“Schifosi delinquenti africani…”, “Riaprite i forni…”, “Culattoni di merda rifiuti umani cancra [sic] della civiltà. Spazzatura…”, “sto sporco negro della foto sembra assatanato…”, “Un marocchino di merda devo farlo fuori…”, “Sta nera pezzo di merda… ritorna sull’albero…”. Sono alcuni dei commenti che l’Associazione “Carta di Roma”, da anni impegnata nella promozione e diffusione di norme deontologiche tra i giornalisti e nella documentazione di buone e cattive pratiche nel mondo dell’informazione, in particolare in relazione al racconto delle migrazioni, chiese a Facebook di rimuovere nell’aprile del 2016, in quanto erano “apertamente razzisti e/o discriminatori” e “incita[va]no in modo palese all’odio e/o alla violenza”.
La “Carta di Roma” e Facebook
Era poco più di un esperimento, quello di “Carta di Roma”, basato su un centinaio di segnalazioni, per cercare di capire quanto Facebook avrebbe potuto (e voluto) fare per limitare la circolazione di razzismo esplicito e linguaggio d’odio sulla propria piattaforma. Ma provocò una reazione da parte del colosso informatico. Solo che, nove volte su dieci, la reazione consisteva in una risposta automatica, sempre la stessa: “Grazie per il tempo dedicato alla segnalazione di un contenuto che, a tuo avviso, potrebbe non rispettare i nostri Standard della comunità. Segnalazioni come la tua rappresentano un contributo importante al fine di rendere Facebook un ambiente sicuro e accogliente. Abbiamo esaminato il commento che hai segnalato perché incita all’odio e abbiamo determinato che rispetta i nostri Standard della comunità. Non esitare a contattarci se visualizzi altri contenuti che ti preoccupano. Vogliamo che Facebook rimanga un sito sicuro e accogliente per tutti”.
L’esito, per “Carta di Roma”, fu pertanto scoraggiante ma indicativo: per quanto chiaramente razzisti o incitanti all’odio, 91 commenti su 100 non sarebbero stati rimossi. Perché secondo Facebook rispettavano “gli standard della comunità”. E soprattutto perché tanto la normativa italiana quanto quella internazionale erano ancora piuttosto blande sul tema.
Un rumore di fondo costante
Pur avendo l’Italia ratificato la Convenzione di New York sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale approvando la legge 654 del 1957, il cui articolo 3 puniva con pene reclusive chi propagandava idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale, ovvero istigava a commettere o commetteva atti di violenza o di provocazione alla violenza, il dettato normativo in vigore nell’aprile 2016 era il risultato di una modifica avvenuta con la legge 85 del 2006 che, oltre a ridurre i limiti delle pene reclusive, sostituiva con “propaganda” la precedente espressione “diffonde in qualsiasi modo” e con “istiga” il precedente “incita”. Cosa questa che qualificava il reato solo con condotte di maggiore gravità rispetto al passato. E che lasciava quindi spazio a una zona grigia, sul piano dell’interpretazione: erano istigazioni o incitamenti all’odio, quelli espressi nei post segnalati? Se erano di privati cittadini, come potevano configurarsi come propaganda?
Sono passati due anni da quell’esperimento di “Carta di Roma”, e qualche passo in avanti Facebook sembra averlo fatto, anche perché costretto da norme europee più stringenti (come il Code of Conduct on countering illegal hate speech online), sottoscritto dalla piattaforma – insieme a Twitter, Youtube e Microsoft – già nello stesso 2016, con l’impegno di rimuovere la maggior parte dei messaggi illegali di incitamento all'odio entro ventiquattrore ore dalla loro pubblicazione.
Tuttavia, l’impressione è che le cose in generale non siano migliorate di molto. Anzi. Benché il dibattito sull’odio online si sia arricchito di contributi importanti tanto sul piano etico e legislativo quando su quello sociologico e tecnologico, a cominciare dai lavori di Giovanni Ziccardi (si veda il suo fondamentale L’odio online. Violenza verbale e ossessioni in rete, 2017), a giudicare da ciò che si legge e si vede online e offline (nei social, nei media tradizionali, nel discorso pubblico, nella prassi quotidiana), sembra che lo hate speech non solo non sia stato ridimensionato, ma sia invece entrato massicciamente un po’ in tutti gli ambiti e i registri linguistici, dando vita a una sorta di continuum discorsivo e a un rumore di fondo pervasivo e difficilmente ignorabile.
