri»

 

Chi al contrario risponderà “no”, che poeti e poesia, rime e filastrocche e in genere significanti troppo autonomi ed esibizionistici non hanno niente da spartire con la pubblicità, sarà – ne sono quasi certo – il diretto interessato, ovvero il pubblicitario. E intendo quello di oggi, figlio di padri e madri che tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta hanno modernizzato la comunicazione italiana e il copywriting in particolare (i vari Pasquale Barbella, Annamaria Testa, Emanuele Pirella, Aldo Biasi ecc. ecc.). Ne viene che il pubblicitario di oggi giudicherà un annuncio in rima o quant’altro senz’altro brutto, vecchio, inefficace o quantomeno naif. Se dovesse egli stesso macchiarsi di questo peccato – per pigrizia, per colpa di un committente prepotente o di altre inaggirabili leggi del marketing –, certamente non includerà tale annuncio nel suo portfolio. Si è appena parlato di pigrizia: «la pigrizia dei copywriter genera mostri» ha scritto una creativa brava, criticamente consapevole e giustamente famosa come la già citata Annamaria Testa. Ed è bene considerare che tra i loci (i mostri) creativi del copywriter pigro non ci sono solo il ‘poetese’ e il ‘filastrocchese’ ma anche citazioni spesso deformate parodisticamente di frasi storiche o di proverbi, neo- o fanta-coniazioni e bislacche macedonie del genere di amarevole, gustolungo, vespizzarsi, brillatutto, sardomobili, Yoghiamo? (per il succo di frutta Yoga) eccetera. Sono tutti casi creativi che fanno sistema: hanno tratti comuni, tra tutti quello di sollecitare al massimo il medium linguistico, e hanno in linea tendenziale origini e destini comuni. Ciò che dunque si può dire e si dirà sugli annunci in rima e dintorni vale anche per cose tipo amarevole. Cose appunto che esistono e sono sempre esistite nel mondo complesso della pubblicità ma con dei limiti, e siamo al “dipende”.

 

Carosello , effetti speciali e popolari

 

Il primo limite, come già si è anticipato, è un limite diacronico. Annunci in rima e altro sono habitués di un’epoca paleopubblicitaria, il cui periodo aureo è quello di Carosello. A favorire tale stato di cose non è soltanto la giovane età della professione, dunque l’inesperienza e l’immaturità, che costringono a chiedere aiuto ad arti simili, ma di più onorata carriera, come appunto la poesia e la letteratura. Giocano anche altri fattori, tra i quali: una società più verbale che visiva; un utente medio più naturalmente avvezzo di quello di oggi a rime più o meno baciate e a ritmi poetici, che ritrovava nell’opera o nell’operetta, nella canzone(tta), nelle poesie imparate a memoria, nei fumetti del «Corrierino dei piccoli» (il «Signor Bonaventura», «Bibì e Bibò») o di «Topolino» in versione italiana e così via. Alcune regole di Carosello facevano poi il resto. Carosello viveva di due momenti fissi e tra loro ermeticamente separati: a un momento creativo, nel quale non doveva esistere alcun riferimento al prodotto, seguiva il cosiddetto ‘codino’, cioè il vero e proprio spazio pubblicitario – nessun legame tra i due momenti, se non l’unità temporale. Non c’era dunque per statuto quel cortocircuito e quella interdipendenza tra componente visiva e verbale che è la norma basilare, e la forza virtuosa, di una corretta e moderna pubblicità. Dunque la lingua doveva fare da sola e trovare in sé stessa forza e spettacolarità, ed ecco appunto, spesso, rime facili, baciate, e altri effetti speciali e popolari. I quali erano comunque perfettamente in tono con la natura e il posizionamento delle merci reclamizzate, che erano solo quelle di largo consumo (i cosiddetti convenience goods). Le leggi di Carosello vietavano infatti la réclame di articoli di lusso.

 

Le filastrocche dalla serie A alla serie B

 

Poi basta, Carosello chiude, gli anni Ottanta arrivano e tutto cambia. Smettono di esistere quei presupposti socio-culturali e antropologici che avevano agevolato e premiato una pubblicità alla Carosello, una pubblicità con la rima e cose simili. Il pubblicitario cerca e trova nuove strade e nuovi propellenti creativi, più raffinati e complessi. Le parole in libertà, il kitsch linguistico-retorico a buon mercato e la filastrocca cedono all’immagine d’impatto, all’accoppiamento straniante tra elemento visivo e verbale, al genio visionario. Perché il pubblicitario si è evoluto e il suo pubblico pure. In verità i mostri di cui sopra continuano a sopravvivere, tenuti in vita dall’euforia edonistica degli anni Ottanta, in cui tutti vogliono fare i pubblicitari, anche i peggiori e gli improvvisati, perché è bello, conviene, perché c’è posto per tutti essendosi moltiplicati gli spazi e le frequenze, perché i committenti sono ancora degli ingenui, raggirabili dal primo mago (creativo) di turno. La crisi degli anni Novanta fa tuttavia ordine, e oggi, come già si diceva, l’uso marcato, poeticamente e non, della lingua resta semmai un cavallo di battaglia (sempre più spompato) di annunci below the line o di piccole agenzie di provincia (meglio chiamarle tipografie evolute o tuttofare), in cui il grafico quasi sempre fa anche il mestiere del copy e dunque fa quel che può, oppure il copy arriva a lavoro quasi finito e anche lui fa quel che può, oppure il copy altro non è che il fatidico poeta locale o il fatidico laureato in lettere a digiuno del mestiere. Se il nostro vissuto di utenti non bastasse da solo a provare la suddetta evidenza, sarà bene ricordare che da quando esiste l’«Art Director Club Italia» (cioè dal 1985), e da quando il medesimo premia ogni anno le migliori campagne, mai o quasi mai vincono le rime o i sensazionalismi retorici o fonici. I quali, espulsi e declassati dal circuito pubblicitario di serie A, si riciclano e tornano buoni per la serie B, ovvero per svecchiare e vivacizzare la titolistica tradizionalmente monocroma e referenziale dei giornali (ma anche qui la tendenza è da un po’ nettamente in calo). Infine, già a partire dagli anni Ottanta e sempre di più oggi, la pubblicità non chiede più nulla ai poeti e ai letterati, salvo eccezioni rarissime che confermano la regola, cioè risultati deludenti e irrimediabilmente d’antan.

