di Giuseppe Sergio*

L’uso pubblicitario dell’onomatopea risponde all’esigenza di connotare il messaggio in senso espressivo. Lo scarto estetico ottenuto mediante la riproduzione sonora di una caratteristica del bene – spesso il suo benefit, come avviene per il brivido di freschezza riecheggiato nell’ormai storico Brrr… Brancamenta – attira l’attenzione e aumenta la memorabilità del messaggio grazie all’innesco di una reazione psico-emotiva, per lo più inconscia, e all’effetto evocativo del suono. In questo senso non è un caso che nel loro Trattato dell’argomentazione Perelman e Olbrecths-Tyteca (1995: 184) collochino l’onomatopea fra le figure della presenza, quelle che cioè «hanno per effetto di rendere attuale alla coscienza l’oggetto del discorso». Più recentemente il neuromarketing, ovvero la disciplina che studia i processi psicologici che influenzano le decisioni d’acquisto, ha suggerito con forza l’opportunità di sfruttare a fini commerciali tutte le percezioni sensoriali, e non solo quelle legate alla vista (sensory branding). Più in particolare, dopo esperimenti sulle scansioni cerebrali, è emerso che suoni e immagini, se fruiti simultaneamente, «vengono percepiti in modo più favorevole (e lasciano un’impressione più forte)» in termini di attenzione, gradimento e memorabilità (Lindström 2009: 167).

Beni dal basso coinvolgimento

In pubblicità l’onomatopea, come più in generale le figure di suono (Arcangeli 2008: 58-61; Sergio 2016: 323-5), viene arruolata di preferenza per beni dal basso coinvolgimento, poiché economici e di uso quotidiano, e per i quali non è necessaria una vera persuasione all’acquisto: tipicamente, si tratta di snack, dolciumi, bevande e detersivi. Lo scopo sarebbe quello di influenzare il consumatore a livello subcosciente, cosicché, nel momento dell’acquisto, il suono vellichi impressioni, sensazioni e ricordi sedimentati, in modo da riattivare sinapsi legate al bene (si pensi ad esempio alla croccantezza evocata dalle patatine Crik Crok). Attraverso l’evocazione del suono, le onomatopee pubblicitarie sortiscono un effetto immediato, di tipo emotivo, saltando la concettualizzazione del bene e dunque i pro e i contro correlati al suo acquisto.

Il suono arriva prima della cosa

L’onomatopea funziona come una sorta di solleticazione epidermica. Se viene proferito che la Candeggina Ace smacchia a fondo senza ssstrrapp, l’onomatopea ci fa percepire la sgradevolezza dello strappo, già di per sé voce fonosimbolica, prima che ci rendiamo conto di cosa sia successo. Il suono arriva prima della cosa, come prima arriva o dovrebbe arrivare la freschezza di BrrrBrancamenta o di Activia Fresh brrrifidus!, il frizzare di Frrrrrr... Ferrarelle, il ronzio del motorino di un elettrodomestico GiRRRmi o il rombo della moto di Valentino Rossi: “- Valentino, come fa la tua moto?” “- Wwwwwhhoooooommmmmmm!” (Peroni Nastro Azzurro). Portano a pregustare il contenuto, il pop che, nell’atto di venire aperti, fanno i tubi che contengono le patatine Pringles, la cui headline recita da anni Once you pop, you can’t stop!, lo “spop”, che imita l’apertura del brick contenente il vino Tavernello, e, sempre in spot di qualche anno fa, il frizzare di bevande gassate quando vengono stappate (Svita la voglia di ssssplügen; E allora dai, dai, dai, dai, dai... dai, sssstappa un Crodino!)

Interiezioni e versi animaleschi

La rappresentazione simbolica dei suoni può anche pertenere alle interiezioni, come avviene in headlines come Aaahh, Aperol, un nome che non si dimentica!; Turista fai-da-te? No Alpitour? Ahi ahi ahi ahi ahi... o, più recentemente, Il nuovo oh! (Opel Corsa). Mentre a questa stessa famiglia tipologica sono riconducibili l’effetto wow, espressione pubblicitaria piuttosto diffusa, e il nome di marca del würstel Wüao!, imitano il verso di animali, ad esempio, il sagace Chicchi… ricchi! (Riso Gallo) e il bambinesco le mucche fanno muu, ma una fa muu muu (budino Muu Muu Cameo, jingle).

Futuristico plin plin

Fra le onomatopee che è impossibile tacere c’è poi la famosa plin plin, promessa pubblicitaria dell’acqua Rocchetta che fa riaffiorare alla mente precedenti paroliberisti. Peraltro già alla fine degli anni Sessanta Sabatini (1989: 132) notava che «I testi futuristi sembrano aver guidato i pubblicitari anche nella ricerca di particolari effetti fonici, come il prolungamento e rafforzamento di vocali e consonanti a fini propriamente espressionistici: l’idea di scrivere tallmmmone, Tintal lllavabile, Servoripresaaaa, sofffffice ecc., risalirà alle pagine di F.T. Marinetti [in partic. a quelle di Zang tumb-tumb, 1914] costellate di gridaaaa, vallzer, pazieeeenza, fressssssco, CrRrREsta ecc.».