Prima e dopo l’avvento dei social media
Certo, è difficile dire se sia nato prima l’uovo o la gallina. Se cioè la potenza e l’impatto di Facebook (e di altri social media) abbiano contribuito – anche a causa di codici etici piuttosto blandi – alla formulazione di certo linguaggio, con le sue modalità e i suoi pattern linguistici, assecondandone la diffusione per ragioni di traffico commerciale. O se invece la galassia social abbia solo reso più visibile ciò che già esisteva fuori dalla rete.
Come segnala da anni la stessa “Carta di Roma”, campagne per creare allarmismo, paura, false rappresentazioni della realtà o semplicemente l’iterazione consapevole o distratta di stereotipi negativi riguardanti alcune categorie di persone si riscontrano da anni nei mezzi di informazione. E dobbiamo infatti a questi la percezione che gli immigrati siano per natura “clandestini”, o che ci invadano, o che portino malattie, o che certi crimini siano per definizione ‘etnici’. O ancora, che vi sia dell’illecito dietro gli interventi umanitari, malgrado i dati smentiscano queste affermazioni (si vedano i rapporti di “Carta di Roma”).
Soprattutto, come molta letteratura sul tema ci insegna (a cominciare dagli studi di Teun van Dijk, e da quella pietra miliare del 1990 che è ancora Understanding Everyday Racism: An Interdisciplinary Theory, di Philomena Essed), di linguaggio d’odio – razzista, misogino, omofobo – se ne produceva molto anche molto prima dell’avvento dei social media: a tutti i livelli, da parte di tutte le classi sociali, in ambiti tanto pubblici quanto privati.
Salienti e notiziabili proprio i messaggi più aggressivi
Probabilmente però – ha osservato lo storico Giovanni De Luna intervistato sul tema dal settimanale “Panorama” (#ti odio, 13 settembre 2018) – si trattava di una “dimensione collettiva del rancore”, una dimensione ideologica, condizionata più dalle pressioni e dalle rivendicazioni dei gruppi (sociali, politici, ‘etinici’, ecc.) che dall’iniziativa dei singoli. Anche quando sorgeva spontanea, dal basso – come nel caso dell’odio verso i terroni in molte città del Nord, ad esempio – il linguaggio d’odio era spesso mediato dall’azione e dalla presenza di soggetti plurali e collettivi (i partiti, i sindacati, la chiesa), che ne impedivano il travaso nel discorso pubblico o nei mezzi di comunicazione di massa.
Nell’ultimo decennio, invece, si è presa la scena un’aggressività verbale individuale e individualizzata: meno incanalabile (e incasellabile), più difficile da prevedere e da mediare, veloce, senza sovrastrutture. Ma capace di far rete, di aggregare online, attraverso nuove forme creative, pulsioni che offline spesso restavano sopite o non diventavano ossessive, di restare – scripta manent – e di spettacolarizzarsi (si vedano le osservazioni nel già citato L’odio online di Giovanni Ziccardi). Un’aggressività, inoltre, sempre meno ostacolata da stigma sociale. Anzi, proprio le istituzioni che avrebbero dovuto fungere da argini (o avere un ruolo di mediazione) si sono fatte spesso loro stesse cassa di risonanza della cosiddetta “pancia del paese”, e delle sue espressioni (verbali) più basse e retrive. Al punto che, invece di mettere in campo campagne efficaci di contrasto all’odio verbale (online e offline), hanno modificato la propria agenda in base a quello stesso brusio di fondo. Nel caso dei mezzi di comunicazione mainstream, facendo spesso diventare ancora più salienti e notiziabili proprio i messaggi e i comportamenti più aggressivi (tra la ferma e unanime condanna dell’omicidio di Emmanuel Chidi Nnamdi a Fermo nel 2015 e i fatti di Macerata del 2017, raccontati con ondivago opportunismo, sembra esserci stata quasi una frattura deontologica). Nel caso dei partiti e dei rappresentanti delle istituzioni – pur non nuovi agli insulti e al dileggio – adattandosi a quel gentese che affondava le radici negli anni Ottanta del Novecento, ma che doveva attendere la rivoluzione digitale per diventare codice di massa e linguaggio politico tout court: come non ricordare che il maggior partito italiano è nato da un vaffanculo capace di unire, con inaspettata virulenza, virtuale e reale?