 

Gerarchie come nella Rota Vergili

 

Eppure… Eppure rima, filastrocche, ghiribizzi del significante, storture verbali, poesie parodiate continuano a nascere, partoriti anche da grandi creativi, da grandi agenzie, dai grandi marchi – e non per pigrizia o per errore. Ecco allora «Più lo mandi giù e più ti tira su», «O così. O pomì», «Rowenta. Per chi non si accontenta», «Brioblu mi piaci tu», «Trony. Non ci sono paragoni», oppure una pioggia nel pineto che scende e bagna sottaceti da favola. Ma perché continuano a esistere? Esistono per la legge (talvolta l’alibi) del cosiddetto brand positioning. Dico cose note: il sistema linguistico e stilistico pubblicitario funziona come una rota vergili: ad ogni determinata categoria merceologica corrisponde un determinato immaginario e dunque un determinato approccio creativo. Molto in sintesi si può dire che prodotti alti, di lusso, pretendono un codice alto, aulico, tragico, serio e quasi sempre afasico; quelli di largo consumo amano invece il registro comico e sono più ciarlieri, talvolta cantano pure. Ora, si noterà che gli esempi di cui sopra si riferiscono tutti a merci della seconda categoria, sono gli stessi di Carosello: caffè, acqua, sughi, elettrodomestici. Devono appunto essere pop, simpatici, comici (e interpretati da comici: Max Tortora, Luca Laurenti ecc.), essere d’impatto e memorabili. E allora va da sé che per questi fini rime e compagnia sono mezzi perfetti o quantomeno adattissimi. Si tenga inoltre presente che gli annunci suddetti non hanno una stretta dipendenza con una determinata pagina pubblicitaria, con il suo visual o con lo spot del momento, ovvero non sono head-lines ma baseline o pay off, cioè motti o inni della marca o del prodotto in genere. Sono autonomi, circolano liberamente, e dotati di rime e ritmi diventano automaticamente dei jingle tormentoni, prima cantati dagli attori dello spot e poi canticchiati almeno una volta da tutti gli italiani. Tra parentesi, che annunci siffatti appartengano meno al registro scritto-scritto che a quello parlato-cantato lo può dimostrare l’esempio seguente: il pay off-jingle « La Coop sei tu… chi può darti… chi può darti di più», una volta portato sulla pagina scritta si accorcia in « La Coop sei tu», perdendo un pezzo e la rima.

 

Meno parole e più immagine

 

Dunque sì, il rapporto tra poesia e pubblicità, tra boutade linguistica e annuncio dipende da molti fattori, è una variabile con molte invarianti e viceversa. Conta l’epoca, il prodotto, la marca, il medium, il target e ovviamente, e non ultimo, il gusto e il tasso tecnico del creativo. Se poi si considera che la postmoderna convivenza, e contaminazione, degli stili vale anche e di più per l’arte pubblicitaria; che il vintage è di moda e che proprio negli anni Novanta, accanto a uno stile internazionale, ritorna anche quello comico e nazionalpopolare genere Carosello; che nuovi spazi pubblicitari (le finestre di pop-up in Internet o gli sms) veicolano giocoforza messaggi meno raffinati che linguisticamente impressivi, se si considera questo e molto altro, allora qualsiasi tentativo di storicizzare uno stile dominante sarà sempre una schematizzazione smentibile da moltissimi distinguo. Tuttavia lo storico non si arrenda, e prenda posizione. Nel labirinto un fil rouge c’è, ed è una tendenza che, ribadisco, non solo dà un colpo di spugna a rime, ritmi e filastrocche, ma anche limita fortemente la creatività verbale e la parola stessa. Sfogliando infatti i citati annual dell’«Art Director Club Italia», dunque schedando il meglio della pubblicità italiana degli ultimi anni, se ne ricavano le seguenti impressioni: l’immagine è tutto; la quantità di testo si assottiglia drasticamente (quasi estinte le cosiddette body copy); al blabla creativo è spesso preferita una frase stringata e nudamente referenziale (spesso in inglese) che descrive impassibile le caratteristiche del prodotto – in questi casi funziona lo charme dell’estetica minimalista e il sex appeal del codice scientifico. Del resto la stessa pubblicità su stampa periodica o quotidiana, quella cioè più incline al trattamento ‘artistico’ della lingua, è da anni in recessione. Da anni infine, l’internazionalizzazione delle campagne e delle agenzie, insieme alla limitazione dei budget, hanno fatto la loro scelta: meno parole e più immagine, lei sì global ed esportabile senza costi aggiuntivi di ritocchi e traduzioni. Tempi magri per i nostri linguisti spitzeriani.

 

*Andrea Afribo insegna Linguistica italiana nella Facoltà di Lettere dell’Università di Padova. È fondatore e redattore della rivista «Stilistica e metrica italiana» diretta da P.V. Mengaldo. Tra le sue pubblicazioni: Teoria e prassi della gravitas nel Cinquecento, Firenze, Cesati 2001 e Poesia contemporanea dal 1980 a oggi, Roma, Carocci 2007.

 


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