01 gennaio 1970

Brandscape (tre scenari nel paesaggio dei marchi)

di Massimo Arcangeli*

 

1. Ieri…

 

Di réclame in senso moderno si può cominciare realmente a parlare all’altezza del XVII secolo, in coincidenza con la comparsa, su alcune gazzette, dei primi avvisi commerciali rispondenti apertamente a intenti comunicativi pubblicitari. A partire dalla fine del Settecento la presenza dell’immagine all’interno dell’annuncio si fa via via più consistente e il sistema delle relazioni che la componente figurativa intrattiene con la parte verbale più raffinato e complesso; l’avvento dei cartelloni d’autore che animano il paesaggio urbano, nella seconda metà del XIX secolo, segna una tappa chiave per il passaggio a modelli di pubblicità di sempre maggiore impatto, forza icastica e capacità persuasiva.

L’invenzione della radio e della televisione impone alla pubblicità primo-novecentesca stili e modelli più funzionali ai nuovi e potenti mezzi: i vari messaggi, quando non mimano ritmi e figure della tradizione poetica per ricavarne una qualche forma di nobilitazione, sposano volentieri la cantabilità dei jingle e la facile memorizzabilità ed economia degli slogan. Se nell’era di Carosello (1957-1977), gli anni d’oro in materia di comunicazione pubblicitaria, le réclame sono improntate a una sostanziale sobrietà che sancisce il primato della parola sull’immagine, negli anni Ottanta prendono il sopravvento le immagini esagerate e spettacolari, che mirano a divertire, stupire, emozionare i fruitori.

Gli anni Novanta vedono la definitiva affermazione dell’entertainment. La neotelevisione, che comincia a fare i conti con la concorrenza di Internet, moltiplica i propri canali, inventa una quantità di format e altrettanti ne abbandona o ne contamina, costringe i palinsesti a rispondere alla logica di una programmazione di “flusso” che sacrifica gli appuntamenti televisivi fissi, si rivolge a spettatori che preferiscono essere intrattenuti piuttosto che informati. Anche le attività d’acquisto finiscono per prendere forma di eventi guidati da una logica spettacolare: lo shopping diventa shoptainment o, per adoperare una vecchia formula, “shopping ricreativo” (cfr. Bellenger, Robertson, Greenberg, 1977); se il convenience shopper è orientato all’acquisto rapido, motivato e funzionale, a guidare il recreational shopper è la «ricerca di un punto vendita originale, con un’atmosfera piacevole e una grande varietà di merci di qualità, che garantisca divertimento, sorprese ed eccitamento» (Codeluppi 2005, p. 23).

Con l’infotainment a scombinare le regole imposte dalla vecchia divisione tra i generi televisivi, e la promocrazia (Bruno 1996) a traghettare la comunicazione politica verso la propaganda pubblicitaria, si moltiplicano le tante manifestazioni di una generale confusione e ibridazione (giunta, con il più recente edutainment, a condizionare le proposte in materia didattica). Il variegato popolo dei consumatori, per l’imprevedibilità di fondo dei comportamenti esibiti, si lascia identificare con sempre maggiore difficoltà; studi e indagini di mercato sui target che lo compongono, adeguandosi al mutato clima, si affinano (maggiore perciò l’attenzione riservata dalle aziende alla diversificazione dell’offerta): alcuni vengono selezionati con più cura, altri vengono scomposti in unità di analisi più piccole e meglio rispondenti alla sopravvenuta moltiplicazione di desideri e comportamenti d’acquisto, altri ancora vengono identificati o messi a fuoco per la prima volta. Sono ben cinque i tipi comportamentali individuati da Vigneron/Johnson (1999) all’interno della categoria dei prestige-seeking consumers, la fascia dei consumatori che attribuiscono, ognuno a suo modo, un significato di prestigio al bene o prodotto acquistato (cfr. Serra 2006, p. 52 sgg.): gli “esibizionisti”, per i quali l’oggetto di consumo è mezzo di ostentazione della propria superiorità economica e perciò quanto più è costoso tanto più acquisisce valore ai loro occhi; gli “snob”, per i quali conta soprattutto che sia esclusivo, riservato a pochi privilegiati, prodotto in quantità limitate (ciò non impedisce, tutt’altro, che possa essere anche costoso); i “trainati”, che aspirano a far parte di gruppi situati ai gradini alti della scala sociale e di cui si devono perciò solleticare i desideri di miglioramento (assai frequente per questa ragione, nei relativi annunci, l’appello diretto al potenziale acquirente); gli “emotivi”, che si lasciano attirare soprattutto da quanto risponde alle loro pulsioni interiori o soddisfa una propensione al piacere che offende in molti casi il comune senso del pudore o disobbedisce alle norme sociali vigenti (sicché edonismo può finire per far rima con anticonformismo e antitradizionalismo); i “perfezionisti”, che ancorano il prestigio della merce alla sua qualità superiore, alla sua iperfunzionalità, alla sua avanzatissima tecnologia rispetto ai prodotti concorrenti o a quel medesimo prodotto una volta spogliato del valore aggiunto di optional, particolari di pregio, modifiche al modello base e chi più ne ha più ne metta.

