01 gennaio 1970

Come salvare la pubblicità (buttandone metà)

 

Intervista ad Annamaria Testa*, a cura di Fabio Rossi

 

Nel passato la pubblicità è stata oggetto di numerosi studi, anche da parte di storici della lingua: Bruno Migliorini, tra gli altri. Oggi sembra scarsa, almeno in Italia, una riflessione scientifica sulle tecniche compositive dei testi pubblicitari, soprattutto in riferimento ai nuovi mezzi di comunicazione (Internet). Forse perché è problematico il concetto stesso di pubblicità, nella generale crisi dei mercati, e sempre meno spazio viene concesso alla parola rispetto all’immagine. Eppure lo spot ben si presta, quale prototipo di testo breve e altamente condensato, ad illustrare il funzionamento della comunicazione in tutte le sue forme: dalla semiotica alla sintassi, dagli atti linguistici all’interazione tra immagini, suoni e parole. Abbiamo interpellato, su questi e su altri temi, una delle nostre principali “creative”, vale a dire autrice di messaggi pubblicitari: Annamaria Testa. Dal suo discorso, puntuale e accattivante anche per i non addetti ai lavori, si ricaveranno preziose coordinate di navigazione nella pubblicità attuale.

 

Qual è l’incidenza della lingua della pubblicità sulla lingua di tutti i giorni, oggi? Ci sono ancora casi di slogan tormentone ripetuti da tutti quali “più lo mandi giù e più ti tira su”, “Lavato con Perlana”, “Che cosa vuoi di più dalla vita”?

 

Sì e no. Nell’ambito del costume le domande sono nette, mentre le risposte sono spesso sfumate. Tra lingua pubblicitaria e italiano corrente c’è sempre stato un interscambio: la pubblicità, come forma del discorso persuasivo, va a cercare ciò che è già condiviso, per amplificarlo e riproporlo in modo che sia facile da riconoscere, da accettare e da adottare. Da questo punto di vista la pubblicità è un grande specchio dei comportamenti, degli stili e dei sistemi di valori medi e un grande frullatore e omogeneizzatore del linguaggio medio.

Tra l’altro, uno dei fattori di successo della lingua pubblicitaria sta nel suo essere aderente al parlato quotidiano, molto più della lingua dei telegiornali o di buona parte della comunicazione televisiva o su carta stampata.

Il fenomeno dei modi di dire mutuati dalla pubblicità, secondo me (ma non ho dati certi al riguardo), si è ridimensionato, mentre è stato fortissimo fino alla seconda metà degli anni Ottanta. Il motivo è semplice: la spaventosa crescita della pressione pubblicitaria conseguente all’avvento delle televisioni private ha determinato un enorme aumento del “rumore”. Oggi è difficile che un messaggio pubblicitario riesca ad avere la forza necessaria ad emergere dalla marmellata degli slogan per installarsi nella memoria collettiva.

Se non ci sono più picchi di memoria su un singolo slogan, la contaminazione è in realtà ancora più forte rispetto a qualche anno fa.

Se ascoltiamo le persone in metropolitana o per la strada, quando parlano di prodotti sembrano uno spot. Così come tutto il linguaggio del dolore è quello delle telenovelas: le persone esprimono sentimenti con uno stile mutuato dai dialoghi, spesso modesti, dei serial televisivi italiani. È una brutta copia fraintesa dell’italiano letterario, che ha perso la forza genuina dei dialetti per diventare non un italiano medio, ma un italiano mediocre.

 

Ha anche Lei l’impressione che al pubblico odierno piacciano meno i giochi di parole? Forse “Sfrizzola il velopendulo” e “Titilla la papilla” oggi non piacerebbero molto. Neppure le parole macedonia, da digestimola a docciaschiuma, sembrano oggi amate come un tempo dalla pubblicità, né le infrazioni alla grammatica, da “Metti un tigre nel motore”, a simmenthalmente, a comodosa, risparmiosa ecc.

 

Sono fenomeni diversi. I ragazzi di oggi si sentono più liberi che in passato di manipolare e deformare il linguaggio. È però, per dirla con Piaget, una manipolazione inconsapevole. Nel senso che non si conoscono bene le regole e si va come capita. Spesso i ragazzi non hanno gli strumenti lessicali necessari a cogliere il cortocircuito del senso che può star dietro un buon gioco di parole.

