La pubblicazione del rapporto INVALSI 2019, con dati allarmanti sulle competenze linguistiche e matematiche degli studenti italiani – tendenza negativa che peraltro si ripropone annualmente – e soprattutto con i risultati fallimentari del Sud, ha riacceso il dibattito sulla scuola, non solo tra gli addetti ai lavori, ma anche sulle prime pagine dei giornali, su cui sono intervenuti giornalisti, psicologi, sociologi, intellettuali di vario profilo. Questa generale rincorsa al commento dal sapore emergenziale, per lo più improntato a una laudatio temporis acti avversa all’innovazione dei metodi, a un memorialistico rimpianto per il rigore e la severità di un presunto passato assai più formativo e alla riproposta di rigidi schemi didattici frontali, ha addirittura trovato una caustica definizione in seno a un nutrito gruppo di insegnanti e pedagogisti stanchi di vedere analizzata la scuola da persone mai entrate in un’aula: vanverismo pedagogico.
Ventuno voci in ordine alfabetico
Dà invece la parola a studiosi del campo e docenti di ampia esperienza un agile volume, uscito proprio a ridosso dell’inizio dell’anno scolastico 2019/2020, per i tipi della fiorentina Effequ, nella collana Saggi POP: La scuola è politica. Abbecedario laico, popolare e democratico, a cura di Simone Giusti. Un piccolo thesaurus di 21 voci in ordine alfabetico, da Adulti a Zero, che tenta di condensare in parole chiave gli snodi fondamentali dei ragionamenti sulla scuola italiana. Chiude il libro un sintetico apparato che tradisce – caso mai la presentazione della bandella, l’introduzione di Giusti e il titolo stesso non fossero già abbastanza esplicativi ed eloquenti – i motivi ispiratori e gli orientamenti dall’intero volume: un paio di pagine bianche per la “voce mancante”, ovvero la “piccola sezione personale per aggiungere una tua voce all’abbecedario”, a sancire l’importanza del fatto che ogni adulto rifletta e si senta coinvolto dal tema; una lista di “dieci libri da leggere”, additati come “classici sulla scuola laica, popolare e democratica” e, infine, le brevi note biografiche dei quattro autori delle voci, Federico Batini, Giusi Marchetta, Vanessa Roghi e, appunto, Simone Giusti.
Competenze vs conoscenze?
Uno degli sforzi principali del libro è provare a smontare i luoghi comuni in cui spesso vengono ingabbiate le debolezze del sistema, in una costante “retorica del declino”: «che fine farà la lingua italiana? O anche, a scelta, non sanno più scrivere, non sanno più parlare, non sanno più le tabelline. A cui corrispondono gli analoghi: la scuola non boccia più, si è rotto l’ascensore sociale, ci vuole una punizione esemplare […] “è tutta colpa del sessantotto”, “di don Milani”, o, più di recente, “di De Mauro”» (p. 133 e p. 136, sotto la voce Qui pro quo redatta da Giusti). La polarizzazione delle posizioni, con il conseguente rischio della banalizzazione e della mancata integrazione delle possibilità risolutive, non ha giovato a una discussione costruttiva. Valga per tutti la diatriba ‘competenze vs conoscenze’: «la panacea di tutti i mali sarebbe, in genere, il ritorno a un tempo (mai precisato ma con i contorni sfumati dell’età dell’oro) che fu, a un ritorno dell’autorità simboleggiata anche fisicamente (per esempio dal predellino sotto la cattedra), al ripristino delle bocciature […], al sano nozionismo e all’indiscusso primato della lezione frontale» (pp. 39-40, Federico Batini, sotto la voce Competenze). Eppure tale contrapposizione, a ben vedere i documenti ufficiali, non ha ragione di esistere, dal momento che il D.M. 139 del 22 agosto 2007, Il Nuovo Obbligo d’Istruzione, ovvero il testo che recepisce l’input europeo al costrutto delle competenze, ne descrive sedici, articolate in quattro assi culturali, quello dei linguaggi e poi quello matematico, scientifico-tecnologico e storico-sociale, associandole esplicitamente a «conoscenze e abilità, come a dire che non si sviluppa una competenza se non mediante l’apprendimento attivo di conoscenze e la loro mobilizzazione» (p. 23, ibid.).
Italiano: uso giornaliero della lingua orale e scritta
Sempre Batini, ancora nell’ottica di decostruire posizioni aprioristiche e sterili contrapposizioni, spesso non supportate da adeguate indagini specialistiche, a fronte dell’evocazione di una didattica irrigidita, ricorda come «la letteratura scientifica da tempo ci indica che partecipazione e coinvolgimento incidono in maniera positiva sul benessere scolastico, sulla quantità e qualità degli apprendimenti e persino sul rendimento espresso in termini numerici, mentre il controllo sistematico non produce effetti positivi né sugli apprendimenti né sulla responsabilità futura» (p. 128, sotto la voce Partecipazione).