Assuefazione all’insulto e diffusione della violenza
Questa trasversalità, questa rottura degli argini tra individuale e collettivo, pubblico e privato, registri bassi e i registri medi della comunicazione, ha creato una liberazione prima (“Vaffanculo!”), un’abitudine poi, e infine un’assufazione sia nel produrre razzismo linguistico, sia nel diffonderlo, nell’ascoltarlo, nel leggerlo. E anche se sarebbe azzardato stabilire un rapporto di causa-effetto tra la fragile “egosfera” favorita dai social – le cui implicazioni sul piano cognitivo e psicologico sono state studiate da Evgeny Morozov – e l’esplosione di rigurgiti verbali (tanto online quanto offline), e se sarebbe ingenuo pensare che la proliferazione del linguaggio d’odio non sia stata anche – strategicamente – eterodiretta da alcune forze politiche o dai professionisti della calunnia in rete – viene ormai presentato come un (preoccupante) dato reale l’aumento indiscriminato degli episodi di razzismo, anche ad opera di singoli individui o di gruppi non organizzati, come ben documentato dall’Associazione Lunaria, che quotidianamente aggiorna il database online di “Cronache di ordinario razzismo”, e che dall’inizio dell’anno ha già contato alcune centinaia di aggressioni razziste nella Penisola.
Quasi quotidianamente – apprendiamo dal sito di “Cronache” – si viene a sapere di insulti e aggressioni (non solo verbali), che avvengono alla luce del giorno, senza motivi apparenti, in un clima di costante intimidazione per le vittime, e di cescente impunità per i responsabili. È il caso dell’aggressione, avvenuta di recente a Lucca, ai danni di un ragazzo di genitori srilankesi da parte di un conducente di autobus (“Non ti puoi sedere, puzzi di morto”, “Ma vieni dal cimitero? Puzzi di morto! C’è un tanfo di morto! Che cosa ti sei messo?”). O dell’aggressione, avvenuta il 13 marzo a Perugia, che ha visto due ragazzi di origine cinese prima insultati (“I cinesi sono cani stupidi, in ginocchio altrimenti vi picchiamo”) e poi picchiati da un gruppo di coetanei ‘italiani’. O ancora, del recentissimo episodio di Sondrio nel quale gli aggressori dalle parole (“sporco negro”) sono passati velocemente ai fatti (la violenza fisica), mandando all’ospedale Mame Serigne Gueye, un panettiere senegalese di 28 anni.
Se non è una novità che dalle parole gli aggressori passino – sempre più spesso, purtroppo - ai fatti (ma il discrimine tra aggressione verbale e fisica è molto labile, sia sul piano pragmatico, sia sul piano giuridico e psicologico, come bene argomenta Judith Butler nel suo Parole che provocano, interrogandosi sulla performatività dell’insulto razziale e del linguaggio d’odio), è però una novità che l’escalation sia così frequente, imponente, normalizzata.
La piramide dell’odio
Chi, come i membri della commissione parlamentare “Jo Cox” istituita da Laura Boldrini durante la precedente legislatura, ha studiato un po’ in profondità il fenomeno dello hate speech, d’altronde, parla non a caso di “piramide dell’odio” per collegare i vari livelli, e provare ad avere una visione complessiva del fenomeno. Secondo questa efficace metafora, la base della piramide sarebbe formata da un vasto (e solido) campionario di stereotipi e false rappresentazioni radicatisi nei secoli e quindi, in quanto capitale simbolico, facilmente riattivabili. Il livello successivo sarebbe invece quello della discriminazione (“lei qui non può stare”, “questa casa non gliela posso affittare”), che – una volta resa tangibile l’alterità – legittimerebbe la verbalizzazione del linguaggio d’odio quando non veri e propri crimini d’odio (la cima della piramide), che infatti e non a caso sono quasi sempre preceduti da epiteti ingiuriosi (“sporco negro, ora ti facciamo vedere noi…”).
Non che sia un fenomeno nuovo, questa osmosi tra linguaggio e comportamento razzista. Tuttavia, anche per la maggiore quantità di dati ora a disposizione, si può verificare quanto questo si sia espanso, e quanto possano esistere delle correlazioni tra l’aumento del linguaggio d’odio online e gli episodi di razzismo offline, come dimostrato dall’associazione “Vox Diritti”, che da alcuni anni registra metodicamente la temperatura dell’odio in rete, con la sua La mappa dell’intolleranza.
La tastiera come una clava
Tutta colpa dei social media, quindi? Certo che no. Ma, come sosteneva il sociologo statunitense McLuhan negli anni Sessanta, non bisogna ignorare che il mezzo è il messaggio. Prendiamo l’esempio di Twitter, al centro dell’analisi di “Vox Diritti”. Nel solo 2017, ben un italiano su tre ha (ri)twittato frasi d’odio contro i migranti, gli ebrei, i musulmani, gli omosessuali, i disabili, gli anziani e – si tratta del bersaglio numero uno – le donne. I dati della Mappa dell’intolleranza ci dicono inoltre che siamo ormai i primi in Europa per antisemitismo, secondi per intolleranza verso i musulmani (dietro l’Ungheria), e insuperabili nell’insolentire rom e migranti, con oltre 161.687 tweet che incitano di “dare al negro”).