Invece le parole macedonia, che si usavano molto attorno agli anni ’60, oggi suonano fin troppo sloganistiche. Sono una scorciatoia che non amo: alcune hanno impatto, ma è l’impatto del mostro, del basilisco. Digestimola mi sembra brutto anche perché troppo facile: non c’è gioco, non c’è libertà di interpretare. L’inglese ha maggiore facilità dell’italiano ad accettare questa violenza sulle parole.

 

Sembrano molto lontani anche i giochi più sofisticati dei suoi messaggi pubblicitari migliori, che si basavano talora sul solo significante (come la già citata campagna per Golia), altre volte, nei casi più felici, sulla semantica e la sintassi: “In farmacia qualsiasi risposta non è mai una risposta qualsiasi”; “Leggi di natura” («Airone»). Altre volte, infine, sull’ottima interfaccia tra visual e testo: “Liscia, gassata o Ferrarelle?”. Se la sentirebbe di dire che oggi il linguaggio pubblicitario ha perso di efficacia e di raffinatezza?

 

È vero. Mi imbarazza apparire nostalgica, però non posso non ricordare che fino agli anni Settanta diventavano copywriter squisiti intellettuali i quali consideravano la pubblicità un modo per guadagnare e anche per entrare nel main stream del divenire culturale. Le agenzie erano strutturate come botteghe professionali: ci si entrava sottopagati, cercando un Maestro, si faceva una consistente gavetta e si imparava a usare le retoriche proprie del medium pubblicitario.

Oggi questo non succede più. L’onere dell’istruzione dei ragazzi è quasi interamente trasferito alle scuole di pubblicità, dove l’apprendimento è necessariamente più sfocato: mancano il contesto dell’agenzia, la pressione del cliente, il confronto competitivo con i colleghi più bravi, la supervisione occhiuta e magari vessatoria dei seniores. Gli stessi ottimi professionisti coinvolti nell’insegnamento spesso si limitano a commentare il proprio lavoro: non si mettono certo per un anno a correggere furiosamente i bodycopy degli studenti aggiustando le virgole e tagliando ogni parola di troppo, o a riscrivere e riscrivere headline cercando la soluzione migliore.

Un altro punto critico: scuole di pubblicità e corsi di Scienze della comunicazione sfornano ogni anno una quantità di studenti superiore, temo, al complesso degli addetti italiani del settore. Basti dire che tutti i dipendenti delle agenzie aderenti ad Assocomunicazione, la maggiore associazione di categoria, sono poco più di seimila.

E poi: spesso si va a studiare comunicazione e pubblicità perché sembra una faccenda brillante, divertente e poco impegnativa, e a prescindere dal fatto che si sappia, per esempio, leggere e scrivere correttamente. Insomma: abbiamo troppi ragazzi che vogliono fare questo mestiere, ne abbiamo molti che sono omologati, lucidi, scintillanti ma privi di originalità, e ne abbiamo pochi davvero bravi.

Così, dal calderone della pubblicità contemporanea ormai spuntano anche strafalcioni esilaranti, come il seguente, uscito sul quotidiano « La Repubblica »: si vede un (finto) professore di Scienze della comunicazione che pubblicizza il sito ilmiolibro.it (un servizio web per pubblicare testi a pagamento) con le seguenti parole: «Le dispense per i miei studenti le ho stampate io con ilmiolibro.it. Adesso nessuno è più dispensato dall’ignorare le mie lezioni». Possibile che nessuno dei redattori si sia accorto che dalla triplice negazione deriva un senso opposto a quello atteso: ‘tutti sono obbligati a ignorare le mie lezioni’?

Questo esempio (magnifico nella sua circolarità: un errore prodotto proprio da un supposto studioso di comunicazione) racconta la fragilità intrinseca del sistema meglio di mille parole. Non me la prendo con il povero copywriter – un momento di distrazione capita a tutti – ma con chi non ha corretto il suo testo, tra tutti quelli che di sicuro l’hanno visto: dal senior, al direttore creativo, all’account, al product manager

Una delle cose che uccidono la pubblicità è l’essere tolleranti con le sciocchezze, perché tanto “è solo pubblicità, sciocchina per definizione”. Certo, per mettere in crisi l’italiano ci vuole ben altro, ma la manutenzione è anche fatta di attenzione ai dettagli, no?

