Cellulare
Il cellulare è la contraddizione del nostro secolo, e Carl Brave ed Elodie lo sanno bene. Nel brano “Parli parli” i due raccontano la comunicazione tra due amanti che cercano un incontro a metà del filo del telefono, ma si accorgono che l’unico possibile per la coppia è accettare un monologo dei singoli senza fine (“E tu parli, parli e parli / alla cornetta in fretta”), come se le loro parole prendessero direzioni diverse, irraggiungibili. “Non fa’ la pesante, ti mando un bacio gigante / eravamo perfetti, ma c’è mancato il collante / ormai è tardi / e mo è tardi, tardi, tardi per ricominciare?”. Ve le immaginate anche voi le parole che si accavallano l’una sull’altra? Certo, per comunicare con qualcuno non basta far uscire dalla bocca frasi di senso compiuto. L’ascolto dell’altro è un atto di volontà, una conquista che costa fatica, e il dispositivo, nella storia di Carl ed Elodie, è uno strumento che sembra appagare a metà: “Maledetto ci divide / ma ci fa anche avvicinare / vicini non sappiamo stare”: i due confessano la loro incompatibilità caratteriali – “Hai bluffato di incazzarti a bestia / dai, ti prego, non fa’ la molesta / e lo sai bene che io sono testardo come il sole d’estate” – , ma non riescono a staccarsi del tutto – “Mi manchi come il pane, come il weekend / e non posso aspettare quindi ho bisogno di te” – : del resto, proprio la parola cellulare deriva da una trafila etimologica che comprende cellula, diminutivo di cella. L’amore via telefono è come un girone dell’inferno, una prigione che a volte è casa perché custodisce un’illusione di relazionalità.
🎤 Hai solo un’ultima moneta da infilare Poi mi lascerai da sola come una cretina Questo cellulare maledetto ci divide Ma ci fa anche avvicinare Vicini non sappiamo stare
Il cellulare è la contraddizione del nostro secolo, e Carl Brave ed Elodie lo sanno bene. Nel brano “Parli parli” i due raccontano la comunicazione tra due amanti che cercano un incontro a metà del filo del telefono, ma si accorgono che l’unico possibile per la coppia è accettare un monologo dei singoli senza fine (“E tu parli, parli e parli / alla cornetta in fretta”), come se le loro parole prendessero direzioni diverse, irraggiungibili. “Non fa’ la pesante, ti mando un bacio gigante / eravamo perfetti, ma c’è mancato il collante / ormai è tardi / e mo è tardi, tardi, tardi per ricominciare?”. Ve le immaginate anche voi le parole che si accavallano l’una sull’altra? Certo, per comunicare con qualcuno non basta far uscire dalla bocca frasi di senso compiuto. L’ascolto dell’altro è un atto di volontà, una conquista che costa fatica, e il dispositivo, nella storia di Carl ed Elodie, è uno strumento che sembra appagare a metà: “Maledetto ci divide / ma ci fa anche avvicinare / vicini non sappiamo stare”: i due confessano la loro incompatibilità caratteriali – “Hai bluffato di incazzarti a bestia / dai, ti prego, non fa’ la molesta / e lo sai bene che io sono testardo come il sole d’estate” – , ma non riescono a staccarsi del tutto – “Mi manchi come il pane, come il weekend / e non posso aspettare quindi ho bisogno di te” – : del resto, proprio la parola cellulare deriva da una trafila etimologica che comprende cellula, diminutivo di cella. L’amore via telefono è come un girone dell’inferno, una prigione che a volte è casa perché custodisce un’illusione di relazionalità.
Cartapesta
Da sempre, nella storia del linguaggio umano abbiamo avuto bisogno della parola per descrivere il dolore, quasi per esorcizzarlo. La radice di questa morsa che dentro di noi preme con forza per farci scomparire deriva infatti dall’indoeuropeo dal/del, che rimanda all’immagine del legno scolpito con l’ascia: la materia si affievolisce a poco a poco e alla fine della tortura si trasforma in cartapesta. “Anni che cerco le cose giuste / te lo assicuro come se fossi cartapesta / sgretolo in fumo, in mezzo a un puzzle e a disfarle tutte”. Il brano Altalene fotografa un momento di sconfitta e rimpianto, i due ingredienti che, mescolati come un collante, danno forma all’anima di Mara Sattei, un fantoccio macerato e senza vita. L’amore perduto pesa come un masso che fa su-e-giù su un’altalena. “Penso valesse di più / sì, banconote, pretese, promesse / che ormai sono in fumo / come altalene poi appese, distese / nel vuoto, io giù / e bruciamo su un posacenere”. Mara, con queste immagini, non descrive solamente la fragilità con cui deve fare i conti, ma la precarietà della massa aggrovigliata che sta in fondo al suo cuore, leggera e facilmente decomponibile, pronta a sparire come cenere nell’aria.