Suoni cooperativi

Mentre l’esemplificazione delle onomatopee primarie, imitative, può essere implementato con relativa facilità, più limitato appare il novero delle espressioni in cui il suono del referente coopera alla costruzione della parola, che così diventa più espressiva, come ad esempio accade nel “frizz” di Sfrizzola il velopendulo (caramelle Golia) e di Ferrarelle, un frizzo di piacere sincero. Generalizzata, in pubblicità, è invece la ricerca di eufonia e scorrevolezza e, quando il copywriter ci sa fare, l’evocazione fonica del nome del prodotto nell’headline: possono esserne esempi Fai merenda con Melinda; Ceres c’è! e Mitsubishi, mi stupisci o, con assonanze più discrete ma non per questo meno insinuanti, Alla Conad ci si torna; Latte sì, ma con Nesquik e Brioblu mi piaci tu, il cui ritmo sincopato mima il frizzare dell’acqua.

Nessun prodotto standing

L’onomatopea risulta piuttosto sfruttata nei nomi di marca e di prodotto, per i quali svolge una funzione suggestiva piuttosto che definitoria. Infatti, di conserva con un principio base della comunicazione, «Quando un nome afferma, in modo perentorio, le qualità di un suo prodotto, fa nascere, nella mente, delle resistenze. Se, al contrario, evoca in modo indiretto queste qualità, le resistenze risulteranno ridotte» (Botton et al. 1996: 113). Come accennavamo, la suggestione onomatopeica viene sfruttata in settori merceologici piuttosto circostanziati. Modalità espressiva prearticolata, tipica dei bambini**,** risulta poco utilizzata per prodotti cosiddetti standing, perché in qualche modo li declasserebbe. Si incontra perciò tipicamente nelle denominazioni di prodotti per la pulizia della casa, come ad esempio Swiffer, che mima il passaggio del panno; Blish, Cif, Bref, Dash, che evocano l’azione dello sciacquare o dello sfregare; Smac, Spic&Span, che danno il senso di velocità e praticità ecc. (Sergio 2004).

Kit Kat vince senza fallo (in Giappone)

Funzionale a una sorta di arretramento infantilistico, l’onomatopea risuona nei marchionimi di dolciumi (caramelle Tic Tac, Gnammy, Bubble Gnam, cereali Coco Pops ecc.) e più in particolare degli snack, come ad esempio avviene per le patatine Crik Crock, Frosties e Cipster, le arachidi Nic Nacs, i crackers Ritz e Tuc e le barrette Kit Kat; queste ultime hanno curiosamente grande successo nel Paese del Sol Levante, poiché, come ricorda Martin Lindström (2009: 161-2), in giapponese kit kat riecheggia un’espressione beneaugurale che, traslitterata, si può rendere con Kitto-Katsu ‘vincere senza fallo’.

Piaceri regressivi

Potere dell’onomatopea, si direbbe, che certo arricchisce la gamma delle possibilità espressive a disposizione della pubblicità, ma che soprattutto corrobora l’importanza di fattori intangibili nell’attivazione dei processi motivazionali. L’appeal dell’onomatopea si lega cioè alle solite intenzioni lupesche della pubblicità, edulcorate, nello specifico, dalla piacevolezza derivante dal minore sforzo interpretativo richiesto (nell’onomatopea il significato tende infatti a coincidere con il significante) e dal sottile, inesorabile fascino della regressione a stadi infantili.

Riferimenti bibliografici

Arcangeli 2008 = Massimo A., Il linguaggio pubblicitario, Roma, Carocci.

Botton et al. 1996 = Marcel B., Jean-Jack Cegarra e Béatrice Ferrari, Il nome della marca. Creazione e strategia di naming, Milano, Guerini e Associati [ed. orig. 1990].

Lindström 2009 = Martin L., Neuromarketing. Attività cerebrale e comportamenti d’acquisto, Milano, Apogeo.

Perelman e Olbrecths-Tyteca 1995 = Chaïm P. e Lucie O.-T., Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Torino, Einaudi [ediz. orig. 1958].

Sabatini 1989 = Francesco S., Il messaggio pubblicitario da slogan a prosa-poesia, in Angela Chiantera (a cura di), Una lingua in vendita. L’italiano della pubblicità, La Nuova Italia Scientifica, Firenze, pp. 121-38 [l’articolo risale al 1968].

Sergio 2004 = Giuseppe S., Una puntata al “supermarcato”, in «Lingua Italiana d’Oggi», I, pp. 139-49.

Sergio 2016 = Id., La lingua della pubblicità, in Ilaria Bonomi e Silvia Morgana (a cura di), La lingua italiana e i mass media, Roma, Carocci, pp. 291-331; con un’appendice di testi on-line.

*Giuseppe Sergio insegna Linguistica italiana e Lingua italiana per stranieri all’Università degli Studi di Milano. Si è occupato di lingua letteraria novecentesca, anche nelle sue manifestazioni più popolari, di italiano contemporaneo e dei linguaggi della pubblicità, della radio e della moda.

Immagine: Un manifesto di una ditta olandese di caffè (1930 circa)

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