 

2. …Oggi…

 

Con l’ingresso nel terzo millennio lo shoptainment diventa shopaholism nelle fortunate storielle chick lit di Madeleine Wickham, in arte Sophie Kinsella. E se non è shopping-dipendenza è sempre più esperienza totale, full immersion nel magico mondo – divenuto nel frattempo, paradossalmente, del tutto immateriale – dei grandi marchi aziendali; questi, come l’americana Nike o la giapponese Sony, «tendono a realizzare punti-vendita che coinvolgano tutti i sensi del consumatore: una shopping-experience, che ha un suo valore in sé, a prescindere dai beni o dai servizi offerti» (Testa 20042, p. 59).

Confusione e ibridazione coinvolgono intanto r ipetutamente l’identità sessuale, con gli immancabili riflessi sulle campagne pubblicitarie. Nel 2005 la Sony, per celebrare i dieci anni di vita della playstation, fa pubblicare su diversi giornali un annuncio, poi ritirato dopo un’ondata di proteste innescate e alimentate da “Famiglia cristiana”, nel quale appare un giovane dal sorriso malizioso con in testa una corona di spine adattata per l’occasione (lo slogan: “Dieci anni di passione”). Nel 2006 sono state invece le provocazioni in stile gay, favorite anche dal successo arriso ai Segreti di Brokeback Mountain (regia di Ang Lee), il bersaglio preferito dei sempre vigili bacchettoni: dallo spot Dolce & Gabbana reclamizzante un orologio (D&G Time), chiuso da un bacio in realtà quasi “asensuale” tra due ragazzi, ai manifesti dell’azienda di abbigliamento giovanile Ra.Re, prima censurati dall’Istituto di autodisciplina pubblicitaria (IAP) e quindi oggetto di un procedimento penale, che ritraevano una coppia omosessuale di fatto – e di uomini fatti, con tanto di cane – immortalata dagli scatti di Oliviero Toscani in pose e atti osé: baci, avances e controllatine al “pacco”.