Il problema non è soltanto la quantità degli odiatori seriali, che sembrano essere stabili numericamente rispetto al 2016 (ma più spesso organizzati, veri e propri “ultras di mestiere”, radicalizzati e attrezzati, come sostiene Barbara Lucini dell’Università Cattolica di Milano), ma anche e soprattutto la quantità dei tweet. Che, potendo essere ri-tweettati senza colpo ferire, possono essere rilanciati continuamente, da chiunque, senza censure o ostacoli.
È bene ripeterlo, a scanso di equivoci: Twitter (o gli altri social network) non sono l’origine del linguaggio d’odio. Il quale, come già detto, esiste da tempo e in modo stratificato (come testimoniano studi diacronici quali Parole contro. La rappresentazione del diverso in italiano e nei dialetti, 2004). L’origine dell’odio è sempre l’utente, che invece produce e diffonde con estrema facilità opinioni fortemente polarizzate, cariche di disprezzo e risentimento, impermeabili a qualsiasi tipo di confronto. Usando quindi la tastiera “come una clava” (il paragone è di Silvia Brena, co-fondatrice di “Vox Diritti”), senza preoccuparsi molto del suo funzionale analfabetismo linguistico e tecnologico, muovendosi prevalentemente in quelle “echo-chamber” che fanno rimbalzare quasi solo le opinioni di chi la pensa già come lui. Il tutto – sempre facendo l’esempio di Twitter – in una manciata di caratteri: in forma di slogan breve se non brevissimo, povero testualmente e – per la natura del mezzo – privo di qualsiasi argomentazione. Per definizione, tanto per fare un esempio, Twitter è il regno di quella che in retorica si chiama fallacia di non sequitur: la giustapposizione di due enunciati che non sono in rapporto di causa-effetto, ma semplicemente accostati. E quindi, erroneamente scambiati per le premesse di una conclusione.
Il tweet secondo il Ministro degli Interni
È, questa fallacia, una delle nuove frontiere dell’odio online. Più subdolo, meno esplicito, ma molto efficace. Ne è un campione il Ministro degli Interni (“Immigrati della Diciotti in sciopero della fame? Facciano come credono. In Italia vivono cinque milioni di persone in POVERTÀ assoluta (1,2 milioni di bambini) che lo sciopero della fame lo fanno tutti i giorni, nel silenzio di buonisti, giornalisti, e compagni vari. #primagliitaliani”, tweet del 24 agosto 2018), e non è certo un caso...
*Federico Faloppa, allievo di Gian Luigi Beccaria, ha conseguito un dottorato di ricerca presso l’Università di Londra, e ha insegnato nelle univesità di Londra, Birmingham e Granada. Dal 2008 lavora all’Università di Reading, dove è Associate Professor in Italian Studies e Linguistics. Da circa vent’anni si occupa di rappresentazione dell’alterità nella lingua, di razzismo linguistico e Hate Speech, di media e migrazioni, di analisi del discorso pubblico e politico, di inclusione linguistica. Tra le sue pubblicazioni, Lessico e alterità. La formulazione del diverso (Edizioni dell’Orso, 2000), Parole contro. La rappresentazione del diverso in italiano e nei dialetti (Garzanti, 2004), Razzisti a parole (per tacer dei fatti) (Laterza, 2011), Sbiancare un etiope. La pelle cangiante di un topos antico (Aracne, 2013), Contro il razzismo. Quattro ragionamenti (Einaudi, 2016, con Marco Aime, Guido Barbujani, Clelia Bartoli). Ha inoltre curato Non per il potere, un’antologia di scritti di Alexander Langer (Chiarelettere, 2012) e, insieme a Emma Bond e Guido Bonsaver, Destination Italy. Representing Migration in Contemporary Media and Narrative (Peter Lang, 2015). Nel 2019 pubblicherà con Bollati Boringhieri Brevi lezioni sul linguaggio. Oltre all’attività didattica e accademica, da circa vent’anni svolge attività di consulenza e formazione sui suoi temi di ricerca con associazioni e ONG, ed attualmente collabora con la Fondazione Alexander Langer di Bolzano, con l’Associazione “Carta di Roma”, e con Amnesty International.
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