🎤 Ali chiuse, spalle al muro Anni che cerco le cose giuste Te lo assicuro come se fossi cartapesta Sgretolo in fumo, in mezzo a un puzzle e a disfarle tutte
Da sempre, nella storia del linguaggio umano abbiamo avuto bisogno della parola per descrivere il dolore, quasi per esorcizzarlo. La radice di questa morsa che dentro di noi preme con forza per farci scomparire deriva infatti dall’indoeuropeo dal/del, che rimanda all’immagine del legno scolpito con l’ascia: la materia si affievolisce a poco a poco e alla fine della tortura si trasforma in cartapesta. “Anni che cerco le cose giuste / te lo assicuro come se fossi cartapesta / sgretolo in fumo, in mezzo a un puzzle e a disfarle tutte”. Il brano Altalene fotografa un momento di sconfitta e rimpianto, i due ingredienti che, mescolati come un collante, danno forma all’anima di Mara Sattei, un fantoccio macerato e senza vita. L’amore perduto pesa come un masso che fa su-e-giù su un’altalena. “Penso valesse di più / sì, banconote, pretese, promesse / che ormai sono in fumo / come altalene poi appese, distese / nel vuoto, io giù / e bruciamo su un posacenere”. Mara, con queste immagini, non descrive solamente la fragilità con cui deve fare i conti, ma la precarietà della massa aggrovigliata che sta in fondo al suo cuore, leggera e facilmente decomponibile, pronta a sparire come cenere nell’aria.
Cattedrale
Per Umberto Eco una abbazia che brucia, come accade ne Il nome della rosa, è un simbolo “aperto” che racchiude in sé una moltitudine di significati, è la crisi di un paradigma di valori, forse il momento di trapasso verso un nuovo mondo. Nel brano di Gazzelle, però, il contesto (sempre simbolico) in cui avviene il rogo della chiesa principale della diocesi, la cattedrale, dal latino tardo cathedralis, letteralmente “della cattedra” del vescovo, è uno spazio intimo, cullato dalla notte, dalla “Panda manuale” e dai ricordi di un amore che brilla a tal punto da diventare fuoco vivissimo: “E non è colpa mia / se tutta questa luce, luce, luce / non ti illumina più dentro casa mia / e non è colpa tua / se tutti questi destri, / destri, destri / al muro non ci fanno ritornare lì / a quei momenti”. Anche se l’amore è finito, rimane la sua presenza, una luce che va a ritmo dei destri, come Gazzelle racconta nel ritornello della canzone. Ecco che il fuoco che avvolge l’immagine della cattedrale si carica di altri significati: lo spazio sacro che crolla definitivamente avvolto dalle fiamme è al tempo stesso l’amore che brucia nella notte e scompare senza dire altro: “All'improvviso sei volata via / lasciando indietro una nuvoletta / almeno meritavo una bugia, chissà / almeno l'ultima sigaretta”.
🎤 Te l’ho già detto una volta, mi ricordavi il mare le luci di Natale, gli schiaffi sul sedere e lo spazzolino uguale la Panda manuale bruciare in una notte come una cattedrale
Per Umberto Eco una abbazia che brucia, come accade ne Il nome della rosa, è un simbolo “aperto” che racchiude in sé una moltitudine di significati, è la crisi di un paradigma di valori, forse il momento di trapasso verso un nuovo mondo. Nel brano di Gazzelle, però, il contesto (sempre simbolico) in cui avviene il rogo della chiesa principale della diocesi, la cattedrale, dal latino tardo cathedralis, letteralmente “della cattedra” del vescovo, è uno spazio intimo, cullato dalla notte, dalla “Panda manuale” e dai ricordi di un amore che brilla a tal punto da diventare fuoco vivissimo: “E non è colpa mia / se tutta questa luce, luce, luce / non ti illumina più dentro casa mia / e non è colpa tua / se tutti questi destri, / destri, destri / al muro non ci fanno ritornare lì / a quei momenti”. Anche se l’amore è finito, rimane la sua presenza, una luce che va a ritmo dei destri, come Gazzelle racconta nel ritornello della canzone. Ecco che il fuoco che avvolge l’immagine della cattedrale si carica di altri significati: lo spazio sacro che crolla definitivamente avvolto dalle fiamme è al tempo stesso l’amore che brucia nella notte e scompare senza dire altro: “All'improvviso sei volata via / lasciando indietro una nuvoletta / almeno meritavo una bugia, chissà / almeno l'ultima sigaretta”.
Bonsai
Per Guè è molto facile riconoscere un rapper vero, gli basta guardarlo dritto negli occhi. Per questo nel ritornello di “Chico” il primo verso è dedicato all’atteggiamento di sfida, in pieno stile dissing, verso chi promuove una natura umana poco autentica (“[...] sei finto come le piste di neve a Dubai”), nello specifico nel settore musicale. “Fra', tu ti senti forte, ma io ti sento in forse / tu sei un attore, io un alligatore, Cayman Porsche / sputo su una generazione in posa / conosco i veri Tony, conosco i veri Sosa (Yeah)”. Non solo viene contestata da Guè la mancanza di talento del suo nemico, ma la sua appartenenza a una generazione di selfie e dirette Instagram, tutte pose insopportabili che avvalorano la tesi di Mr. Fini: i “very Tony” e i “veri Sosa” – i personaggi del film Scarface che qui simboleggiano i veri leader – saranno sempre in grado di smascherarti e di avvolgerti “di riso, ahahah, come un nigiri”, dove qui riso è una parola polisemica che indica nel primo significato l’azione di deridere, nel secondo il cereale usato per un particolare tipo di sushi. A un primo sguardo sembra che il suo interlocutore sia così artefatto da sembrare un bonsai, letteralmente “pianta coltivata in vassoio”, quasi Guè voglia sottolineare come sia una sua copia miniaturizzata, che ha riprodotto perfettamente la sua arte, il suo atteggiamento e le sue idee. Il bonsai infatti viene mantenuto nano per moltissimi anni, mediante una continua potatura e un’applicazione di fili metallici per modellare la forma dei rami. In sostanza Guè sta dicendo all’aspirante rapper che rimarrà per sempre un albero piccolo, perché così è la sua natura.
🎤 Okay, gli occhi, chico, non mentono mai (mai) E tu sei la mia piccola copia come un bonsai (okay) E anche se ti vedo in giro come un leader, tu lo sai (ehi, ehi) Che sei finto come le piste di neve a Dubai
Per Guè è molto facile riconoscere un rapper vero, gli basta guardarlo dritto negli occhi. Per questo nel ritornello di “Chico” il primo verso è dedicato all’atteggiamento di sfida, in pieno stile dissing, verso chi promuove una natura umana poco autentica (“[...] sei finto come le piste di neve a Dubai”), nello specifico nel settore musicale. “Fra', tu ti senti forte, ma io ti sento in forse / tu sei un attore, io un alligatore, Cayman Porsche / sputo su una generazione in posa / conosco i veri Tony, conosco i veri Sosa (Yeah)”. Non solo viene contestata da Guè la mancanza di talento del suo nemico, ma la sua appartenenza a una generazione di selfie e dirette Instagram, tutte pose insopportabili che avvalorano la tesi di Mr. Fini: i “very Tony” e i “veri Sosa” – i personaggi del film Scarface che qui simboleggiano i veri leader – saranno sempre in grado di smascherarti e di avvolgerti “di riso, ahahah, come un nigiri”, dove qui riso è una parola polisemica che indica nel primo significato l’azione di deridere, nel secondo il cereale usato per un particolare tipo di sushi. A un primo sguardo sembra che il suo interlocutore sia così artefatto da sembrare un bonsai, letteralmente “pianta coltivata in vassoio”, quasi Guè voglia sottolineare come sia una sua copia miniaturizzata, che ha riprodotto perfettamente la sua arte, il suo atteggiamento e le sue idee. Il bonsai infatti viene mantenuto nano per moltissimi anni, mediante una continua potatura e un’applicazione di fili metallici per modellare la forma dei rami. In sostanza Guè sta dicendo all’aspirante rapper che rimarrà per sempre un albero piccolo, perché così è la sua natura.