La pubblicità è arte, sebbene “di consumo” (Folena 1987 [1967], p. 151)? Se la risposta fosse affermativa la questione si risolverebbe forse più facilmente. Ma le cose non sono così semplici. Ne sa qualcosa, nuovamente, la premiata ditta Dolce & Gabbana. Qualche tempo fa i due stilisti hanno provato a ribattere a chi li aveva accusati di incitare alla violenza contro le donne, in un loro manifesto, difendendo proprio la causa dell’arte: perché se non si accetta la libera espressione artistica, questo il loro commento, «allora bisognerebbe chiudere il Louvre e gran parte dei musei del mondo». Il manifesto incriminato – censurato in Spagna e alla vigilia dell’8 marzo, dopo una denuncia allo IAP e una minaccia di boicottaggio, vietato anche da noi – ritrae una giovane donna tenuta a terra con la forza da un uomo, anch’egli giovane, che le ha bloccato i polsi, mentre altri quattro uomini assistono, imperturbabili, alla scena; l’accusa: “istigazione allo stupro di gruppo”. In un altro affisso della medesima campagna Dolce e Gabbana si sono divertiti nuovamente a provocare: non tanto per il sottile suggerimento lesbo, che fa così tanto fashion (due donne, in piedi una accanto all’altra e in abiti succinti e attillatissimi, avvicinano le labbra mostrando di volersi baciare) e vanta un precedente in uno spot televisivo Campari (1998) che inscenava «un triangolo amoroso tra un uomo e due donne» e insinuava «il dubbio di un rapporto saffico tra le protagoniste» (Melchiorri 2002, p. 114), quanto perché mentre una terza donna, seduta e inquadrata dall’occhio di una steadicam, pare nel frattempo contraccambiare vogliosa, dirigendo lo sguardo su di lui, l’uomo-seduttore che la riprende, quest’ultimo, in slip e scarpe da ginnastica, la “punta” con un secondo oggetto (il membro in erezione che gli gonfia l’indumento intimo).

Non si contano, negli ultimi anni, gli episodi in cui si gioca con le declinazioni eterodosse o più o meno patentemente perverse dell’identità sessuale, anche in risposta alle pressioni di una società che esige identità temporanee e in continuo movimento e mostra di avere «sempre più bisogno di soggetti flessibili, molteplici e polidimensionali» (Codeluppi 2005, p. 225). Non si contano nemmeno i tentativi di rovesciare il plurisecolare cliché della donna oggetto del desiderio maschile: trasformandola, per cominciare, da preda a cacciatrice; sottraendola ai bassi appetiti del maschio con la proposta di una femminilità tanto acerba quanto asessuata, come in certe pubblicità della stilista tedesca Jil Sander, “purista” e minimalista; proponendone modelli mascolini o particolarmente aggressivi: dalla ragazza sicura di sé che, in uno spot di qualche anno addietro, sfidava a braccio di ferro un aitante giovanotto sul cofano della sua auto (una Nissan Micra) alle energiche mamme riprese a inscenare l’haka, la danza sacra maori, tradizionalmente vietata alle donne, in uno spot automobilistico della FIAT Idea che ha suscitato le proteste, oltreché degli stessi maori, del governo neozelandese. E al maschio, di tanto in tanto, si chiede di rispondere per le rime.

 

3. …e Domani (due scenari)

 

Il futuro inquinante . La comunicazione pubblicitaria non cessa di avventurarsi in nuovi, sempre più numerosi, territori. Continuerà probabilmente a soffiare sul fuoco del gigantografismo urbano, che vede sempre più “foderate” da enormi cartelloni le facciate di interi edifici; della trasformazione del landscape in un brandscape, un paesaggio di marchi, in conseguenza della nascita di insediamenti che sono la pubblicità – come Autostadt, la città tedesca dell’automobile realizzata da Volkswagen – e non luoghi nei quali la pubblicità è (cfr. Testa, 20042, p. 8); del matrimonio tra aziende produttrici di beni o servizi anche molto diversi tra loro (co-branding), basato su presupposti che coinvolgono, più che i prodotti in sé, realtà immateriali come gli stili di consumo; della pervasiva “vetrinizzazione sociale” (Codeluppi 2007) che, per effetto della tempesta di griffe, autentiche o contraffatte, su capi d’abbigliamento e accessori, sembra aver trasformato i loro veicoli umani in vetrine ambulanti – quelli non umani, auto private comprese, lo sono già – e potrebbe produrre in futuro moderne versioni dei vecchi uomini sandwich; accogliendo una proposta avanzata qualche anno fa da Umberto Eco e tatuando magari, come in un racconto fantascientifico di Primo Levi (In fronte scritto), un bello slogan sulla fronte dei “concessionari”.