Fondamentale rilievo hanno ovviamente nel dibattito sulla scuola, e dunque anche nel volume, le due principali discipline scolastiche: l’italiano, affrontato in particolare nelle voci Lettura e Scrittura trattate da Giusi Marchetta, e la matematica, con i suoi Numeri, affidati all’analisi di Batini. La presunta povertà lessicale, la lettura stentata e la scrittura sgrammaticata, senza coerenza e coesione testuale, additate come gravi sintomi del decadimento della lingua italiana a partire dai banchi, dovrebbero stimolare ad abbandonare quella «ossessione per la grammatica che individuano Serianni e, molto prima, don Milani e i ragazzi della Scuola di Barbiana […], uno studio mnemonico o meccanico di regole che poco hanno a che vedere con la vivacità della nostra lingua e con la sua innata flessibilità» (pp. 149-150). La proposta di Marchetta è di adottare strategie didattiche che mettano al centro una pratica possibilmente giornaliera orale e scritta della lingua: far convivere lettura e scrittura in rielaborazioni ludiche o narrative o ancora nei cosiddetti compiti di realtà: insomma, fare della lingua quella che essa è realmente, uno strumento vitale e vivo di comprensione del mondo.
Matematica: da materia oscura a esperienza
Se l’italiano arranca, la matematica sembra addirittura ormai insanabilmente relegata al ruolo di materia oscura e incomprensibile, messa da parte con una sorta di vera e propria ‘rinuncia selettiva’ preventiva da parte degli studenti. Con esiti disastrosi per la futura cittadinanza: «Ci stupiamo e scandalizziamo se qualcuno non conosce i Promessi sposi, il loro autore e la trama almeno nei suoi elementi portanti, ma non ci sembra strano che la maggior parte degli adulti non sia in grado di leggere la propria busta paga o un grafico presente in un giornale» (p. 115). Anche in questo caso, un approccio giocoso, in situazione, che colleghi formule e problemi all’esperienza, modalità didattiche attive e coinvolgenti potrebbero rendere i numeri non più un mostro da rifuggire «ma alleati nella vita di tutti i giorni» (p. 118).
Il voto e la valutazione
Altro tema essenziale è quello dei risultati, della valutazione, con i limiti del voto espresso in cifre che ancora oggi è chiamato a dar conto di un’esperienza complessa e ricchissima di sfumature come l’apprendimento. L’identificazione di un essere umano in formazione con un giudizio numerico e con la sua asettica durezza può indurlo al convincimento di non valere niente, addirittura marchiare e respingere definitivamente quelle fragilità che arrivano già tali in classe per motivi sociali o familiari, rendendo la scuola un ossimorico “ospedale che cura i sani e respinge i malati” (p. 183, Vanessa Roghi alla voce Zero). Si fa così sempre più ineludibile, la necessità di «tenere sempre a mente, come finalità di ogni percorso d’istruzione – ma, più in generale, di ogni servizio pubblico, – al di là dei risultati previsti dalla normativa, l’empowerment delle persone […] il processo di conquista della consapevolezza di sé, delle proprie potenzialità e del proprio agire» (Giusti, p. 57).
Perché sia una comunità educante
Il libro pone altre questioni non marginali, l’istruzione degli adulti, il bullismo, la cultura dell’inclusione e della personalizzazione dell’insegnamento, soprattutto in presenza di studenti con bisogni speciali, un orientamento non appiattito sulle leggi del marketing, una formazione efficace dei docenti che li faccia entrare in possesso di tecniche concrete e specifiche per diventare bravi “artigiani” dell’insegnamento. La visione fondante degli interventi, per altro piuttosto diversi per stile e temperamento, resta sempre netta e chiara, in questo senso ‘politica’, ascrivibile a un’interrotta scia di pensiero che va da don Milani, a Lodi, a Rodari – di cui proprio nel 2020 ricorre il centenario della nascita – fino a Tullio De Mauro: l’imprescindibilità, per la qualità della democrazia stessa e della dignità dei singoli, di una scuola non anacronistica ma capace di parlare con linguaggi innovativi e coinvolgenti all’oggi e al futuro dei ragazzi, non prescrittiva, ma aperta e problematica, non mortificante, ma vivificante. In definitiva, l’aspirazione a una scuola che non sia un elitario fomento di ambizioni individualistiche, ma davvero una comunità educante capace di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3 della Costituzione Italiana).
Immagine: Don Milani in aula con i suoi allievi