 

Quali nuove strade dovrebbe percorrere la pubblicità per non suscitare il rigetto di chi ne fruisce? Oggi siamo un po’ tutti smaliziati e dunque i messaggi pubblicitari tradizionali non attecchiscono più come un tempo? Oggi si spende più o meno di ieri per la pubblicità? Forse si preferiscono voci di spesa promozionale per nuove forme, come i gadgets, i film e gli advergames?

 

Anche in pubblicità, less is more. La pubblicità dovrebbe autoregolamentarsi, per sopravvivere. L’idea che quanto più si ripete qualcosa tanto più si è efficaci, figlia delle televisioni private e degli anni Ottanta, si sta dimostrando inefficace. L’affollamento pubblicitario non è solo una seccatura. È l’esplosione del senso. Trasmettere il medesimo spot quattro volte nel corso di un film non ha logica e può essere controproducente, fino a generare avversione o disgusto.

So che non ci si salva se non riducendo la pressione pubblicitaria, depurando le città, la televisione, le testate, di un buon 40% di messaggi pubblicitari. I rimanenti, venduti a prezzo alto, come una risorsa preziosa: oggi i prezzi degli spazi pubblicitari sono più bassi di un tempo, in una rincorsa senza fine agli sconti.

Se si vuole che la pubblicità continui ad avere e a produrre un senso che magari si trasforma in propensione all’acquisto, i temi da affrontare sono diversi. Il primo riguarda, appunto, il dire meno e il dire meglio. Non so se ci arriveremo mai. Il secondo riguarda i nuovi media, di cui parleremo tra un attimo. Il terzo è quello dell’interattività, del dialogo con il pubblico e dello sviluppare offerte e discorsi specializzati, di nicchia, ritagliati sui desideri e i bisogni dei singoli. Il quarto riguarda l’abbandonare una serie di stereotipi invecchiati e inadeguati: quelli femminili, per esempio. Purtroppo, però, ogni Paese ha la pubblicità che si merita.

 

In un’intervista recente, Lei ha osservato che oggi la pubblicità non deve più convincere, ma se mai divertire, emozionare ed essere imitata: lo dimostrano le migliaia di messaggi pubblicitari raccolti e spesso rifatti (ironicamente) in YouTube. Insomma, oggi il messaggio pubblicitario è una specie di ipertesto, nel senso genettiano del termine, un testo cioè che dà origine ad altri testi, che li manipola, li ricicla ecc. Serve per essere smontato e rimontato come un gioco degno di Queneau, insomma? Un po’ come diceva già nel 1994 Jean Baudrillard, oggi la pubblicità ha come merce sé stessa, ovvero tende sempre più all’autoparodia?

 

Teorizzando, si rischia di rendere la realtà più complicata di quanto non sia. Qualsiasi prodotto dell’ingegno umano può essere usato in molti modi. E anche la pubblicità. Più i modi sono molteplici, più il prodotto viene piacevolmente usato e meno facilmente risulta sostituibile. Questo fatto, fra l’altro, si traduce in consistente vantaggio competitivo.

L’obiettivo primario della pubblicità è raccontare storie sui prodotti, aggiungendo il valore dell’emozione, in modo da renderli differenti l’uno dall’altro, più gratificanti e tali da confermare il senso d’identità di chi li usa. Pensiamo alla pubblicità delle automobili: io scelgo un’auto che mi rappresenti, all’interno delle mie possibilità economiche, perché in qualche modo racconta di me come vorrei che gli altri mi vedessero. La stessa cosa faccio con un abito, con un cibo. Avrà notato quanto i cibi pronti si propongano come espressione di amore materno: faccio i sofficini e tutta la famiglia mi è grata.

La pubblicità deve fare prima di tutto questo. Riesce a farlo tanto meglio quanto più è piacevole, capace di intrattenere e di farsi adoperare. Se mi perdona il paragone impertinente, la pubblicità è come un insegnante, che riuscirà tanto meglio a trasmettere contenuti didattici quanto più sarà comprensibile, interessante, coinvolgente, e quanto più saprà aiutare i ragazzi ad usare i contenuti trasmessi come fossero i loro.

Spesso ci si dimentica che tutto questo fa parte delle regole di base della comunicazione: vengo tanto più creduto quanto più sono autorevole, tanto più ascoltato quanto più sono empatico, quanto più offro informazioni interessanti, utilizzabili, vicine ai desideri, ai bisogni e agli umori di chi dovrà usarle. Sono le dinamiche proprie di qualsiasi comunicazione. È ovvio che si dia più retta ad una persona simpatica che ad una antipatica, o che si impari di più da un insegnante vivace che da uno noioso. Ma tutto ciò sembra manipolatorio se accade in pubblicità.

 

Ma tutto questo non ci dimostra che la pubblicità in quanto tale, in quanto legata al prodotto da far acquistare, è oggi in forte crisi? Lei lo diceva già nel 2004. Non trova che la pubblicità odierna, come del resto un po’ tutti i messaggi mediatici, tenda all’autoreferenzialità? Lei ha detto che i giovani oggi sono meno esposti alla pubblicità e che su di loro le mode attecchiscono più col passaparola e con l’esempio di personaggi famosi che grazie agli spot. Dunque, mi chiedo e Le chiedo, a che e a chi serve la pubblicità, oggi?

 

I giovani oggi non sono esposti ai media classici. I ragazzi sentono forse più la radio, ma guardano poca televisione e non leggono i quotidiani né i periodici.

 

Dunque, come ha già anticipato prima, il futuro della pubblicità sembra risiedere in Internet? Ma allora perché la pubblicità in Internet è tanto deludente (“rudimentale”, la definisce Lei in un suo volume)? Banner che sembrano riprodurre stantii manifesti o pagine di gazzette d’altri tempi. Certo, forse la pubblicità in Internet deve seguire altre strade, da quelle di banner e popup. E la pubblicità radiofonica? Non è a dir poco irritante, il più delle volte? Con quei dialoghetti insulsi con prevedibilissimi nonsense. Ma serve?

 

Internet è un mondo nuovo per leggere il quale si stanno usando vecchie categorie. Per esempio, l’UPA (Utenti Pubblicità Associati, costituito dalle principali aziende industriali, commerciali e di servizi che investono in pubblicità) censisce come pubblicità on line soltanto gli spazi acquistati (banner, annunci su Google e simili), senza pensare che un sito è in sé pubblicità e può fra l’altro costare moltissimo per progettazione e gestione, al di là della piccola spesa per l’acquisto di un indirizzo web. Dunque le statistiche non sono realistiche e le spese sono, credo, ampiamente sottostimate.

Noi non abbiamo ancora idea di come si evolverà la comunicazione via web. È un mezzo ancora troppo giovane: non sono state ancora inventate retoriche e linguaggi ad hoc. È tutto così veloce che i sistemi narrativi non riescono a star dietro all’evoluzione tecnologica.

L’idea che un sito nel suo complesso possa essere considerato uno strumento di comunicazione commerciale scardina tutto quanto sappiamo delle retoriche pubblicitarie. La pubblicità così come noi la conosciamo oggi, infatti, è nata a partire dai vincoli di spazio (la pagina, il manifesto) e tempo (30 o 60 secondi di spot) da acquistarsi a caro prezzo sui mass media.

Ma in un sito saltano i vincoli che ci fanno riconoscere la pubblicità come tale, e che la obbligano a presentare tratti formali ricorrenti. Primo fra tutti il vincolo della sintesi all’interno di un format che integra parole e immagini e isola il messaggio dal resto dei contenuti del medium.

In un sito il tempo di fruizione è potenzialmente infinito. Lo spazio ha sì le dimensioni dello schermo del computer, ma può anch’esso moltiplicarsi in infinite schermate. È come se uno potesse comprarsi un’intera rivista per riempirla di pubblicità.

Ma il web offre anche una gamma di possibilità di interazione del tutto nuove. I destinatari dei messaggi sui mass media hanno a disposizione pochi feedback possibili: assentire e magari comprare, dissentire e ignorare, al massimo scrivere una lettera di protesta all’azienda. Sul web possono discutere, contribuire, manipolare, diffondere, deformare, progettare (sia comunicazione che prodotti: è il crowdsourcing), specificare, ampliare, confrontarsi, protestare, assentire esplicitamente, diventare fan e a loro volta promotori…

Queste potenzialità vanno ancora sperimentate pienamente. Coca Cola ha fatto cose interessanti al riguardo, proponendo siti interattivi. Diverse aziende (Lego è stata una delle prime) stanno coinvolgendo utenti esperti nella progettazione: ma è solo l’inizio.

Domani potrò immaginare una sitcom su un prodotto e chiedere al pubblico come dev’essere la prossima puntata. Oppure ospitare contributi del pubblico. Questa opportunità di dire la propria, nel proprio modo, essendo protagonisti, oggi si esprime già, per esempio, in alcune produzioni di scrittura collettiva, o in certi siti di fanfiction.

È uno sviluppo non solo possibile, ma anche probabile. E non determinerebbe la morte dei creativi pubblicitari, ma la nascita di una metacreatività, volta non tanto a inventare messaggi quanto a progettare strutture e modi tali da permettere al pubblico di interagire producendo propri messaggi.

 

L’impressione è che oggi si deleghi quasi tutto all’immagine e pochissimo alle parole (e questo spiegherebbe i deludenti risultati della pubblicità radiofonica e la riduzione della verbalità nei banner), o invece non è così? Lei stessa sostiene come nello spettatore resti sempre più in mente l’immagine della parola, poiché colpisce la sfera emotiva prima di quella logica.

 

La scarsa qualità della pubblicità radiofonica ha diversi motivi: la radio viene di rado considerata un medium autosufficiente, e spesso i radiocomunicati sono adattamenti di campagne uscite altrove. Costa poco ed è accessibile anche a clienti piccoli, che quindi investono meno anche in progettazione e produzione. E… fare un radiocomunicato e produrlo è meno divertente e gratificante che progettare uno spot. Quindi, magari, qualche volta ci si lavora sopra con minore passione. Ma, ad ascoltare bene, qualche buon radiocomunicato si trova.

 

Il segreto di un buon messaggio pubblicitario sembra dunque, al solito, quello della giusta misura, mentre o troppo parlati o troppo poco sembrano gli spot televisivi di oggi, no? Quasi sempre muti quelli di profumi e abiti, troppo densi di parole e di giochi verbali quelli delle compagnie telefoniche, non le pare?

 

Certi settori merceologici che sono più vicini alla cultura della comunicazione, come quelli della moda, del design e dell’editoria spesso si “fanno in casa” la pubblicità, ma la fanno a partire dalla propria competenza specifica: e allora agli annunci della moda e del design mancano le parole, a quelli dell’editoria fanno difetto le immagini. E i risultati non sono proprio esaltanti.

L’iperparlato degli spot delle compagnie telefoniche deriva, credo, sia dal fatto che per definizione al telefono si parla, sia dall’impiego di testimonial famosi, e dunque costosi. Difficile resistere alla tentazione di sfruttarli al massimo trasformandoli in televenditori.

 

Quali sono, secondo Lei, le differenze più evidenti tra la pubblicità italiana e quella straniera? A me pare che quella straniera di buon livello osi di più della nostra, no? Sia meno retorica, meno prevedibile, con un miglior accordo tra immagine, musica e parole, meno finalizzata ad assimilare ogni prodotto a uno stimolo sessuale. O il mio atteggiamento è frutto di esterofilia?

 

Il sesso è una scorciatoia fin troppo facile. Perfino l’«Economist» ha rilevato lo stravagante e diffuso impiego nazionale di ragazze molto poco vestite per vendere telefonini. Un’altra espressione della propensione italiana a piazzare veline anche là dove non servirebbero.

Le emozioni sono motivanti, e il sesso è un grande motore motivazionale ed emozionale, non nascondiamocelo. Ma quando viene usato come ingrediente universale, per pubblicizzare qualsiasi cosa, si depotenzia, perde mistero, logora il desiderio, diventa plastica. Così, una sessualizzazione esagerata e spesso incongruente consuma anche il discorso pubblicitario. E logora perfino l’immaginario relativo a un prodotto, se questo viene mostrato come pura, casuale appendice a una bella pupa svelata.