Viaggerà poi sempre più spesso, la pubblicità, sul filo dell’“iperità” garantita e amplificata dalla rete, che si spera possa divenire davvero il luogo di realizzazione di una “democrazia elettronica” che sottragga il cittadino al nuovo regime imposto dalle “cattedrali del consumo” (cfr. Ritzer 2000), i grandi, fagocitanti centri commerciali. Spesso collocati ai margini degli agglomerati urbani come un tempo le fabbriche, e sempre più luoghi di “pellegrinaggio” sotto forma di cittadelle autoriferite in cui consumare tutto il tempo disponibile senza mai socializzare, sono i nuovi centri aggreganti di uno spazio comune, «garantito dai conflitti e igienizzato» (Arcangeli 2005, p. 100), in cui si può fare di tutto: comprare merci di ogni tipo, andare al cinema, divertirsi con i videogiochi o giocare al biliardo o al bowling, assistere a un concerto o a un altro evento (previo parcheggiamento dei pargoli al “recinto” dei giochi). Sembrano essere il frutto di un nuovo ciclo produttivo che potremmo definire postproduttivo o, ricorrendo alla categoria dell’iperità, iperproduttivo.

Un tempo si consumava quel che si produceva a caro prezzo (umano e sociale) nelle grandi fabbriche, oggi si produce invece a poco prezzo – in termini economici, magari con la delocalizzazione – quel che, prima ancora, si è provveduto a far sì che altri si sentano indotti a consumare. Quel tempo libero che si pensava, non molti anni fa, sarebbe stato sempre più speso in rilassanti attività ricreative, disinteressate e “gratuite”, si è trasformato per la maggior parte delle persone – per quanto i privilegiati che possono permettersi di disporne lussuosamente siano in aumento: cfr. Calefato 2003, pp. 56-57 – in tempo di altra, costosa produzione: dalla padella della catena di montaggio alla brace della catena di consumo.

 

Il futuro inquietante . «Là dove l’esperienza si riduce alla sola esperienza di consumo», ha scritto Annamaria Testa, «l’esperienza in sé (se vogliamo usare una definizione impegnativa: l’esperienza di vita) diventa essa stessa oggetto di offerta commerciale. I parchi tematici che offrono mondi fittizi da percorrere e conoscere hanno milioni di visitatori, gli alberghi si ristrutturano anch’essi secondo criteri tematici per configurarsi come “mondi” da abitare, i negozi offrono shopping experience prima ancora che merci, e così via. […] Teniamo gli occhi bene aperti. Ma proteggiamo il nostro sguardo» (Testa 20042, p. 135). Se lo ammette persino l’attuale più grande talento creativo della comunicazione pubblicitaria italiana c’è da crederci. Continuiamo pure a sgranare gli occhi, come stupefatti bambini, di fronte al rutilante spettacolo della pubblicità; non lasciamoci però accecare dagli illusori splendori di una main promise che ha cessato di essere oggetto dei nostri sguardi e pretende di subentrare, dopo essersi impadronita del nostro punto di vista, all’organo stesso che rende possibile la visione. E per una pubblicità che aspira a diventare facoltà del vedere, un individuo che non sa né vuole reagire alla sua condizione di bene di consumo: «Non c’è da stupirsi che l’uso/logorio delle relazioni umane e quindi, per procura, anche delle nostre stesse identità (noi ci identifichiamo in riferimento alle persone con cui siamo in relazione) assomigli sempre più all’uso/logorio delle automobili, a imitazione di quel ciclo che comincia con l’acquisto e finisce con la discarica» (Bauman 2003, p. 89).