Slow-mo
Sarebbe bello governare il tempo a nostro piacimento. Per Shablo, Geolier e Sfera, accanto ai tasti di rewind, play, forward se ne aggiunge un altro, che avvia lo slow-motion (da slow, “lento”, e motion, “moto”) una tecnica usata perlopiù nella cinematografia e oggi presente come funzione sui social (da Instagram a TikTok) che consiste nella resa a rallentatore di una determinata scena, nel nostro caso dell’abbraccio con l’amata dopo ripetute incomprensioni: “Non mi stanco di dire che mi manchi / e quando ti penso la notte mi affogo se sto sognando / basta che non mi dici: basta / e che poi quando ti chiamo / non stacchi, rispondi e mi parli”. Il brano ripercorre la condizione di un Io lirico che non si dà pace: da un lato riconosce la distanza che intercorre tra lui e l’amata (“Che non ce la fai a stare senza di me, ma credo che senza di me stai meglio”), dall’altro non riesce a frenare nella sua memoria la scena a rallentatore del loro momento più dolce, forse anche risolutivo, l’abbraccio appunto. Ma è come se la visione a una velocità dimezzata gli mostrasse più dettagli, tra i quali la distanza incolmabile tra i due, il non riuscire a migliorare insieme: “[...] non ce la fai a stare senza di me, ma credo che senza di me stai meglio / forse io e te siamo fatti per stare lontani, non insieme”.
🎤 Pur ij nu juorn aggia murì, ma no mo' Già ra criatur 'e cos giust, nun ern giust Quann m'abbracc mett 'u tiemp a slow-mo ('u tiemp a slow-mo)
Sarebbe bello governare il tempo a nostro piacimento. Per Shablo, Geolier e Sfera, accanto ai tasti di rewind, play, forward se ne aggiunge un altro, che avvia lo slow-motion (da slow, “lento”, e motion, “moto”) una tecnica usata perlopiù nella cinematografia e oggi presente come funzione sui social (da Instagram a TikTok) che consiste nella resa a rallentatore di una determinata scena, nel nostro caso dell’abbraccio con l’amata dopo ripetute incomprensioni: “Non mi stanco di dire che mi manchi / e quando ti penso la notte mi affogo se sto sognando / basta che non mi dici: basta / e che poi quando ti chiamo / non stacchi, rispondi e mi parli”. Il brano ripercorre la condizione di un Io lirico che non si dà pace: da un lato riconosce la distanza che intercorre tra lui e l’amata (“Che non ce la fai a stare senza di me, ma credo che senza di me stai meglio”), dall’altro non riesce a frenare nella sua memoria la scena a rallentatore del loro momento più dolce, forse anche risolutivo, l’abbraccio appunto. Ma è come se la visione a una velocità dimezzata gli mostrasse più dettagli, tra i quali la distanza incolmabile tra i due, il non riuscire a migliorare insieme: “[...] non ce la fai a stare senza di me, ma credo che senza di me stai meglio / forse io e te siamo fatti per stare lontani, non insieme”.
Vicino
Molti dei proverbi e dei modi di dire italiani che riguardano la figura del vicino, quasi sempre, non ritraggono una figura amorevole e rispettosa. Pensiamo solo al popolare “Dio ti salvi da un cattivo vicino, e da un principiante di violino”. Dal latino vicinus, derivato di vicus, ovvero “rione”, “borgo”, “villaggio”, il termine si riferisce a un individuo che si trova accanto, chi abita in un luogo vicino, nella stessa strada, nel medesimo gruppo di case (vicino di casa) o nella stessa classe (vicino di banco). Fedez si rivolge al suo o a uno ideale, con un atteggiamento di sfida che vuole sottolineare la sua tipica e scomoda abitudine di stare a origliare di nascosto le voci e i rumori di due innamorati nella loro stanza da letto. “E il vicino ci sente (a che pensi vicino, a che pensi) / Che non è male la musica”. Fedez si prende gioco del suo interlocutore e ribadisce il programma della sua serata a casa con l’amata, ben consapevole che il giorno dopo, sul pianerottolo, l’incontro di sguardi con il vicino potrebbe essere difficile da gestire.
🎤 E il vicino ci sente (a che pensi vicino, a che pensi) Che non è male la musica Ho preso pure il gelato Ma che palestra e palestra Vieni qui che giochiamo
Molti dei proverbi e dei modi di dire italiani che riguardano la figura del vicino, quasi sempre, non ritraggono una figura amorevole e rispettosa. Pensiamo solo al popolare “Dio ti salvi da un cattivo vicino, e da un principiante di violino”. Dal latino vicinus, derivato di vicus, ovvero “rione”, “borgo”, “villaggio”, il termine si riferisce a un individuo che si trova accanto, chi abita in un luogo vicino, nella stessa strada, nel medesimo gruppo di case (vicino di casa) o nella stessa classe (vicino di banco). Fedez si rivolge al suo o a uno ideale, con un atteggiamento di sfida che vuole sottolineare la sua tipica e scomoda abitudine di stare a origliare di nascosto le voci e i rumori di due innamorati nella loro stanza da letto. “E il vicino ci sente (a che pensi vicino, a che pensi) / Che non è male la musica”. Fedez si prende gioco del suo interlocutore e ribadisce il programma della sua serata a casa con l’amata, ben consapevole che il giorno dopo, sul pianerottolo, l’incontro di sguardi con il vicino potrebbe essere difficile da gestire.
Meta
La meta è un punto d'arrivo, è l'obiettivo raggiunto con ostinazione e fatica, è saper ridere a squarciagola quando si cade e ci si rialza, è qualcosa che si deve giurare a sé stessi e agli altri di far accadere per poter essere raggiunta. “Io la vita la prendo com’è / questo viaggio che parte da se / che non chiede il permesso mai a me / io la vita la prendo com’è”: nel viaggio che ognuno fa con sé, come Ultimo sembra suggerire nel brano 22 settembre, la meta è al tempo stesso un nuovo viaggio da intraprendere, un nuovo giro di pista. Proprio come ci racconta la storia etimologica del termine, che un tempo non era un concetto astratto bensì una parte del circo romano. La meta indicava infatti le due estremità della spina centrale dell’arena ed era costituita da un elemento architettonico per lo più in forma di cippo conico o di obelisco, arricchito di sculture e ornamenti. Intorno alle due mete i carri in competizione nelle corse dovevano girare solo dopo aver percorso l’arena lungo un lato della spina per percorrerla in senso inverso sull’altro lato. “Puoi lasciare adesso le / vecchie convinzioni / ne costruiremo altre / con nuove mie parole”: Ultimo, mentre gira il suo carro, si accorge che per abbandonare il passato deve attraversarlo di nuovo, perché solo così può accogliere la sua rinascita.
🎤 Non scriverò la musica Ma vita della gente Io sento una missione E ti giuro che avrò meta Cantare in pieno inverno Per dar la primavera
La meta è un punto d'arrivo, è l'obiettivo raggiunto con ostinazione e fatica, è saper ridere a squarciagola quando si cade e ci si rialza, è qualcosa che si deve giurare a sé stessi e agli altri di far accadere per poter essere raggiunta. “Io la vita la prendo com’è / questo viaggio che parte da se / che non chiede il permesso mai a me / io la vita la prendo com’è”: nel viaggio che ognuno fa con sé, come Ultimo sembra suggerire nel brano 22 settembre, la meta è al tempo stesso un nuovo viaggio da intraprendere, un nuovo giro di pista. Proprio come ci racconta la storia etimologica del termine, che un tempo non era un concetto astratto bensì una parte del circo romano. La meta indicava infatti le due estremità della spina centrale dell’arena ed era costituita da un elemento architettonico per lo più in forma di cippo conico o di obelisco, arricchito di sculture e ornamenti. Intorno alle due mete i carri in competizione nelle corse dovevano girare solo dopo aver percorso l’arena lungo un lato della spina per percorrerla in senso inverso sull’altro lato. “Puoi lasciare adesso le / vecchie convinzioni / ne costruiremo altre / con nuove mie parole”: Ultimo, mentre gira il suo carro, si accorge che per abbandonare il passato deve attraversarlo di nuovo, perché solo così può accogliere la sua rinascita.
Pegni
Jake La Furia ripercorre la malavita condivisa con i compagni, tra droga (l’ero è un’abbreviazione di eroina; nero non è un aggettivo ma un sostantivo e si riferisce al “nero pakistano”, una tipologia di hashish dall’odore molto forte) e armi da fuoco, come il cannone che, nel testo, scivola dal primo livello di significato (la canna di fumo) a un secondo livello nel verso successivo, dove indica invece il pezzo d’artiglieria che Jake intende lasciare in custodia al banco dei pegni in cambio di un prestito temporaneo. Il termine pegno fa riferimento al diritto reale di garanzia mediante la consegna di un bene mobile e può significare anche l’oggetto stesso. L’espressione pagare il pegno è diventata di uso comune a tal punto da diventare un modo di dire: in alcuni giochi infantili o di società, il pegno viene depositato da chi sbaglia nell’esecuzione del gioco e che viene restituito dopo una penitenza. Nel brano, però, non si gioca affatto. La scelta di portare un oggetto di valore al banco dei pegni sembra essere all’ordine del giorno, come unica alternativa per sopravvivere alle leggi della strada: “Fratello, abbiamo fatto più male che bene (Seh) / E adesso al collo io ho collane e tu ai polsi catene (Uh) / Cresciuti all'ombra di quel blocco tra urla e sirene (Woop-woop) / La vita a volte è una burla e non sempre finisce bene”.
🎤 Frate questi anni ci hanno fatto segni come un fattone di ero Puzziamo di strada come un cannone di nero Dentro a un banco dei pegni ma con un cannone vero E vivrai come un principe oppure marcirai al cimitero
Jake La Furia ripercorre la malavita condivisa con i compagni, tra droga (l’ero è un’abbreviazione di eroina; nero non è un aggettivo ma un sostantivo e si riferisce al “nero pakistano”, una tipologia di hashish dall’odore molto forte) e armi da fuoco, come il cannone che, nel testo, scivola dal primo livello di significato (la canna di fumo) a un secondo livello nel verso successivo, dove indica invece il pezzo d’artiglieria che Jake intende lasciare in custodia al banco dei pegni in cambio di un prestito temporaneo. Il termine pegno fa riferimento al diritto reale di garanzia mediante la consegna di un bene mobile e può significare anche l’oggetto stesso. L’espressione pagare il pegno è diventata di uso comune a tal punto da diventare un modo di dire: in alcuni giochi infantili o di società, il pegno viene depositato da chi sbaglia nell’esecuzione del gioco e che viene restituito dopo una penitenza. Nel brano, però, non si gioca affatto. La scelta di portare un oggetto di valore al banco dei pegni sembra essere all’ordine del giorno, come unica alternativa per sopravvivere alle leggi della strada: “Fratello, abbiamo fatto più male che bene (Seh) / E adesso al collo io ho collane e tu ai polsi catene (Uh) / Cresciuti all'ombra di quel blocco tra urla e sirene (Woop-woop) / La vita a volte è una burla e non sempre finisce bene”.
Lontano
Lo scenario che si presenta di fronte a Il tre è il film che non ti aspettavi. Peccato che nel brano si tratti di vita vera, un mondo fatto di parole e poca umanità che nessuno riesce a cambiare. Sulla carta però può prendere vita una versione diversa, che Il tre disegna con i colori in cui crede, osservando come pittore da lontano. Il termine indica una distanza che può essere spaziale e temporale non ben definita, ma anche una ideale e astratta, ricercata ad esempio per proteggersi o proteggere qualcuno, come evidenziano alcune comuni locuzioni avverbiali e preposizionali (stare lontano da qualcuno; tenere qualcuno lontano dai pericoli). “Domani finisce il mondo / salgo sul tetto a guardare il tramonto così non mi prendono / non sai quanto ne ho bisogno“. Lontano per Il tre è una condizione esistenziale in cui recupera quota e speranza, un po’ come la farfalla di cui parla, che nel volo si allontana sempre di più dalla terra: “Una farfalla vive poco ma muore volando / penso a quanto può essere importante vivere sognando”. Lontano è un avverbio dai confini sfumati, ma una cosa che lo riguarda è precisa: è sempre il luogo in cui prende vita un sogno ad occhi aperti.
🎤 Tutti parlano ma pochi fanno Tutti parlano e soltanto pochi trovano il coraggio E giocano d'azzardo Resto a guardare da lontano In una mano il mondo e nello zaino una matita È solamente un diario Non ho cambiato il mio binario Il mondo dove sono nato Non m'è mai piaciuto e l'ho ridisegnato
Lo scenario che si presenta di fronte a Il tre è il film che non ti aspettavi. Peccato che nel brano si tratti di vita vera, un mondo fatto di parole e poca umanità che nessuno riesce a cambiare. Sulla carta però può prendere vita una versione diversa, che Il tre disegna con i colori in cui crede, osservando come pittore da lontano. Il termine indica una distanza che può essere spaziale e temporale non ben definita, ma anche una ideale e astratta, ricercata ad esempio per proteggersi o proteggere qualcuno, come evidenziano alcune comuni locuzioni avverbiali e preposizionali (stare lontano da qualcuno; tenere qualcuno lontano dai pericoli). “Domani finisce il mondo / salgo sul tetto a guardare il tramonto così non mi prendono / non sai quanto ne ho bisogno“. Lontano per Il tre è una condizione esistenziale in cui recupera quota e speranza, un po’ come la farfalla di cui parla, che nel volo si allontana sempre di più dalla terra: “Una farfalla vive poco ma muore volando / penso a quanto può essere importante vivere sognando”. Lontano è un avverbio dai confini sfumati, ma una cosa che lo riguarda è precisa: è sempre il luogo in cui prende vita un sogno ad occhi aperti.
Easy
È entrato con prepotenza nel nostro vocabolario quotidiano perché sta bene con tutto. Il termine easy, in inglese “facile”, “semplice”, viene utilizzato sia in riferimento a persone (una persona easy è tranquilla, senza pretese) sia a situazioni (una serata easy non prevede lo sballo). Tuttavia l’aggettivo si presta a nuove sfumature, come quel secondo easy che nel brano di Slait e Lauro potrebbe farci cadere in inganno: se il primo, “easy jet”, è associato alla famosa compagnia aerea a basso costo fondata nel 1995, il secondo non è un attributo di “man”, ma può significare un invito a stare tranquillo, a vivere la vita senza restrizioni, e allo stesso tempo una manifestazione molto schietta del suo stile di vita. “Fatti la foto e fai il post / cresco litigando Paul Gascoigne, tu cresci su Ask (aaah) / Il tuo cervello 3g 2giga / ne prendo altri 3g, suicida / vendo il lunedì, il martedì, il mercoledì, il giovedì, il venerdì / fu-fu-fuck you pay me”. Lauro vanta una vita senza regole né confini, ma quando ammette di comportarsi come Paul Gascoigne, un calciatore noto per i problemi legati a dipendenza da alcool, sorge un dubbio: siamo sicuri che la sua condizione easy sia anche priva di guai?
🎤 Volo in alto easy jet, easy man Detenuti "Prison Break", Jesus back Trasformo la droga in soldi, primo chef
È entrato con prepotenza nel nostro vocabolario quotidiano perché sta bene con tutto. Il termine easy, in inglese “facile”, “semplice”, viene utilizzato sia in riferimento a persone (una persona easy è tranquilla, senza pretese) sia a situazioni (una serata easy non prevede lo sballo). Tuttavia l’aggettivo si presta a nuove sfumature, come quel secondo easy che nel brano di Slait e Lauro potrebbe farci cadere in inganno: se il primo, “easy jet”, è associato alla famosa compagnia aerea a basso costo fondata nel 1995, il secondo non è un attributo di “man”, ma può significare un invito a stare tranquillo, a vivere la vita senza restrizioni, e allo stesso tempo una manifestazione molto schietta del suo stile di vita. “Fatti la foto e fai il post / cresco litigando Paul Gascoigne, tu cresci su Ask (aaah) / Il tuo cervello 3g 2giga / ne prendo altri 3g, suicida / vendo il lunedì, il martedì, il mercoledì, il giovedì, il venerdì / fu-fu-fuck you pay me”. Lauro vanta una vita senza regole né confini, ma quando ammette di comportarsi come Paul Gascoigne, un calciatore noto per i problemi legati a dipendenza da alcool, sorge un dubbio: siamo sicuri che la sua condizione easy sia anche priva di guai?