di Giuseppe Antonelli *
«La scrittura dev'essere scrittura e non algebra […] Che è questo ingombro di lineette, di puntini, di spazietti, di punti ammirativi doppi e tripli, che so io? Sto a vedere che torna alla moda la scrittura geroglifica, e i sentimenti e le idee non si vogliono più scrivere ma rappresentare, e non sapendo significare le cose colle parole le vorremo dipingere e significare con segni, come fanno i cinesi […] Che altro è questo se non ritornare l'arte dello scrivere all'infanzia?».
Così scriveva Leopardi in un suo pensiero dello Zibaldone,il 22 aprile 1821. Che cosa avrebbe detto o pensato oggi, messo di fronte alla punteggiatura enfatica e concitata della testualità giovanile? Quella, per intendersi, delle e-mail e degli sms, con i tipici accumuli di punti esclamativi (e interrogativi), con i puntini di sospensione sovrabbondanti (in serie che vanno spesso oltre i tre previsti dalla norma), con le maiuscole che cercano di rendere il tono di voce e le faccine che mimano le espressioni del viso?
Viene il dubbio che Leopardi sia stato ispirato profeta; o forse, invece, è lecito chiedersi se tutto quanto accade oggi nella punteggiatura, per usare un facile gioco di parole, non fosse già scritto. Anche di questo parla il libro di Francesca Serafini, che ha – tra i molti altri – il pregio di essere agile e divertente, caratterizzato da un tono brillante e antipedantesco.
Il maquillage del punto e virgola
Prendiamo ad esempio il punto e virgola, presente nelle scritture digitate per simulare un ammiccante occhiolino (;-), ma in obiettivo declino come tradizionale segno d'interpunzione nella lingua scritta (non soltanto in Italia). In una scanzonata guida intitolata Undici punti per rimorchiare (11 Point Guide to Hooking Up),il commediografo americano Sam Greenspan ne sconsiglia l'uso nelle e-mail e nei social network, perché – sostiene – «dà l'idea che siate di quelle che si truccano prima di andare in palestra».
Segno misto e dunque ibrido per natura («i due segni duramente affrontati, immoti, gli occhi negli occhi, come due pistoleri western», scriveva Manganelli), il punto e virgola risente anche da noi del crescente discredito internazionale. Non sarà un caso che nel T9 di molti telefonini si trovi solo in coda a una lunga serie di altri segni, tra cui anche il trattino alto e basso, le parentesi, la chiocciola, lo slash …
Tuttavia, se davvero si vuole parlare di un’imminente «morte del punto e virgola», bisogna tener presente che l’agonia sarebbe cominciata un po’ di tempo fa. «Siamo costretti a rivelare che il punto e virgola ha dei nemici. In questo mondo non c’è pace per nessuno. E quei nemici sono feroci a tal segno che vorrebbero morto e sepolto il povero punto e virgola», scriveva allarmato – in un suo saggio sulla punteggiatura manzoniana – il professorPiero Zama. Il riferimento era probabilmente alla provocazione fatta da Leo Longanesi in un articolo di qualche anno prima: «altro ci rimarrà della prosa di frammento, ma il punto e virgola ne è la parte ben morta. Salutiamolo con molto rispetto ma senza troppo rimpianto». Correva l’anno 1939.
L’eversione dell’estremismo interpuntorio
Dopo oltre settant’anni, è legittimo chiedersi quale successo possa avere un raziocinante segno intermedio in un’epoca dominata dall’estremismo interpuntorio e dalla punteggiatura espressiva. Il primo atteggiamento, come spiega Bice Garavelli Mortara nel suo Prontuario di punteggiatura (Laterza),deriva dalla concezione ingenua della punteggiatura che viene tramandata ancora oggi dall’insegnamento scolastico. Quella per cui l’interpunzione servirebbe a riprodurre le pause del parlato e non – come invece è – a segnalare i legami tra le varie parti di un testo.
Ecco dunque che il sistema viene scarnificato: virgole per pause brevi, punti per pause lunghe; i segni intermedi giudicati superflui. Complice l'idea – anche questa falsa, anche questa perpetuata nella scuola – per cui la punteggiatura non avrebbe vere regole, ma sarebbe affidata più che altro al gusto (o appunto all’orecchio).
La tendenza è riscontrabile ben oltre i confini della scrittura privata, risultando largamente attestata anche in quella professionale (soprattutto in rete), in certa scrittura giornalistica e ultimamente anche nella prosa letteraria, specie quando si tratti di scrittori giovani. Nel suo La solitudine dei numeri di primi Paolo Giordano (classe 1982) usa solo virgole e punti fermi, oltre ai punti interrogativi e a rari puntini di sospensione.
Punto e basta?
Questa tendenza viene confermata dall'analisi di Elisa Tonani – nel saggio Lo stile in un punto, apparso nel volume a più mani Lessico, punteggiatura, testi–, secondo cui le due principali linee di evoluzione della punteggiatura nella narrativa italiana contemporanea sono «la tendenza all’espansione del punto fermo a scapito di altri segni» e «la tendenza all’espansione della virgola per così dire “debole” […] con funzione di connettivo passe-partout». Alla base di entrambe, il progressivo affermarsi di una sintassi semplificata e il parallelo sviluppo di una punteggiatura attenta ai «fattori di tipo espressivo, emotivo, ideologico», più che alle gerarchie e agli snodi logico-sintattici.
Ci avviamo, in letteratura e altrove, verso la dittatura del punto fermo? Come l’onnipresente tu, l'uso esclusivo del punto fermo obbliga a semplificare, finge di equilibrare i rapporti; accorcia le distanze e dà l’illusione della vicinanza. Il punto spezza il periodo e gli impedisce di piegarsi, arcuarsi, di acquisire la sinuosità che spetterebbe a un discorso non banale; annullando le gerarchie, toglie profondità e spessore: appiattisce.
*Giuseppe Antonelli insegna Linguistica italiana all'Università degli Studi di Cassino. Collabora all’«Indice dei libri del mese» e all’inserto domenicale del «Sole 24 ore». I suoi volumi più recenti sono L’italiano nella società della comunicazione (Il Mulino, 2007); Ma cosa vuoi che sia una canzone. Mezzo secolo di italiano cantato (Il Mulino, 2010) e, con Luca Serianni, Manuale di linguistica italiana (Bruno Mondadori, 2011).