Dall’iperità generale all’“ipoità” di identità e relazioni che si consumano rapidissimamente, in un ciclo produttivo parallelo di esistenze ed esperienze quasi usa-e-getta. Si potrebbe sperare, per risalire la china, nella persuasione di segno opposto – e non rinuncia a persuadere, che sarebbe invece antipubblicità – messa in atto dalla montante contropubblicità, attualmente una delle più vistose manifestazioni del culture jamming. Erede delle azioni di sabotaggio culturale antiborghese a opera dei situazionisti tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, e oggi particolarmente impegnato proprio nella lotta contro i grandi marchi, il culture jamming contropubblicitario, anziché nuocere al branding, finisce però per giocare a suo favore:

 

Negli ultimi anni sono stati prodotti molti messaggi [contro]pubblicitari ironici ed efficaci come il dialogo fra due cowboy ricalcati sul Marlboro Man che recita “Bob, mi sono beccato un enfisema”, o le parodie degli annunci patinati di Calvin Klein. Tuttavia è evidente che essi non hanno minato più di tanto né la forza della pubblicità né il prestigio dei marchi contestati. Anzi, parecchie campagne pubblicitarie hanno abilmente fagocitato lo stile di strada e talvolta i messaggi irriverenti dei propri contestatori, a partire dal ruvido messaggio Sprite che invitava a diffidare dell’immagine e ad ascoltare solo la propria sete (Ghelli 2005, p. 96).

 

Analogo il destino toccato in sorte alla contropropaganda elettorale, che ha trovato una sponda di ghiotta e irripetibile portata nell’avventura politica di Silvio Berlusconi: dai finti poster di Forza Italia fatti circolare in rete durante la campagna per le elezioni politiche del 2001 ai tanti manifesti-palinsesto del leader di Forza Italia (disseminati un po’ ovunque negli anni) ritoccati, integrati o riscritti a fini di goliardica presa in giro o di vera e propria contestazione politica. Anche in questo caso l’arma si è ritorta alla fine contro i suoi utilizzatori; il premier sembra ormai aver fatto propria la posizione di privilegio di un potente e inossidabile marchio in grado di acquistare forza e notorietà anche dalle critiche che gli rivolgono nemici e avversari politici; il sorriso, poi, è quello di una icona di consumo: come l’omino della Michelin o l’ippopotamo (azzurro!) della Lines.

È vero: «la pubblicità non uccide» (Abruzzese 1988, p. 34). Il pericolo non è il potere di una comunicazione pubblicitaria rivolta a consumatori disarmati e passivi (oggi, generalmente, non più tali) ma quello della pubblicità di un potere che reclamizza se stesso. Non ha bisogno di vendere alcunché (aspira, semmai, ad acquistare ancora); l’unica cosa che sa vendere, e ci riesce assai bene, è il valore di un’immagine che quando pare sbiadirsi invoca nuove campagne, si incarna in nuovi spot, ribadisce i propri valori di marca. Di questo passo, a guidare la rivoluzione delle coscienze, potrebbero essere un giorno un’Annamaria Testa o un Oliviero Toscani a forza di spot interpretati dai politici, anche di sinistra. Rutelli potrebbe imitare Nino Castelnuovo che saltava la staccionata per l’olio Cuore, Bertinotti intonare un vecchio slogan canzonettistico dei cornetti Algida (“Cantare, gridare, sentirsi tutti uguali”), Fassino rifare il verso a Mimmo Craig: in uno spot dell’olio Sasso, risvegliandosi da un incubo in cui appariva goffo e sovrappeso, gridava di gioia: “La pancia non c’è più”.

Se tutti i discorsi, come sostiene Gianfranco Marrone, sono oggi, in un certo senso, discorsi di marca, il brand è già subentrato praticamente a Dio:

 

la marca si pone come entità divina poiché rivendica, e di fatto attua, una sua capacità fondatrice sui corpi umani e sociali. Più che marchio, essa si mette in gioco grazie all’atto del marchiare, dell’imprimere segni più o meno indelebili sulla pelle e nella carne. Diviene così un soggetto marchiante che esibisce corpi marc(hi)ati, di fatto costruendone l’identità individuale e la valenza sociale. Agendo sul corpo e forgiandone le fattezze, non solo la marca rivendica una sua posizione di supremazia e di dominio su di essi, ma, ben più profondamente, finisce per porsi come entità artefice, perfetto sostituto di un Dio creatore del cielo e della terra, delle cose materiali ma anche di quelle immateriali (Marrone 2007, p. 336).

