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È impossibile immaginare la civiltà occidentale e in particolare la civiltà europea senza che si profili ai nostri occhi il “miracolo greco” in tutta la sua compiutezza: scultura, architettura, letteratura, filosofia e scienza.

Ma cosa pensiamo quando parliamo di un modello greco? Di solito ci riferiamo a una elaborazione piuttosto tarda, vuoi rinascimentale, vuoi neoclassica. Quando pensiamo all’Atene delle conversazioni filosofiche, illuminate e solenni nell’agorà, ci dimentichiamo sovente dell’Atene dei mercanti, dei marinai del Pireo, degli schiavi, di quel mondo brulicante di attività rappresentato da Aristofane. Pensando alla Grecia noi ricordiamo di preferenza il suo modello apollineo, dimenticandoci dell’altro volto, quello di Dioniso; e studiando a scuola l’Atene dell’Accademia e del Liceo lasciamo nell’ombra, in cui già allora si nascondeva, la Grecia dei misteri, più vicina all’Ade che all’Olimpo.

Per conoscere tutti i temi legati alla civiltà greca, vi proponiamo una lista di 10 parole, pensata e realizzata con la Fondazione Euducation.

Gli approfondimenti sono tratti dall'opera Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook.

Buona lettura!

Nel V secolo a.C. si sviluppa ad Atene in modo straordinario un nuovo genere poetico che, dopo aver preso le mosse da origini remote e per noi ancora misteriose, raggiunge vertici che non saranno mai più eguagliati. Collocato all’interno delle feste religiose del dio Dioniso, legato a doppio filo con le controverse vicende della vita politica cittadina, fornito di una notevole dimensione spettacolare, il teatro ateniese comprende non solo le tragedie di Eschilo, Sofocle ed Euripide, ma anche le commedie di Aristofane prima e di Menandro poi, che arrivano fino alle soglie dell’età ellenistica.

Gli esecutori della poesia corale sono un gruppo di persone (un coro) che racconta, cantando e danzando, una storia. Se un personaggio esce da quel coro e, dopo aver assunto un’identità diversa sia da quella (immaginaria) dei suoi compagni sia dalla sua (reale) identità, si mette a dialogare, cantando e danzando, con il coro, abbiamo un primo, elementare abbozzo di teatro. Se poi i personaggi che escono dal coro sono due, e non solo dialogano (cantando) con il coro, ma parlano anche, e soprattutto, tra di loro, abbiamo allora il teatro greco dei primi anni del V secolo a.C.

Secondo le notizie degli antichi, è Eschilo che, all’inizio del secolo, porta il numero degli attori da uno a due; qualche anno dopo Sofocle alza il numero a tre, aumentando così il ritmo e la vivacità dell’azione drammatica. Con questi autori (e con Euripide, di poco più giovane di Sofocle), il teatro tragico greco vive il suo periodo d’oro; contemporaneamente, con poeti come Cratino, Aristofane ed Eupoli, anche la commedia conosce nel V secolo a.C. il momento di maggior fulgore.

Tutto questo riguarda, però, una sola città: Atene. Perché, se anche altre città si attribuiscono l’onore di aver contribuito alla nascita del teatro, è solo ad Atene che il teatro acquista una dimensione unica, non esclusivamente legata alla valenza letteraria: nel capoluogo dell’Attica il teatro è infatti un fenomeno religioso, che riveste una particolare importanza politica e ha un forte carattere agonistico.

L’organizzazione degli spettacoli teatrali è complessa: molte sono le persone coinvolte, pesanti le responsabilità, alta la posta in palio. Il compito di scegliere quali tragedie e quali commedie rappresentare ogni anno alle Grandi Dionisie tocca all’arconte eponimo: i poeti si recano da lui qualche mese prima dell’inizio della festa, leggono alcuni passi dei loro drammi e gli “chiedono un coro” – una frase (choron aiteisthai) che indica la formale richiesta di designare una persona che si accolli i costi dell’allestimento scenico. Dal momento che la messa in scena di uno spettacolo è un’operazione assai onerosa, bisogna trovare qualcuno che faccia fronte a tutte le spese, dal reclutamento dei coreuti alla scelta del loro istruttore, dall’acquisto dei costumi e delle maschere all’affitto della sala dove si fanno le prove, dall’allestimento della scenografia all’onorario dell’auleta, il musicista che esegue l’accompagnamento musicale suonando l’aulos. Questa persona facoltosa è il “corego”, una figura simile a quella del nostro sponsor; la coregia è una delle forme di tassazione indiretta alle quali sono sottoposti gli Ateniesi più ricchi. Per quanto onerosa, però, questa spesa ha anche un risvolto positivo: i cittadini ambiziosi possono sfruttare simili occasioni per guadagnarsi la benevolenza del popolo e, nello stesso tempo, farsi un po’ di pubblicità. Nelle epigrafi ufficiali che registrano le generalità dei vincitori, il nome del corego non manca mai; spesso il corego fa addirittura costruire un monumento per celebrare il proprio successo.

 

Immagine via Wikimedia Commons, Jerome Bon from Paris, France, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, via Wikimedia Commons

Per i Greci ciò che è bello è ciò che ha ordine, proporzione, simmetria ed armonia; il primo a formulare una vera e propria teoria del bello è lo scultore Policleto attraverso uno scritto e una statua, oggi perduta, denominati il Canone in cui si espongono i principi per realizzare la figura umana perfetta e, quindi, giungere alla “costruzione” del bello.