All’estero la figura femminile viene meno mortificata. Basti prendere ad esempio la campagna americana del sapone Dove. Nel sito www.nuovoeutile.it pubblico diversi link a siti che ospitano rassegne internazionali di eccellente pubblicità. Se si vuol capire che cosa di nuovo succede nel mondo dell’advertising bisogna guardare quanto di meglio si fa negli Stati Uniti o in Inghilterra, ma anche in Sud America, nella penisola scandinava, o in Giappone. Nel Suo giudizio c’è però anche un vizio percettivo: noi vediamo la crema della pubblicità straniera. Se si guardano le mille emittenti locali americane si trovano cose proprio bruttine.

Infine: la cultura, il gusto, lo stile in pubblicità sono per tradizione di derivazione anglosassone. Per noi latinos è più dura. E, fra i latinos, spagnoli e sudamericani sembrano comunque più propensi a innovare: forse questo deriva anche da una maggior presenza di giovani e donne là dove si decide quale pubblicità approvare e produrre. Non dimentichiamo che le agenzie presentano sempre diverse proposte di campagna. Può anche darsi che da noi, più spesso che altrove, vengano scelte le ipotesi più conformiste perché mediamente più conformisti sono i luoghi dove si maturano le decisioni.

 

Più volte Lei ha ribadito che la creatività non è trasgressione fine a sé stessa, né frutto di un genio innato, ma si acquisisce con lo studio e l’esperienza e soprattutto consiste nel combinare elementi della tradizione in modo nuovo. Come, secondo Lei, si può imparare ad essere creativi?

 

Più che di imparare ad essere creativi, parlerei di sviluppare la creatività individuale. Questo si fa essendo rigorosi, esigenti con sé stessi, curiosi, tenaci. E cercando di lavorare nei posti dove il tasso di innovazione e la possibilità di sperimentare sono alti. Fino agli anni Settanta la pubblicità era un lavoro nuovo, capace di attrarre persone brillanti: dagli uffici della comunicazione Olivetti, è passata una bella fetta dell’intellighenzia nazionale. Oggi, paradossalmente, per un giovane decidere di fare il pubblicitario di professione invece che scommettere, per esempio, sul web è una scelta per certi versi poco originale.

Un altro problema è questo: il mondo della pubblicità italiana (al contrario di quello delle ricerche e di quello del marketing) ha prodotto poca cultura professionale. Ma un sistema che non produce cultura e innovazione o si limita a sostenere un’innovazione formale venata di autoreferenzialità, diventa più fragile e meno capace di crescere, di migliorarsi, di difendere la qualità. Anche la stampa di categoria, confrontata con le grandi testate internazionali, presenta ampi spazi di miglioramento.

Ma, poiché cambiare prospettiva è in sé un fatto di creatività, proviamo a farlo: ridiscutere il tema della pressione pubblicitaria, inventare nuovi modi per interagire con il pubblico, trovare retoriche adatte ai nuovi media, sviluppare una relazione più equa e trasparente con i consumatori, ridiscutere le interazioni e i processi creativi propri delle agenzie, integrare nuove professionalità. Queste sì, se venissero colte, potrebbero rivelarsi sfide creative piuttosto interessanti.

 

 

*Annamaria Testa si occupa da oltre trent’anni di pubblicità, creatività e comunicazione. Sue le storiche campagne di Golia («Titilla la papilla», «Sfrizzola il velopendulo») e altre («Liscia, gassata o Ferrarelle?»). Sulle caratteristiche della comunicazione non solo pubblicitaria ha scritto numerosi articoli e volumi, tra i quali: La parola immaginata (1988); La pubblicità (2003); Le vie del senso (2004). È giornalista, docente universitaria (Roma, Torino, Milano), consulente di molte imprese, ha collaborato con la RAI e si è occupata di comunicazione pubblica e politica. Nel 2005 ha fondato «Progetti Nuovi», società per la comunicazione d’impresa. Ha recentemente creato il sito www.nuovoeutile.it, repertorio (gratuito e utilissimo per studenti, studiosi, addetti e non addetti ai lavori del campo della comunicazione creativa) di materiali riguardanti teorie, pratiche e applicazioni della creatività.

 

 

 


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