 

Soggetto meta-enunciatore che “riusa” valori e discorsi altrui e agisce in divenire (il marchiare), più che sostanziarsi in essere (il marchio), la marca interviene sui corpi e li plasma. Se è un Dio, è una divinità tribale, provvisoria e cangiante, che surroga la carica detonante delle tre grandi religioni monoteiste e dei loro simulacri. Le disinnescherà, con le sue tante identità, relazioni e interfacce? Ridurrà a icone pubblicitarie Dio, Cristo e Maometto, come ha sfacciatamente fatto con il mahatma Gandhi? E un mondo che arrivasse a ridursi così, che mondo sarebbe?

 

           

 

Bibliografia

 

Abruzzese A. (1988), Metafore della pubblicità, Genova, Costa & Nolan.

Arcangeli M. (2005), Lingua e società nell’era globale, Roma, Meltemi.

Bauman Z. (2003), Intervista sull’identità, a cura di B. Vecchi, Roma-Bari, Laterza.

Bellenger D. N., Robertson D. H., Greenberg B. A. (1977), Shopping Center Patronage Motives, “Journal of Retailing”, LIII /2 , pp. 29-38.

Bruno M. W. (1996), Promocrazia. Tecniche pubblicitarie della comunicazione da Lenin a Berlusconi, Genova, Costa & Nolan.

Calefato P. (2003), Lusso, Roma, Meltemi.

Codeluppi V. (2005), Manuale di Sociologia dei consumi, Roma, Carocci.

Codeluppi V. (2007), La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Torino, Bollati Boringhieri.

Folena G. (1967), Analisi linguistica di contesti pubblicitari: ‘Metti un tigre nel motore’, in M. Baldini (a cura di), Le fantaparole. Il linguaggio della pubblicità, Roma, Armando, 1987, pp. 143-151.

Ghelli F. (2005), Letteratura e pubblicità, Carocci, Roma.

Marrone G. (2007), Il discorso di marca. Modelli semiotici per il branding, Roma-Bari, Laterza.

Melchiorri A. (2002), La dimensione patemica negli spot, in I. Pezzini (a cura di), Trailer, spot, clip, siti, banner. Le forme brevi della comunicazione audiovisiva, Roma, Meltemi, pp. 111-145.

Ritzer G. (2000), La religione dei consumi. Cattedrali, pellegrinaggi e riti dell’iperconsumismo, Bologna, il Mulino [ediz. orig.: 1999].

Serra A. (2006), L’uso dell’inglese nella pubblicità italiana, Aracne, Roma.

Testa A. (20042), La pubblicità, il Mulino, Bologna [prima ediz.: 2003].

Vigneron F., Johnson L. W. (1999), A Review and a Conceptual Framework of Prestige-seeking Consumer Behavior, “ Academy of Marketing Science Review ”, XCIC/1, pp. 45-66.

 

* Massimo Arcangeli è ordinario di Linguistica italiana presso la Facoltà di Lingue e Letterature straniere dell’Università di Cagliari, che attualmente presiede. Linguista, sociologo della comunicazione, critico letterario e scrittore, è componente del collegio di dottorato in Linguistica storica e storia linguistica italiana dell’Università “ La Sapienza ” di Roma; collabora con la radio e la televisione pubblica (e con l’emittente SAT2000, come titolare di una rubrica di lingua) e con diversi siti culturali e giornalistici; scrive, anche da opinionista ed editorialista, su varie testate quotidiane e periodiche (“ La Stampa ”, “Il Manifesto”, “L’Unità”, “Liberazione”, “L’Unione Sarda”, “Terzo Occhio”, “L’Indice dei Libri”, etc.); è consulente scientifico per la Società Dante Alighieri, garante per l’Italianistica nella Repubblica Slovacca, referee per i progetti strategici d’ateneo dell’Università di Bologna. Il suo ultimo libro, Il linguaggio della pubblicità (2008), è uscito presso Carocci; di imminente pubblicazione, per LiberiLibri, il pamphlet Il Medioevo alle porte.

 


© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata