La lista, ideata con la supervisione scientifica e il sostegno della Fondazione per l'arte e la cultura Lauro Chiazzese, propone 10 romanzi da riscoprire e rileggere per conoscere il Novecento.
Per ogni romanzo troverete una breve analisi dell'opera. Se interessati, vi invitiamo ad approfondire il tema attraverso i contributi enciclopedici proposti.
Ulisse
Ulisse (Ulysses) è romanzo dello scrittore irlandese James Joyce, pubblicato per la prima volta nel 1922. Stilisticamente denso ed esilarante, è generalmente considerato un capolavoro ed è stato oggetto di numerosi volumi di commenti e analisi. Il romanzo è costruito come un parallelo moderno dell'Odissea di Omero. Tutta l'azione di Ulisse si svolge a Dublino e nei dintorni di Dublino in un solo giorno (16 giugno 1904). Tre sono i personaggi centrali: Stephen Dedalus (l'eroe del primo Ritratto dell'artista da giovane di Joyce), Leopold Bloom, un agente pubblicitario ebreo e sua moglie, Molly. Tutti sono destinati ad essere le controparti moderne di Telemaco, Ulisse e Penelope e gli eventi del romanzo sono plasmati sui principali eventi del viaggio di ritorno di Ulisse dopo la guerra di Troia.
l libro evoca una Dublino densamente realizzata, piena di dettagli, molti dei quali - presumibilmente deliberatamente - sono sbagliati o almeno discutibili. Ma tutto ciò costituisce solo uno sfondo per un'esplorazione del funzionamento interno della mente, che rifiuta di accettare la chiarezza e le certezze della filosofia classica.
Sebbene la forza principale di Ulisse risieda nella sua profonda rappresentazione del personaggio e nel suo umorismo, il libro è noto soprattutto per l'uso di una variante del monologo interiore nota come tecnica del flusso di coscienza. Joyce ha quindi cercato di replicare i modi in cui il pensiero si manifesta. Infatti, ha messo in atto un modo completamente nuovo di fare narrativa, svelando che le regole morali con cui potremmo cercare di governare le nostre vite sono costantemente in balia di incidenti e incontri casuali, così come i sentieri della mente. Che si tratti di una condizione specificamente irlandese o di una situazione più universale non è mai chiaro. Lo stesso Bloom è ebreo, ed è quindi un outsider anche - o forse soprattutto - nella città e nel paese che considera come casa.
La prima pubblicazione appare a puntate dal marzo 1918 sulla rivista statunitense "The Little Review", ma viene interrotta quando esce il tredicesimo capitolo: il lavoro fu condannato dalle autorità per essere pruriginoso e osceno. Fu pubblicato per la prima volta in forma di libro nel 1922 da Sylvia Beach, proprietaria della libreria di Parigi Shakespeare and Company. Da allora sono state pubblicate altre edizioni, ma gli studiosi non concordano sull'autenticità di nessuna di esse. Un'edizione pubblicata nel 1984 che avrebbe corretto circa 5.000 errori permanenti ha generato polemiche a causa dell'inclusione da parte dei suoi editori di passaggi non nel testo originale e perché avrebbe introdotto centinaia di nuovi errori. La maggior parte degli studiosi considera Ulisse come un capolavoro del Modernismo, mentre altri lo considerano il punto cardine del Postmodernismo.
🖋️ Quando un'anima nasce in questo paese le vengono gettate delle reti per impedire che fugga. Tu mi parli di religione, lingua e nazionalità: io cercherò di fuggire da quelle reti.
Ulisse (Ulysses) è romanzo dello scrittore irlandese James Joyce, pubblicato per la prima volta nel 1922. Stilisticamente denso ed esilarante, è generalmente considerato un capolavoro ed è stato oggetto di numerosi volumi di commenti e analisi. Il romanzo è costruito come un parallelo moderno dell'Odissea di Omero. Tutta l'azione di Ulisse si svolge a Dublino e nei dintorni di Dublino in un solo giorno (16 giugno 1904). Tre sono i personaggi centrali: Stephen Dedalus (l'eroe del primo Ritratto dell'artista da giovane di Joyce), Leopold Bloom, un agente pubblicitario ebreo e sua moglie, Molly. Tutti sono destinati ad essere le controparti moderne di Telemaco, Ulisse e Penelope e gli eventi del romanzo sono plasmati sui principali eventi del viaggio di ritorno di Ulisse dopo la guerra di Troia.
l libro evoca una Dublino densamente realizzata, piena di dettagli, molti dei quali - presumibilmente deliberatamente - sono sbagliati o almeno discutibili. Ma tutto ciò costituisce solo uno sfondo per un'esplorazione del funzionamento interno della mente, che rifiuta di accettare la chiarezza e le certezze della filosofia classica.
Sebbene la forza principale di Ulisse risieda nella sua profonda rappresentazione del personaggio e nel suo umorismo, il libro è noto soprattutto per l'uso di una variante del monologo interiore nota come tecnica del flusso di coscienza. Joyce ha quindi cercato di replicare i modi in cui il pensiero si manifesta. Infatti, ha messo in atto un modo completamente nuovo di fare narrativa, svelando che le regole morali con cui potremmo cercare di governare le nostre vite sono costantemente in balia di incidenti e incontri casuali, così come i sentieri della mente. Che si tratti di una condizione specificamente irlandese o di una situazione più universale non è mai chiaro. Lo stesso Bloom è ebreo, ed è quindi un outsider anche - o forse soprattutto - nella città e nel paese che considera come casa.
La prima pubblicazione appare a puntate dal marzo 1918 sulla rivista statunitense "The Little Review", ma viene interrotta quando esce il tredicesimo capitolo: il lavoro fu condannato dalle autorità per essere pruriginoso e osceno. Fu pubblicato per la prima volta in forma di libro nel 1922 da Sylvia Beach, proprietaria della libreria di Parigi Shakespeare and Company. Da allora sono state pubblicate altre edizioni, ma gli studiosi non concordano sull'autenticità di nessuna di esse. Un'edizione pubblicata nel 1984 che avrebbe corretto circa 5.000 errori permanenti ha generato polemiche a causa dell'inclusione da parte dei suoi editori di passaggi non nel testo originale e perché avrebbe introdotto centinaia di nuovi errori. La maggior parte degli studiosi considera Ulisse come un capolavoro del Modernismo, mentre altri lo considerano il punto cardine del Postmodernismo.
Gita al faro
Virginia Woolf pubblica To the Lighthouse nel 1927, l'opera è suddivisa in tre capitoli: The Window, Time passes e The Lighthouse. Tempo e spazio nelle tre sezioni occupano un posto di rilievo: mentre nel primo e nell'ultimo capitolo l'azione si svolge nell'arco temporale di ventiquattro ore, nel secondo capitolo, invece, viene coperto un arco pari a una decina d'anni. Allo stesso modo, lo spazio è organizzato secondo un evidente contrasto: nel primo capitolo si tratta di uno spazio chiuso, la casa dei Ramsay, dove in quella giornata verrà offerta una cena con amici della famiglia, mentre nel terzo capitolo la storia è ambientata in uno spazio aperto, ossia lungo il tratto di strada che conduce la barca dei Ramsay a fare la famosa gita al faro di cui si è parlato nel primo capitolo.
Infine, il secondo capitolo porta in sé uno spazio segnato dal tempo, si ha infatti un racconto di natura episodica dove si apprende della morte di due dei figli dei Ramsay (l'uno in guerra e l'altra per complicazioni post partum) e della morte della stessa Mrs Ramsay.
Ma quali sono, al di là delle categorie spazio-temporali, le dinamiche che guidano il flusso dell'opera? Essa è percorsa soprattutto da un caos di emozioni che incessantemente popolano le pagine, ma anche da un progressivo silenzio, nonché rallentamento, nelle azioni dei membri della famiglia Ramsay e dei loro amici: nel primo capitolo, in particolare, Mrs Ramsay si sofferma a investigare la personalità e l'essere di ogni membro della sua famiglia e dei suoi amici, alla ricerca di un senso, di una verità, di una sostanza di fondo.
L'opera ha come protagoniste indiscusse le emozioni, le percezioni e le sensazioni. Tutto questo tumulto di emozioni si concentrano in Mrs Ramsay, che va incontro, inevitabilmente, ad una ricchezza interiore, ma che finisce per rivelare la vacuità. A far da eco e a far continuare a vivere Mrs Ramsay, il suo ricordo e la sua personalità è la pittrice, Lily Briscoe, che, tramite il suo quadro, descrive l'opera della Woolf, come si legge nella terza parte e come riprende Nicola Bradbury nell'introduzione dell'opera «What is To the Lighthouse about? Life, death and Mrs Ramsay». Egli aggiunge a questi temi «the urgent chaos of personality».
🖋️ Eccolo – il suo quadro. Sì, con tutti i verdi e gli azzurri, le linee verticali e diagonali, i tentativi di raggiungere qualcosa. Lo avrebbero appeso in soffitta, pensò; sarebbe stato distrutto. Ma che importanza aveva? si chiese tornando a prendere il pennello.
Virginia Woolf pubblica To the Lighthouse nel 1927, l'opera è suddivisa in tre capitoli: The Window, Time passes e The Lighthouse. Tempo e spazio nelle tre sezioni occupano un posto di rilievo: mentre nel primo e nell'ultimo capitolo l'azione si svolge nell'arco temporale di ventiquattro ore, nel secondo capitolo, invece, viene coperto un arco pari a una decina d'anni. Allo stesso modo, lo spazio è organizzato secondo un evidente contrasto: nel primo capitolo si tratta di uno spazio chiuso, la casa dei Ramsay, dove in quella giornata verrà offerta una cena con amici della famiglia, mentre nel terzo capitolo la storia è ambientata in uno spazio aperto, ossia lungo il tratto di strada che conduce la barca dei Ramsay a fare la famosa gita al faro di cui si è parlato nel primo capitolo.
Infine, il secondo capitolo porta in sé uno spazio segnato dal tempo, si ha infatti un racconto di natura episodica dove si apprende della morte di due dei figli dei Ramsay (l'uno in guerra e l'altra per complicazioni post partum) e della morte della stessa Mrs Ramsay.
Ma quali sono, al di là delle categorie spazio-temporali, le dinamiche che guidano il flusso dell'opera? Essa è percorsa soprattutto da un caos di emozioni che incessantemente popolano le pagine, ma anche da un progressivo silenzio, nonché rallentamento, nelle azioni dei membri della famiglia Ramsay e dei loro amici: nel primo capitolo, in particolare, Mrs Ramsay si sofferma a investigare la personalità e l'essere di ogni membro della sua famiglia e dei suoi amici, alla ricerca di un senso, di una verità, di una sostanza di fondo.
L'opera ha come protagoniste indiscusse le emozioni, le percezioni e le sensazioni. Tutto questo tumulto di emozioni si concentrano in Mrs Ramsay, che va incontro, inevitabilmente, ad una ricchezza interiore, ma che finisce per rivelare la vacuità. A far da eco e a far continuare a vivere Mrs Ramsay, il suo ricordo e la sua personalità è la pittrice, Lily Briscoe, che, tramite il suo quadro, descrive l'opera della Woolf, come si legge nella terza parte e come riprende Nicola Bradbury nell'introduzione dell'opera «What is To the Lighthouse about? Life, death and Mrs Ramsay». Egli aggiunge a questi temi «the urgent chaos of personality».
Il giovane Holden
The Catcher in the Rye (Il giovane Holden) è un romanzo di J.D. Salinger pubblicato nel 1951. Il romanzo descrive due giorni nella vita del sedicenne Holden Caulfield dopo essere stato espulso dalla scuola elementare. Confuso e disilluso, Holden cerca la verità e si scaglia contro la "falsità" del mondo degli adulti. Il protagonista finisce per esaurirsi e diviene emotivamente instabile.
Holden vuole essere “colui che salva i bambini, afferrandoli un attimo prima che cadano nel burrone, mentre giocano in un campo di segale” (trad. the catcher in the rye), che può essere una metafora dell'ingresso nell'età adulta. Mentre Holden guarda Phoebe sulla giostra, impegnata in un comportamento infantile, è così sopraffatto dalla felicità che è, come dice lui, "dannatamente vicino a gridare". Portandola allo zoo, le permette di mantenere il suo stato infantile, diventando così un "acchiappasogni" di successo.
Anche il nome di Holden è significativo: Holden può essere tradotto come "resisti" e Caulfield può essere separato in caul e field. Il desiderio di Holden è quello di "aggrapparsi" alla copertura protettiva (il caul) che racchiude il campo dell'innocenza (lo stesso campo che desidera impedire ai bambini di andarsene). Holden vuole disperatamente rimanere vero e innocente in un mondo pieno di, come dice lui, "falsi". Salinger una volta ha ammesso in un'intervista che il romanzo era semi-autobiografico.
La famiglia Caulfield era quella che Salinger aveva già esplorato in una serie di storie che erano state pubblicate da diverse riviste. Holden è apparso in alcune di quelle storie, anche narrandone una, ma in esse non era così ricco come lo sarebbe in The Catcher in the Rye. Il romanzo, a differenza delle altre storie della famiglia Caulfield, ha avuto difficoltà a essere pubblicato. Inizialmente sollecitato da Harcourt, Brace and Company, il manoscritto è stato respinto dopo che il capo della divisione commerciale ha chiesto se Holden doveva essere pazzo. Fu allora che l'agente di Salinger, Dorothy Olding, si avvicinò a Little, Brown and Company, che pubblicò il romanzo nel 1951. Dopo che Little, Brown acquistò il manoscritto, Salinger lo mostrò al New Yorker, supponendo che la rivista, che aveva pubblicato diversi i suoi racconti, vorrebbe stampare estratti dal romanzo. Il New Yorker lo ha rifiutato, tuttavia, poiché i redattori hanno trovato i bambini di Caulfield troppo precoci per essere plausibili e lo stile di scrittura di Salinger esibizionistico.
All'inizio il giudizio della critica sul romanzo fu discorde. Molti critici rimasero colpiti da Holden come personaggio e, in particolare, dallp stile di narrazione di Salinger. Altri, invece, ritenevano che il romanzo fosse grossolano nella trama e nello stile.
Dopo aver pubblicato The Catcher in the Rye, Salinger si allontanò sempre più dalla vita sociale. Quando gli furono chiesti i diritti per adattarlo per Broadway o Hollywood, rifiutò categoricamente. Tuttavia, il romanzo raggiunse milioni di lettori, inclusi due particolarmente noti. Nel 1980 Mark David Chapman si identificò così completamente con Holden che si convinse che l'assassinio di John Lennon lo avrebbe trasformato nel protagonista del romanzo. The Catcher in the Rye era anche stato collegato al tentato assassinio del presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan nel 1981.
🖋️ Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com'è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non mi va proprio di parlarne.
The Catcher in the Rye (Il giovane Holden) è un romanzo di J.D. Salinger pubblicato nel 1951. Il romanzo descrive due giorni nella vita del sedicenne Holden Caulfield dopo essere stato espulso dalla scuola elementare. Confuso e disilluso, Holden cerca la verità e si scaglia contro la "falsità" del mondo degli adulti. Il protagonista finisce per esaurirsi e diviene emotivamente instabile.
Holden vuole essere “colui che salva i bambini, afferrandoli un attimo prima che cadano nel burrone, mentre giocano in un campo di segale” (trad. the catcher in the rye), che può essere una metafora dell'ingresso nell'età adulta. Mentre Holden guarda Phoebe sulla giostra, impegnata in un comportamento infantile, è così sopraffatto dalla felicità che è, come dice lui, "dannatamente vicino a gridare". Portandola allo zoo, le permette di mantenere il suo stato infantile, diventando così un "acchiappasogni" di successo.
Anche il nome di Holden è significativo: Holden può essere tradotto come "resisti" e Caulfield può essere separato in caul e field. Il desiderio di Holden è quello di "aggrapparsi" alla copertura protettiva (il caul) che racchiude il campo dell'innocenza (lo stesso campo che desidera impedire ai bambini di andarsene). Holden vuole disperatamente rimanere vero e innocente in un mondo pieno di, come dice lui, "falsi". Salinger una volta ha ammesso in un'intervista che il romanzo era semi-autobiografico.
La famiglia Caulfield era quella che Salinger aveva già esplorato in una serie di storie che erano state pubblicate da diverse riviste. Holden è apparso in alcune di quelle storie, anche narrandone una, ma in esse non era così ricco come lo sarebbe in The Catcher in the Rye. Il romanzo, a differenza delle altre storie della famiglia Caulfield, ha avuto difficoltà a essere pubblicato. Inizialmente sollecitato da Harcourt, Brace and Company, il manoscritto è stato respinto dopo che il capo della divisione commerciale ha chiesto se Holden doveva essere pazzo. Fu allora che l'agente di Salinger, Dorothy Olding, si avvicinò a Little, Brown and Company, che pubblicò il romanzo nel 1951. Dopo che Little, Brown acquistò il manoscritto, Salinger lo mostrò al New Yorker, supponendo che la rivista, che aveva pubblicato diversi i suoi racconti, vorrebbe stampare estratti dal romanzo. Il New Yorker lo ha rifiutato, tuttavia, poiché i redattori hanno trovato i bambini di Caulfield troppo precoci per essere plausibili e lo stile di scrittura di Salinger esibizionistico.
All'inizio il giudizio della critica sul romanzo fu discorde. Molti critici rimasero colpiti da Holden come personaggio e, in particolare, dallp stile di narrazione di Salinger. Altri, invece, ritenevano che il romanzo fosse grossolano nella trama e nello stile.
Dopo aver pubblicato The Catcher in the Rye, Salinger si allontanò sempre più dalla vita sociale. Quando gli furono chiesti i diritti per adattarlo per Broadway o Hollywood, rifiutò categoricamente. Tuttavia, il romanzo raggiunse milioni di lettori, inclusi due particolarmente noti. Nel 1980 Mark David Chapman si identificò così completamente con Holden che si convinse che l'assassinio di John Lennon lo avrebbe trasformato nel protagonista del romanzo. The Catcher in the Rye era anche stato collegato al tentato assassinio del presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan nel 1981.
Uno nessuno e centomila
Uno, nessuno e centomila, romando dell'autore Luigi Pirandello, è l'incredibile epilogo di un grande interprete della crisi epistemologica novecentesca, insieme a un Joyce, a un Proust, a uno Svevo. La prima puntata esce sulla «Fiera letteraria» nel 1925, ma la sua gestazione data a partire almeno dal 1909.
Il protagonista, Vitangelo Moscarda, abituato a vivere di rendita e sostanzialmente inetto, si rende improvvisamente conto della variabilità dei modi in cui è percepita la sua persona (in particolare il suo naso), e quindi di essere nel contempo «uno, nessuno e centomila». Ma ciò provoca una reazione molto più forte rispetto ad altri personaggi: Moscarda, infatti, rifiutando le regole del vivere comune e chiudendosi in un ospizio, ottiene finalmente di cancellarsi in quanto persona sclerotizzata, di uscire dalla ‘forma’ e di fondersi con la natura-madre attimo per attimo (quindi al di fuori della storia), e conclude: «muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori». Si tratta evidentemente di un’utopia di tipo volontaristico-irrazionalistico, affine a quella che negli stessi anni avrebbe portato Pirandello all’evoluzione verso il teatro del mito (ma componenti teosofiche e irrazionalistiche erano presenti sparsamente già in molti scritti pirandelliani giovanili).
🖋️ Io volevo esser solo in un modo affatto insolito, nuovo. Tutt'al contrario di quel che pensate voi: cioè senza me e appunto con un estraneo attorno.
Uno, nessuno e centomila, romando dell'autore Luigi Pirandello, è l'incredibile epilogo di un grande interprete della crisi epistemologica novecentesca, insieme a un Joyce, a un Proust, a uno Svevo. La prima puntata esce sulla «Fiera letteraria» nel 1925, ma la sua gestazione data a partire almeno dal 1909.
Il protagonista, Vitangelo Moscarda, abituato a vivere di rendita e sostanzialmente inetto, si rende improvvisamente conto della variabilità dei modi in cui è percepita la sua persona (in particolare il suo naso), e quindi di essere nel contempo «uno, nessuno e centomila». Ma ciò provoca una reazione molto più forte rispetto ad altri personaggi: Moscarda, infatti, rifiutando le regole del vivere comune e chiudendosi in un ospizio, ottiene finalmente di cancellarsi in quanto persona sclerotizzata, di uscire dalla ‘forma’ e di fondersi con la natura-madre attimo per attimo (quindi al di fuori della storia), e conclude: «muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori». Si tratta evidentemente di un’utopia di tipo volontaristico-irrazionalistico, affine a quella che negli stessi anni avrebbe portato Pirandello all’evoluzione verso il teatro del mito (ma componenti teosofiche e irrazionalistiche erano presenti sparsamente già in molti scritti pirandelliani giovanili).
La metamorfosi
Uno scarafaggio chiamato Gregor
Nella Metamorfosi di Kafka il principio su cui sono costruite molte fiabe, vale a dire la trasformazione del protagonista in un animale, operata da esseri del mondo magico per allontanare l’eroe da un pericolo, diventa l’assurda condizione con cui inizia il racconto: «Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto». Ma in Kafka il ritorno all’aspetto umano non avviene e nella storia, che sembra raccontare un incubo notturno, lo scarafaggio Gregor muore senza essere tornato uomo e viene miseramente e freddamente spazzato via con una scopa dalla domestica, proprio come un fastidioso insetto.
Se i racconti e i romanzi di Kafka descrivono esperienze di un’inquietante assurdità e assomigliano piuttosto a sconvolgenti allucinazioni, la scrittura è sempre lucida, straordinariamente precisa e realistica nei dettagli. Fatti inauditi vengono descritti come momenti della più normale quotidianità della quale comunque, accanto alle ossessioni, fanno parte anche scene e aspetti comici: le figure dei due furfanti che si accompagnano a Karl Rossmann, i due aiutanti dal «carattere ridicolo e puerile» nel Castello e perfino alcune scene del Processo che si svolgono nelle cupe soffitte del tribunale.
🖋️ «Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto»
Uno scarafaggio chiamato Gregor
Nella Metamorfosi di Kafka il principio su cui sono costruite molte fiabe, vale a dire la trasformazione del protagonista in un animale, operata da esseri del mondo magico per allontanare l’eroe da un pericolo, diventa l’assurda condizione con cui inizia il racconto: «Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto». Ma in Kafka il ritorno all’aspetto umano non avviene e nella storia, che sembra raccontare un incubo notturno, lo scarafaggio Gregor muore senza essere tornato uomo e viene miseramente e freddamente spazzato via con una scopa dalla domestica, proprio come un fastidioso insetto.
Se i racconti e i romanzi di Kafka descrivono esperienze di un’inquietante assurdità e assomigliano piuttosto a sconvolgenti allucinazioni, la scrittura è sempre lucida, straordinariamente precisa e realistica nei dettagli. Fatti inauditi vengono descritti come momenti della più normale quotidianità della quale comunque, accanto alle ossessioni, fanno parte anche scene e aspetti comici: le figure dei due furfanti che si accompagnano a Karl Rossmann, i due aiutanti dal «carattere ridicolo e puerile» nel Castello e perfino alcune scene del Processo che si svolgono nelle cupe soffitte del tribunale.
La montagna incantata
La montagna incantata è un romanzo di di Thomas Mann, originariamente pubblicato in tedesco con il titolo di Der Zauberberg nel 1924. È considerato un esempio imponente del bildungsroman, un romanzo che racconta gli anni di formazione del personaggio principale.
La montagna incantata narra la storia di Hans Castorp, un giovane ingegnere tedesco che va a trovare un cugino in un sanatorio per la tubercolosi sulle montagne di Davos, in Svizzera. Sebbene Castorp abbia intenzione di restare solo per poche settimane, scopre di avere i sintomi della malattia e rimane in quel luogo per sette anni fino allo scoppio della prima guerra mondiale.
Durante questo periodo abbandona la sua vita normale per vivere nell'inquietudine e nell'insofferenza verso il mondo. Parlando con altri pazienti, diventa gradualmente consapevole e assorbe le idee politiche, culturali e scientifiche predominanti dell'Europa del XX secolo. Quel luogo diventa il riflesso spirituale delle possibilità e dei pericoli del mondo reale. Il modo in cui Mann ha descritto i sentimenti di Castorp rispetto alla malattia lo ha reso modello per molti scrittori, tra i quali si ricorda Illness as Metaphor (1977) di Susan Sontag.
🖋️ Scrivere bene significa quasi pensare bene, e di qui ci vuole poco per arrivare ad agire bene.
La montagna incantata è un romanzo di di Thomas Mann, originariamente pubblicato in tedesco con il titolo di Der Zauberberg nel 1924. È considerato un esempio imponente del bildungsroman, un romanzo che racconta gli anni di formazione del personaggio principale.
La montagna incantata narra la storia di Hans Castorp, un giovane ingegnere tedesco che va a trovare un cugino in un sanatorio per la tubercolosi sulle montagne di Davos, in Svizzera. Sebbene Castorp abbia intenzione di restare solo per poche settimane, scopre di avere i sintomi della malattia e rimane in quel luogo per sette anni fino allo scoppio della prima guerra mondiale.
Durante questo periodo abbandona la sua vita normale per vivere nell'inquietudine e nell'insofferenza verso il mondo. Parlando con altri pazienti, diventa gradualmente consapevole e assorbe le idee politiche, culturali e scientifiche predominanti dell'Europa del XX secolo. Quel luogo diventa il riflesso spirituale delle possibilità e dei pericoli del mondo reale. Il modo in cui Mann ha descritto i sentimenti di Castorp rispetto alla malattia lo ha reso modello per molti scrittori, tra i quali si ricorda Illness as Metaphor (1977) di Susan Sontag.
La nausea
La nausea (La nausée). Romanzo filosofico (1938; trad. it., La nausea, 1948) di J.P. Sartre. Concepito inizialmente come un "penso sulla contingenza" e in una stesura intermedia intitolato Mélancholie, il romanzo, che apparve amputato di quaranta pagine, è il resoconto, in forma di diario, delle ultime settimane che l'intellettuale Antoine Roquentin trascorre nella città di Bouville (cioè Le Havre), dov'è impegnato in una ricerca storica, fino alla decisione di trasferirsi a Parigi, dove si dedicherà, forse, alla stesura di un romanzo. Ma il vero tema del libro è la "nausea" che fin dalle prime pagine assilla il protagonista, incapace di dare una qualunque giustificazione all'esistenza, che gli si rivela assurda e gratuita, e profondamente disgustato dalla convenzionalità del mondo borghese.
🖋️ Alle tre del pomeriggio è sempre troppo presto o troppo tardi per qualsiasi cosa tu voglia fare.
La nausea (La nausée). Romanzo filosofico (1938; trad. it., La nausea, 1948) di J.P. Sartre. Concepito inizialmente come un "penso sulla contingenza" e in una stesura intermedia intitolato Mélancholie, il romanzo, che apparve amputato di quaranta pagine, è il resoconto, in forma di diario, delle ultime settimane che l'intellettuale Antoine Roquentin trascorre nella città di Bouville (cioè Le Havre), dov'è impegnato in una ricerca storica, fino alla decisione di trasferirsi a Parigi, dove si dedicherà, forse, alla stesura di un romanzo. Ma il vero tema del libro è la "nausea" che fin dalle prime pagine assilla il protagonista, incapace di dare una qualunque giustificazione all'esistenza, che gli si rivela assurda e gratuita, e profondamente disgustato dalla convenzionalità del mondo borghese.
Canne al vento
Canne al vento (1913) è un romanzo della scrittrice italiana G. Deledda (1871-1936). Inizialmente pubblicato a puntate nel periodico quindicinale L’illustrazione italiana e poi in volume, fa parte della produzione della scrittrice ambientata in Sardegna.
Nella casa delle dame Pintor, discendenti da una nobile famiglia sarda ormai in rovina, il servo Efix tiene viva l’antica dignità a prezzo di grandi fatiche e di una devozione infinita alle padrone: Ruth ed Ester, ormai rassegnate in un malinconico limbo di memorie e di antiche tradizioni, e Noemi, ancora ricca di sangue giovane, ribelle e chiusa in una sdegnosa solitudine. Con l’improvviso ritorno del nipote Giacinto, scapestrato e dissoluto figlio di un’altra sorella, Lia, fuggita tanti anni prima sul continente per sottrarsi alla soffocante tutela paterna, nella vecchia casa irrompono ricordi, risentimenti, speranze, passioni dimenticate. E il rimorso per un’antica colpa torna a opprimere ancor più prepotente il fedele Efix, custode di un terribile segreto. Un senso religioso del peccato domina il romanzo della Deledda, pubblicato nel 1913, insieme alla tragica coscienza di un inesorabile destino, di cui i personaggi sono in balia come “canne al vento”. Nella sua prosa si consuma una fusione quasi carnale tra stati d’animo e paesaggio, tra gli uomini e l’aspra terra di Sardegna, un mondo ancestrale e primitivo che la scrittrice proietta in una dimensione mitica.
🖋️ «Adattarsi bisogna» disse Efix versandogli da bere. «Guarda tu l'acqua: perché dicono che è saggia? perché prende la forma del vaso ove la si versa.» «Anche il vino, mi pare!» «Anche il vino, sì! Solo che il vino qualche volta spumeggia e scappa; l'acqua no.» «Anche l'acqua, se è messa sul fuoco a bollire,» disse Natòlia.
Canne al vento (1913) è un romanzo della scrittrice italiana G. Deledda (1871-1936). Inizialmente pubblicato a puntate nel periodico quindicinale L’illustrazione italiana e poi in volume, fa parte della produzione della scrittrice ambientata in Sardegna.
Nella casa delle dame Pintor, discendenti da una nobile famiglia sarda ormai in rovina, il servo Efix tiene viva l’antica dignità a prezzo di grandi fatiche e di una devozione infinita alle padrone: Ruth ed Ester, ormai rassegnate in un malinconico limbo di memorie e di antiche tradizioni, e Noemi, ancora ricca di sangue giovane, ribelle e chiusa in una sdegnosa solitudine. Con l’improvviso ritorno del nipote Giacinto, scapestrato e dissoluto figlio di un’altra sorella, Lia, fuggita tanti anni prima sul continente per sottrarsi alla soffocante tutela paterna, nella vecchia casa irrompono ricordi, risentimenti, speranze, passioni dimenticate. E il rimorso per un’antica colpa torna a opprimere ancor più prepotente il fedele Efix, custode di un terribile segreto. Un senso religioso del peccato domina il romanzo della Deledda, pubblicato nel 1913, insieme alla tragica coscienza di un inesorabile destino, di cui i personaggi sono in balia come “canne al vento”. Nella sua prosa si consuma una fusione quasi carnale tra stati d’animo e paesaggio, tra gli uomini e l’aspra terra di Sardegna, un mondo ancestrale e primitivo che la scrittrice proietta in una dimensione mitica.
Alla ricerca del tempo perduto
L’insegnamento di Ruskin
Nel 1900 morì lo scrittore inglese John Ruskin, cultore di arti figurative e maestro di un pensiero che, pur collocando l’arte al vertice delle attività umane, invitava però a superare il pessimismo e l’irrazionalismo. Cominciò per Proust una stagione ruskiniana, tra i cui frutti restano le traduzioni del libro su una delle più belle cattedrali gotiche francesi, La Bibbia di Amiens (1904), e di Sesamo e i gigli (1906), elogio delle biblioteche pubbliche.
La morte del padre Adrien nel 1902 e, due anni dopo, quella della amatissima madre, Jeanne Weil, di famiglia ebrea, provocano in lui una crisi e una svolta. Da un taccuino del 1908 risulta che a quell’epoca aveva già scritto alcuni episodi del nuovo romanzo, Alla ricerca del tempo perduto, raccontato stavolta in prima persona, a differenza dell’incompiuto Jean Santeuil. Proust riscrive molte volte gli stessi episodi per ottenere un perfetto adeguamento della forma al pensiero, ma, più che a togliere, tende ad aggiungere nuovo materiale narrativo. Così, dalle due parti iniziali (Tempo perduto, Tempo ritrovato) si arriva poco a poco a sette libri, pubblicati tra il 1913 e il 1927: Dalla parte di Swann, All’ombra delle fanciulle in fiore, La parte dei Guermantes, Sodoma e Gomorra, La prigioniera, Albertine scomparsa, Il tempo ritrovato (gli ultimi tre postumi, essendo morto lo scrittore nel 1922).
La memoria e il tempo
«Per molto tempo sono andato a letto presto la sera»: inizia così il prologo del romanzo, incentrato sull’analisi del dormiveglia, regione di confine tra coscienza e inconscio. Al risveglio il Narratore stenta, nel buio totale, a collocarsi in questa o quella camera, finché la memoria si fissa su quella della casa di Combray, villaggio di provincia, dove la sua famiglia si recava un tempo a trascorrere le vacanze di Pasqua. Ma dell’infanzia in campagna ogni memoria è stata cancellata, tranne quella di un trauma doloroso: una sera, a causa della presenza a cena di un vicino di casa, la madre non sale a dare al bimbo il bacio della buonanotte. In un crescendo di ansia da abbandono, il fanciullo ha una crisi di nervi acuta.
Solo questo ricordo-incubo è sopravvissuto, fino al giorno in cui, molti anni dopo, inzuppando a Parigi un biscotto chiamato petite Madeleine in una tazza di tè, il Narratore viene colto da un’emozione straordinaria, per l’analogia tra quel sapore e qualcosa di identico provato in un istante dimenticato del passato. Concentrandosi, ricorda che, quand’era bambino, a Combray, una zia gli offriva lo stesso tipo di biscotto, bagnato in una infusione di tiglio. Un frammento di tempo perduto risorge così dall’oblio. Per associazione di idee, riaffiora anche il ricordo della vecchia casa col suo giardino, delle strade del villaggio, della antica chiesa, e della campagna circostante dove, coi familiari, il Narratore faceva ogni giorno lunghe passeggiate. Talvolta si dirigevano dalla parte di Méséglise, passando accanto alla villa di Swann, un raffinato esponente della borghesia ebraica. Altre volte, invece, andavano, lungo il fiume, verso il castello di Guermantes, abitato dai signori di quella zona, una famiglia aristocratica dall’illustre passato, giunta al vertice della mondanità parigina.
La stagione della maturità
Solo molto più tardi, il Narratore riuscirà a penetrare nell’universo meraviglioso (o supposto tale) di questa élite sociale, e ne resterà deluso. A Parigi, egli esplorerà dunque questi mondi (borghesia e aristocrazia), sperimentando le croci e le delizie dello snobismo, in un pellegrinaggio attraverso le sofferenze amorose, prima per Gilberte, la figlia di Swann, e poi per Albertine. Centinaia di personaggi, alcuni dei quali delineati con una eccezionale forza psicologica che li rende indimenticabili, si affollano attorno al lettore sempre più incantato.
Accompagnando il protagonista dalla prima infanzia fino alla vecchiaia, il racconto è punteggiato da vari incontri con la morte di persone care. Dopo la scomparsa di Albertine, il Narratore visita Venezia e Padova. La descrizione delle distruzioni materiali e morali provocate dal primo conflitto mondiale, sia a Parigi, sia a Combray, suscita impressioni profonde. Per i suoi gravi disturbi nervosi il Narratore si fa ricoverare in case di cura. È scoraggiato, si sente fallito. Ha perso la fiducia sia nella propria vocazione di scrittore, sia nel valore della letteratura. Ma, a questo punto, c’è una svolta insperata.
Il tempo ritrovato
Dopo la guerra, torna a Parigi e si reca a un ricevimento mondano. Nel cortile, fa qualche passo indietro perché c’è un’automobile in manovra. Poggia il piede su una pietra difettosa, per un attimo perde l’equilibrio. È assalito dalla stessa sensazione di felicità che gli aveva dato, tanti anni prima, il sapore della petite Madeleine. Stavolta è una visione di luce e di azzurro abbagliante. Stenta a riconoscerla, ma poi capisce: è Venezia. Nel Battistero di S. Marco, per meglio osservare un mosaico raffigurante il Battesimo di Cristo, era indietreggiato e aveva perso l’equilibrio allo stesso modo.
Stavolta il Narratore ha occasione di riflettere a lungo sul significato delle memorie involontarie, ed elabora un’estetica della dimensione profonda e interiore. Tutti gli apparenti valori della vita sono falsi miti. Storia, scienza e società sono illusioni. Non sarebbe del tutto assurdo sostenere che Proust ha scritto un romanzo di varie migliaia di pagine per dimostrare che tutto ciò di cui in genere parlano i romanzi (compreso il suo, tranne le 20 o 30 pagine in cui sono descritte alcune memorie involontarie) è privo di interesse. Ma non è esattamente così. In realtà la sua è un’estetica doppia, basata anche sulla necessità di estrarre dall’esperienza le leggi generali della psicologia e dei comportamenti sociali, e in tal modo anche il romanzo tradizionale ritrova una sua ragion d’essere.
🖋️ La vera vita, la vita finalmente messa a nudo e chiarita, di conseguenza la sola vita pienamente vissuta, è la letteratura.
L’insegnamento di Ruskin
Nel 1900 morì lo scrittore inglese John Ruskin, cultore di arti figurative e maestro di un pensiero che, pur collocando l’arte al vertice delle attività umane, invitava però a superare il pessimismo e l’irrazionalismo. Cominciò per Proust una stagione ruskiniana, tra i cui frutti restano le traduzioni del libro su una delle più belle cattedrali gotiche francesi, La Bibbia di Amiens (1904), e di Sesamo e i gigli (1906), elogio delle biblioteche pubbliche.
La morte del padre Adrien nel 1902 e, due anni dopo, quella della amatissima madre, Jeanne Weil, di famiglia ebrea, provocano in lui una crisi e una svolta. Da un taccuino del 1908 risulta che a quell’epoca aveva già scritto alcuni episodi del nuovo romanzo, Alla ricerca del tempo perduto, raccontato stavolta in prima persona, a differenza dell’incompiuto Jean Santeuil. Proust riscrive molte volte gli stessi episodi per ottenere un perfetto adeguamento della forma al pensiero, ma, più che a togliere, tende ad aggiungere nuovo materiale narrativo. Così, dalle due parti iniziali (Tempo perduto, Tempo ritrovato) si arriva poco a poco a sette libri, pubblicati tra il 1913 e il 1927: Dalla parte di Swann, All’ombra delle fanciulle in fiore, La parte dei Guermantes, Sodoma e Gomorra, La prigioniera, Albertine scomparsa, Il tempo ritrovato (gli ultimi tre postumi, essendo morto lo scrittore nel 1922).
La memoria e il tempo
«Per molto tempo sono andato a letto presto la sera»: inizia così il prologo del romanzo, incentrato sull’analisi del dormiveglia, regione di confine tra coscienza e inconscio. Al risveglio il Narratore stenta, nel buio totale, a collocarsi in questa o quella camera, finché la memoria si fissa su quella della casa di Combray, villaggio di provincia, dove la sua famiglia si recava un tempo a trascorrere le vacanze di Pasqua. Ma dell’infanzia in campagna ogni memoria è stata cancellata, tranne quella di un trauma doloroso: una sera, a causa della presenza a cena di un vicino di casa, la madre non sale a dare al bimbo il bacio della buonanotte. In un crescendo di ansia da abbandono, il fanciullo ha una crisi di nervi acuta.
Solo questo ricordo-incubo è sopravvissuto, fino al giorno in cui, molti anni dopo, inzuppando a Parigi un biscotto chiamato petite Madeleine in una tazza di tè, il Narratore viene colto da un’emozione straordinaria, per l’analogia tra quel sapore e qualcosa di identico provato in un istante dimenticato del passato. Concentrandosi, ricorda che, quand’era bambino, a Combray, una zia gli offriva lo stesso tipo di biscotto, bagnato in una infusione di tiglio. Un frammento di tempo perduto risorge così dall’oblio. Per associazione di idee, riaffiora anche il ricordo della vecchia casa col suo giardino, delle strade del villaggio, della antica chiesa, e della campagna circostante dove, coi familiari, il Narratore faceva ogni giorno lunghe passeggiate. Talvolta si dirigevano dalla parte di Méséglise, passando accanto alla villa di Swann, un raffinato esponente della borghesia ebraica. Altre volte, invece, andavano, lungo il fiume, verso il castello di Guermantes, abitato dai signori di quella zona, una famiglia aristocratica dall’illustre passato, giunta al vertice della mondanità parigina.
La stagione della maturità
Solo molto più tardi, il Narratore riuscirà a penetrare nell’universo meraviglioso (o supposto tale) di questa élite sociale, e ne resterà deluso. A Parigi, egli esplorerà dunque questi mondi (borghesia e aristocrazia), sperimentando le croci e le delizie dello snobismo, in un pellegrinaggio attraverso le sofferenze amorose, prima per Gilberte, la figlia di Swann, e poi per Albertine. Centinaia di personaggi, alcuni dei quali delineati con una eccezionale forza psicologica che li rende indimenticabili, si affollano attorno al lettore sempre più incantato.
Accompagnando il protagonista dalla prima infanzia fino alla vecchiaia, il racconto è punteggiato da vari incontri con la morte di persone care. Dopo la scomparsa di Albertine, il Narratore visita Venezia e Padova. La descrizione delle distruzioni materiali e morali provocate dal primo conflitto mondiale, sia a Parigi, sia a Combray, suscita impressioni profonde. Per i suoi gravi disturbi nervosi il Narratore si fa ricoverare in case di cura. È scoraggiato, si sente fallito. Ha perso la fiducia sia nella propria vocazione di scrittore, sia nel valore della letteratura. Ma, a questo punto, c’è una svolta insperata.
Il tempo ritrovato
Dopo la guerra, torna a Parigi e si reca a un ricevimento mondano. Nel cortile, fa qualche passo indietro perché c’è un’automobile in manovra. Poggia il piede su una pietra difettosa, per un attimo perde l’equilibrio. È assalito dalla stessa sensazione di felicità che gli aveva dato, tanti anni prima, il sapore della petite Madeleine. Stavolta è una visione di luce e di azzurro abbagliante. Stenta a riconoscerla, ma poi capisce: è Venezia. Nel Battistero di S. Marco, per meglio osservare un mosaico raffigurante il Battesimo di Cristo, era indietreggiato e aveva perso l’equilibrio allo stesso modo.
Stavolta il Narratore ha occasione di riflettere a lungo sul significato delle memorie involontarie, ed elabora un’estetica della dimensione profonda e interiore. Tutti gli apparenti valori della vita sono falsi miti. Storia, scienza e società sono illusioni. Non sarebbe del tutto assurdo sostenere che Proust ha scritto un romanzo di varie migliaia di pagine per dimostrare che tutto ciò di cui in genere parlano i romanzi (compreso il suo, tranne le 20 o 30 pagine in cui sono descritte alcune memorie involontarie) è privo di interesse. Ma non è esattamente così. In realtà la sua è un’estetica doppia, basata anche sulla necessità di estrarre dall’esperienza le leggi generali della psicologia e dei comportamenti sociali, e in tal modo anche il romanzo tradizionale ritrova una sua ragion d’essere.
La coscienza di Zeno
La coscienza di Zeno è il romanzo psicoanalitico di Italo Svevo pubblicato nel 1923.
L’isolamento dell’io si approfondisce nel terzo romanzo, che fa di Svevo uno dei grandi maestri del personaggio vociferante e solitario, discendente del dostoevskiano «uomo del sottosuolo». Durante il viaggio di nozze a Venezia, la moglie di Zeno Cosini ammira scorci di giardini e campanili vibranti nell’acqua.
«Io, invece, nell’oscurità, sentivo, con pieno sconforto, me stesso» ricorda Zeno (La coscienza di Zeno, cit., p. 157). Questa è la situazione sorgiva della Coscienza: un uomo ironico e sempre più solo studia sé stesso e gli effetti prodotti su di lui dagli altri (la trama dei traumi, le «lesioni» ricevute o, più raramente, inflitte). L’impulso che lo muove è una domanda: chi sono io? Per assisterlo l’autore gli mette in mano «la scienza per aiutare a studiare se stesso» (Soggiorno londinese, in Teatro e saggi, cit., p. 893): la psicanalisi. Nasce così uno dei romanzi più singolari del Novecento, capace di assorbire la teoria freudiana a diversi gradi di profondità, convertirla in racconto e poi metterla in scacco, insieme al racconto stesso. In sintonia con le sperimentazioni della letteratura del suo tempo, ma in modo meno esibito e più sottile, la sua forma congeda la tradizionale linearità della trama romanzesca: affianca un testo-cornice (la Prefazione del dottor S.), l’autobiografia di Zeno – che segue un ordine policentrico ed episodico più che causale e cronologico, e si dissemina di riflessioni e aforismi – e infine il suo diario. Ciascun testo smentisce gli altri, destando sospetti su ogni pagina. E tuttavia il protagonista ci persuade ad addentrarci nell’opera prendendo sul serio il suo «proposito» più grande: scrivere per conoscersi e ottenere la «salute», cioè una vita più felice e buona (ne ha molti altri, tutti disattesi, tra cui smettere di fumare). Zeno però, che vuole cambiare, non fa che ripetersi; e anche con la verità cui aspira ha un rapporto complesso: «Ricordo tutto, ma non intendo niente» (La coscienza di Zeno, cit., p. 32).
Come molti romanzi modernisti, la Coscienza vuole essere non solo una semplice storia, ma soprattutto un’«avventura intellettuale», per usare l’espressione scelta da Musil per Der Mann ohne Eigenschaften (1930-1942; trad. it. L’uomo senza qualità, 2 voll., 1956-1962): si incentra sull’imperativo del ‘conosci te stesso’, di cui i fatti narrati non sono che l’oggetto molle ed evanescente. Dalla psicanalisi Svevo trae innanzitutto il paradigma del racconto rammemorante allo scopo di fare luce sul senso dell’agire umano; un agire compulsivo, oscuro e posseduto dal desiderio (il romanzo è intriso di eros), ma proprio per questo bisognoso di essere interpretato. Eppure l’opera è anche avvolta di ambiguità e segretezza: convivono in Zeno, ossimoricamente, una tensione allo «studio» e una all’occultamento. Come gli altri protagonisti sveviani, anche
Zeno è incline all’autoinganno. Ed è sepolto nel linguaggio, di cui teorizza in più luoghi la natura falsa e potente, che lo spinge a preferire al dialogo il silenzio:
«Le parole bestiali che ci lasciamo scappare rimordono più fortemente delle azioni più nefande», avverte; «la stupida lingua agisce a propria e a soddisfazione di qualche piccola parte dell’organismo [...] si muove sempre in mezzo a dei traslati mastodontici» (p. 283).
Ma non si tratta solo di questo. Intelligentissimo, Zeno si muove con imbarazzo e inquietudine, ma anche con ironia e «leggerezza incredibile»: vacilla e glissa. Il suo mondo è fluido e vi troneggia un nuovo edificio: la Borsa del Palazzo del Tergesteo, il luogo della speculazione e del gioco (gli sfondi sveviani sono sempre insieme realistici e astratti, semantici). E Zeno gioca, come un attore in maschera e come un giocatore d’azzardo che si abbandona al caso e vince misteriosamente.
Perciò troviamo in lui anche un consapevole ricorso, e un diritto rivendicato, alla falsificazione e al non sapere: mente, inventa, trascura, omette. Di alcune sue storie, per esempio, afferma: «Erano vere dal momento che io non avrei saputo raccontarle altrimenti. Oggidì non m’importa di provarne la verità» (p. 82).
Tra le cose che Zeno cerca a lungo di ignorare ne spicca una: la guerra. La Coscienza fa parte delle opere capitali della cultura europea degli anni Venti-Trenta che portano inscritto, a loro fondamento, lo shock del conflitto mondiale: Der Zauberberg (1924; trad. it. La montagna magica, 1932) di Mann, Der Mann ohne Eigenschaften di Musil, Die Schlafwandler (1931-1932; trad. it. I sonnambuli, 1960) di Broch, Jenseits des Lustprinzips (1920; trad. it. Al di là del principio di piacere, 1974) di Freud. Ma qui la guerra entra alla chetichella, come Zeno che la incontra vagabondando per la campagna nell’ultimo capitolo del romanzo. Ne riceve i segnali e li nega, e abbraccia con inedita ma sinistra gioia la sua vita proprio lungo le rive dell’Isonzo («seppi sorridere alla mia vita ed anche alla mia malattia [...] le amai, le intesi!», p. 401). E se in Der Zauberberg Castorp avanza sublime nel fango dei campi di battaglia cantando la Winterreise, Cosini ci capita per sbaglio e ha un solo grande problema: come attraversare la linea del fronte per tornare a casa e «arrivare finalmente al [suo] caffelatte». È tipico dei mondi sveviani – in questo davvero freudiani – che si possa incappare in avventure inaudite mentre ci si appresta a sorbire un caffè; Svevo inverte le maiuscole e le minuscole: se il quotidiano si ingigantisce in tic nevrotici onnipotenti (si soggiace a forze incoercibili che hanno le dimensioni di una sigaretta), gli eventi e i problemi più enormi si aggirano con ostentata noncuranza tra le pieghe della banalità, «come i principi dell’opera travestiti da mendicanti» (J. Breuer, S. Freud, Studien über Hysterie, 1895, in S. Freud, Gesammelte Werke, 1°vol., 1952, p. 282).
Il capolavoro sveviano delle inversioni e delle ambivalenze concettuali è l’ultimo capitolo della Coscienza. Qui Zeno affida al suo diario temi di riflessione densissimi: si dichiara sano in quanto felicemente incurabile e rifiuta la psicoanalisi come terapia; celebra l’incompiutezza dell’essere umano («ha da moversi e battersi e mai indugiarsi nell’immobilità»); decreta l’infermità del mondo e ne predice la scomparsa. E soprattutto fa scomparire sé stesso: difende a lungo l’intrinseca falsità di tutto ciò che finora ha raccontato, abolendo in poche pagine l’intero romanzo che le precede e deridendo la credulità del dottor S. («quel bestione»), che lo incoraggiava a scrivere per «vedersi intero».
“È così che a forza di correr dietro a quelle immagini, io le raggiunsi. Ora so di averle inventate. Ma inventare è una creazione, non già un menzogna. Le mie erano delle invenzioni come quelle della febbre, che camminano per la stanza perché le vediate da tutti i lati e che poi anche vi toccano. Avevano la solidità, il colore, la petulanza delle cose vive. A forza di desiderio, io proiettai le immagini, che non c’erano che nel mio cervello, nello spazio in cui guardavo, uno spazio in cui sentivo l’aria, la luce ed anche gli angoli contundenti che non mancarono in alcuno spazio per cui io sia passato” (La coscienza di Zeno, cit., p. 387).
Il protagonista sveviano polemizza con Freud, che ci sprona a perlustrare ogni anfratto di noi stessi: conoscersi completamente, per Svevo, è impossibile. L’io è un velo. Ma la celebrazione trionfante delle ‘creazioni’, che sostituiscono l’arte alla verità cercata dalla psicanalisi, suggerisce che questo scacco non solo è inevitabile, ma addirittura gradevole: forse non sapere è meglio; non vogliamo la verità, sarebbe troppo per noi, e troppo semplice. Come sostiene Nietzsche in Die fröhliche Wissenschaft (1882; trad. it. La gaia scienza, 1905), al cui astuto atteggiamento Zeno sembra sempre più vicino:
C’è qualcosa che sappiamo fin troppo bene, noi sapienti: oh come impariamo una volta di più a dimenticare bene, a non-sapere bene [...] siamo troppo esperti, troppo rigorosi, troppo divertiti, troppo bruciati, troppo profondi (1887, in Id., Werke, cit., 5° vol., pp. 19-20).
Svevo, che nutriva «la convinzione che fosse pericoloso di spiegare ad un uomo com’era fatto» (Soggiorno londinese, cit., p. 897), esprime un’idea affine in un frammento di diario, prospettando un futuro in cui ogni nostro segreto sia svelato:
Forse quando usciremo dallo spazio e dal tempo ci conosceremo tanto intimamente tutti che sarà quella la via della sincerità. Ci daremo subito del ‘tu’ e c’irrideremo a vicenda come meritiamo. Morirà finalmente la letteratura che fa purtroppo tanta intima parte del nostro animo e ci vedremo tutti fino in fondo. Prospettiva macabra (in Id., Racconti e scritti autobiografici, cit., p. 755).
L’io al centro della Coscienza – esile e mobile, sorgente di instabilità invece che di certezza, eppure anche scettico e astuto, esperto e profondo – è ben lontano da questo rischio, che si è impegnato a scongiurare per sempre. Seguendone le avventure, Svevo esibisce le condizioni fragili e contraddittorie del pensiero: ne svela l’impulso, ma anche le aporie. È un nodo problematico complesso che lo scrittore condivide con il romanzo modernista, soprattutto quello più intriso di filosofia (si pensi ai personaggi pirandelliani; a Ulrich in Der Mann ohne Eigenschaften, raggelato in uno scetticismo implacabile; o al perplesso Hans Castorp, che intorno alle cinque del pomeriggio, nel capitolo Schnee di Der Zauberberg, fa una riflessione decisiva sulla vita e la morte di cui gli sfuggirà il senso la sera stessa entro l’ora di cena). Ma Svevo conduce la questione alle sue più estreme conseguenze, perché, mentre smaschera i limiti connaturati a ogni atto di conoscenza, li rivendica, li esalta, li abbraccia.
🖋️ «Io, invece, nell’oscurità, sentivo, con pieno sconforto, me stesso» ricorda Zeno.
La coscienza di Zeno è il romanzo psicoanalitico di Italo Svevo pubblicato nel 1923.
L’isolamento dell’io si approfondisce nel terzo romanzo, che fa di Svevo uno dei grandi maestri del personaggio vociferante e solitario, discendente del dostoevskiano «uomo del sottosuolo». Durante il viaggio di nozze a Venezia, la moglie di Zeno Cosini ammira scorci di giardini e campanili vibranti nell’acqua.
«Io, invece, nell’oscurità, sentivo, con pieno sconforto, me stesso» ricorda Zeno (La coscienza di Zeno, cit., p. 157). Questa è la situazione sorgiva della Coscienza: un uomo ironico e sempre più solo studia sé stesso e gli effetti prodotti su di lui dagli altri (la trama dei traumi, le «lesioni» ricevute o, più raramente, inflitte). L’impulso che lo muove è una domanda: chi sono io? Per assisterlo l’autore gli mette in mano «la scienza per aiutare a studiare se stesso» (Soggiorno londinese, in Teatro e saggi, cit., p. 893): la psicanalisi. Nasce così uno dei romanzi più singolari del Novecento, capace di assorbire la teoria freudiana a diversi gradi di profondità, convertirla in racconto e poi metterla in scacco, insieme al racconto stesso. In sintonia con le sperimentazioni della letteratura del suo tempo, ma in modo meno esibito e più sottile, la sua forma congeda la tradizionale linearità della trama romanzesca: affianca un testo-cornice (la Prefazione del dottor S.), l’autobiografia di Zeno – che segue un ordine policentrico ed episodico più che causale e cronologico, e si dissemina di riflessioni e aforismi – e infine il suo diario. Ciascun testo smentisce gli altri, destando sospetti su ogni pagina. E tuttavia il protagonista ci persuade ad addentrarci nell’opera prendendo sul serio il suo «proposito» più grande: scrivere per conoscersi e ottenere la «salute», cioè una vita più felice e buona (ne ha molti altri, tutti disattesi, tra cui smettere di fumare). Zeno però, che vuole cambiare, non fa che ripetersi; e anche con la verità cui aspira ha un rapporto complesso: «Ricordo tutto, ma non intendo niente» (La coscienza di Zeno, cit., p. 32).
Come molti romanzi modernisti, la Coscienza vuole essere non solo una semplice storia, ma soprattutto un’«avventura intellettuale», per usare l’espressione scelta da Musil per Der Mann ohne Eigenschaften (1930-1942; trad. it. L’uomo senza qualità, 2 voll., 1956-1962): si incentra sull’imperativo del ‘conosci te stesso’, di cui i fatti narrati non sono che l’oggetto molle ed evanescente. Dalla psicanalisi Svevo trae innanzitutto il paradigma del racconto rammemorante allo scopo di fare luce sul senso dell’agire umano; un agire compulsivo, oscuro e posseduto dal desiderio (il romanzo è intriso di eros), ma proprio per questo bisognoso di essere interpretato. Eppure l’opera è anche avvolta di ambiguità e segretezza: convivono in Zeno, ossimoricamente, una tensione allo «studio» e una all’occultamento. Come gli altri protagonisti sveviani, anche
Zeno è incline all’autoinganno. Ed è sepolto nel linguaggio, di cui teorizza in più luoghi la natura falsa e potente, che lo spinge a preferire al dialogo il silenzio:
«Le parole bestiali che ci lasciamo scappare rimordono più fortemente delle azioni più nefande», avverte; «la stupida lingua agisce a propria e a soddisfazione di qualche piccola parte dell’organismo [...] si muove sempre in mezzo a dei traslati mastodontici» (p. 283).
Ma non si tratta solo di questo. Intelligentissimo, Zeno si muove con imbarazzo e inquietudine, ma anche con ironia e «leggerezza incredibile»: vacilla e glissa. Il suo mondo è fluido e vi troneggia un nuovo edificio: la Borsa del Palazzo del Tergesteo, il luogo della speculazione e del gioco (gli sfondi sveviani sono sempre insieme realistici e astratti, semantici). E Zeno gioca, come un attore in maschera e come un giocatore d’azzardo che si abbandona al caso e vince misteriosamente.
Perciò troviamo in lui anche un consapevole ricorso, e un diritto rivendicato, alla falsificazione e al non sapere: mente, inventa, trascura, omette. Di alcune sue storie, per esempio, afferma: «Erano vere dal momento che io non avrei saputo raccontarle altrimenti. Oggidì non m’importa di provarne la verità» (p. 82).
Tra le cose che Zeno cerca a lungo di ignorare ne spicca una: la guerra. La Coscienza fa parte delle opere capitali della cultura europea degli anni Venti-Trenta che portano inscritto, a loro fondamento, lo shock del conflitto mondiale: Der Zauberberg (1924; trad. it. La montagna magica, 1932) di Mann, Der Mann ohne Eigenschaften di Musil, Die Schlafwandler (1931-1932; trad. it. I sonnambuli, 1960) di Broch, Jenseits des Lustprinzips (1920; trad. it. Al di là del principio di piacere, 1974) di Freud. Ma qui la guerra entra alla chetichella, come Zeno che la incontra vagabondando per la campagna nell’ultimo capitolo del romanzo. Ne riceve i segnali e li nega, e abbraccia con inedita ma sinistra gioia la sua vita proprio lungo le rive dell’Isonzo («seppi sorridere alla mia vita ed anche alla mia malattia [...] le amai, le intesi!», p. 401). E se in Der Zauberberg Castorp avanza sublime nel fango dei campi di battaglia cantando la Winterreise, Cosini ci capita per sbaglio e ha un solo grande problema: come attraversare la linea del fronte per tornare a casa e «arrivare finalmente al [suo] caffelatte». È tipico dei mondi sveviani – in questo davvero freudiani – che si possa incappare in avventure inaudite mentre ci si appresta a sorbire un caffè; Svevo inverte le maiuscole e le minuscole: se il quotidiano si ingigantisce in tic nevrotici onnipotenti (si soggiace a forze incoercibili che hanno le dimensioni di una sigaretta), gli eventi e i problemi più enormi si aggirano con ostentata noncuranza tra le pieghe della banalità, «come i principi dell’opera travestiti da mendicanti» (J. Breuer, S. Freud, Studien über Hysterie, 1895, in S. Freud, Gesammelte Werke, 1°vol., 1952, p. 282).
Il capolavoro sveviano delle inversioni e delle ambivalenze concettuali è l’ultimo capitolo della Coscienza. Qui Zeno affida al suo diario temi di riflessione densissimi: si dichiara sano in quanto felicemente incurabile e rifiuta la psicoanalisi come terapia; celebra l’incompiutezza dell’essere umano («ha da moversi e battersi e mai indugiarsi nell’immobilità»); decreta l’infermità del mondo e ne predice la scomparsa. E soprattutto fa scomparire sé stesso: difende a lungo l’intrinseca falsità di tutto ciò che finora ha raccontato, abolendo in poche pagine l’intero romanzo che le precede e deridendo la credulità del dottor S. («quel bestione»), che lo incoraggiava a scrivere per «vedersi intero».
“È così che a forza di correr dietro a quelle immagini, io le raggiunsi. Ora so di averle inventate. Ma inventare è una creazione, non già un menzogna. Le mie erano delle invenzioni come quelle della febbre, che camminano per la stanza perché le vediate da tutti i lati e che poi anche vi toccano. Avevano la solidità, il colore, la petulanza delle cose vive. A forza di desiderio, io proiettai le immagini, che non c’erano che nel mio cervello, nello spazio in cui guardavo, uno spazio in cui sentivo l’aria, la luce ed anche gli angoli contundenti che non mancarono in alcuno spazio per cui io sia passato” (La coscienza di Zeno, cit., p. 387).
Il protagonista sveviano polemizza con Freud, che ci sprona a perlustrare ogni anfratto di noi stessi: conoscersi completamente, per Svevo, è impossibile. L’io è un velo. Ma la celebrazione trionfante delle ‘creazioni’, che sostituiscono l’arte alla verità cercata dalla psicanalisi, suggerisce che questo scacco non solo è inevitabile, ma addirittura gradevole: forse non sapere è meglio; non vogliamo la verità, sarebbe troppo per noi, e troppo semplice. Come sostiene Nietzsche in Die fröhliche Wissenschaft (1882; trad. it. La gaia scienza, 1905), al cui astuto atteggiamento Zeno sembra sempre più vicino:
C’è qualcosa che sappiamo fin troppo bene, noi sapienti: oh come impariamo una volta di più a dimenticare bene, a non-sapere bene [...] siamo troppo esperti, troppo rigorosi, troppo divertiti, troppo bruciati, troppo profondi (1887, in Id., Werke, cit., 5° vol., pp. 19-20).
Svevo, che nutriva «la convinzione che fosse pericoloso di spiegare ad un uomo com’era fatto» (Soggiorno londinese, cit., p. 897), esprime un’idea affine in un frammento di diario, prospettando un futuro in cui ogni nostro segreto sia svelato:
Forse quando usciremo dallo spazio e dal tempo ci conosceremo tanto intimamente tutti che sarà quella la via della sincerità. Ci daremo subito del ‘tu’ e c’irrideremo a vicenda come meritiamo. Morirà finalmente la letteratura che fa purtroppo tanta intima parte del nostro animo e ci vedremo tutti fino in fondo. Prospettiva macabra (in Id., Racconti e scritti autobiografici, cit., p. 755).
L’io al centro della Coscienza – esile e mobile, sorgente di instabilità invece che di certezza, eppure anche scettico e astuto, esperto e profondo – è ben lontano da questo rischio, che si è impegnato a scongiurare per sempre. Seguendone le avventure, Svevo esibisce le condizioni fragili e contraddittorie del pensiero: ne svela l’impulso, ma anche le aporie. È un nodo problematico complesso che lo scrittore condivide con il romanzo modernista, soprattutto quello più intriso di filosofia (si pensi ai personaggi pirandelliani; a Ulrich in Der Mann ohne Eigenschaften, raggelato in uno scetticismo implacabile; o al perplesso Hans Castorp, che intorno alle cinque del pomeriggio, nel capitolo Schnee di Der Zauberberg, fa una riflessione decisiva sulla vita e la morte di cui gli sfuggirà il senso la sera stessa entro l’ora di cena). Ma Svevo conduce la questione alle sue più estreme conseguenze, perché, mentre smaschera i limiti connaturati a ogni atto di conoscenza, li rivendica, li esalta, li abbraccia.