Fin dall’inizio della loro storia i Greci hanno un’intuizione: il mondo è un kósmos, ossia un “ordine bello”. L’idea che la bellezza scaturisce dal meraviglioso accordarsi, in un progetto razionale riconoscibile, di tutto ciò che esperiamo coi sensi, trova in seguito una compiuta formulazione filosofica in Pitagora il quale, avendo individuato nel numero l’essenza del reale, dà fondamento ontologico alla bellezza: il bello è insito nell’ordine, l’ordine deriva dalla corretta proporzione tra le parti, la proporzione dalla misura e la misura dal numero. L’universo appare insomma ai Greci come un corpo “disegnato” secondo proporzioni appropriate e l’organismo più complesso e perfetto di cui hanno conoscenza – il corpo umano – ne rispecchia, come un microcosmo, la mirabile sintassi. Ci siamo sentiti ripetere tante volte che per i Greci “l’uomo è misura di tutte le cose” da rischiare di perdere di vista la verità letterale di questa affermazione. Per i Greci in effetti – come del resto per molte altre culture antiche – sono le parti del corpo umano a fornire le unità di misura: il dito, il piede, il palmo, il cubito (la distanza dalla punta delle dita al gomito), la tesa (l’apertura delle due braccia), e così via; ma è compito degli artisti stabilire quali siano i rapporti maggiormente armonici tra queste grandezze e trovare le tecniche per oggettivare il bello in una figura umana. La teoria per cui la bellezza consiste nelle proporzioni tra le parti è accettata per tutta l’antichità e mantenuta sostanzialmente fino all’Ottocento. Essa – secondo il grande studioso di estetica polacco Wladyslaw Tatarkiewicz può, ben a ragione, chiamarsi la Grande Teoria dell’estetica europea.

Il primo a formularla – almeno per quanto riguarda le arti plastiche – è Policleto, lo scultore greco nativo di Argo vissuto nel V secolo a.C. Egli è il primo scultore occidentale a scrivere un trattato sulla propria téchne, esponendovi i principi secondo cui doveva essere realizzata la figura umana perfetta. Con lui l’operare dell’artista passa dall’empiria alla riflessione, dall’oralità dell’insegnamento di bottega allo spazio letterario. Per illustrare la sua teoria Policleto realizza anche una statua che ne traduce in pratica i precetti. Tanto lo scritto che la statua hanno il nome di Canone (Regola).

È possibile conoscere la medicina teurgica greca sia attraverso le steli ed i votivi anatomici che i pazienti guariti offrono in dono al dio Asclepio, sia attraverso fonti letterarie di datazione molto variabile. Le pratiche di guarigione sacra passano, insieme al culto di Asclepio/Esculapio, a Roma, dove mantengono sostanzialmente inalterati i loro caratteri (purificazione, invocazione del dio, sonno sacro).

Per comprendere come sia strutturata l’arte della guarigione in Grecia prima che Ippocrate ne stravolga profondamente le caratteristiche, con il sostanziale razionalismo della sua “nuova medicina”, si può far ricorso a una testimonianza piuttosto tarda: quella fornita dai Discorsi sacri del retore greco Elio Aristide, prigioniero volontario del tempio del dio Asclepio a Pergamo nel II secolo. Elio Aristide è un uomo di successo, ma ammalato di un disagio esistenziale profondo, che lo costringe ad avvertire nel suo corpo patologie varie e tutte inesistenti; l’unica soluzione che trova al suo disagio è il soggiorno, protratto per anni, presso il famoso tempio di un dio antico, con il quale colloquiare continuamente e sperimentare tutte le strategie terapeutiche della medicina teurgica.

Durante i lunghi anni di malattia, Asclepio in persona suggerisce al paziente, apparendo nei sogni o agendo per il tramite dei suoi sacerdoti, complesse terapie che prevedono massaggi, bagni, esercizi fisici, pratiche di canto e di danza, assunzione di farmaci, applicazioni di empiastri e clisteri. I riti seguono un andamento comune; il malato viene accolto nel tempio portando con sé offerte votive ed ex voto, piccoli manufatti rappresentanti la parte del corpo per la quale si chiede la guarigione. I templi dispongono di fonti sorgive ove effettuare lavacri di purificazione, di un anfiteatro per riti collettivi, di un abaton, zona ad accesso limitato in cui ha luogo il sonno sacro, la permanenza notturna durante la quale il dio guarisce o suggerisce al paziente le modalità di cura, da attuarsi al momento del risveglio.

Agli inizi della tradizione greca la parola mythos esprime non il racconto favoloso o incredibile ma, al contrario, un’enunciazione estremamente autorevole. Solo col trascorrere del tempo mythos passa a identificare il racconto favoloso, generalmente poetico, della cui credibilità si può o si deve dubitare. Nel seguito della sua vicenda culturale questo termine assume diversi e più complessi valori, che confluiscono nel moderno concetto di "mito". Fornire perciò una definizione di "mito", soprattutto se la si intendesse come esaustiva e definitiva, non avrebbe senso. È possibile, però, darne almeno una definizione di tipo operativo.

Il termine italiano mito – come il mythe dei francesi, il myth degli inglesi, il mythos dei tedeschi, e così via – deriva direttamente dal termine greco mythos. Ma possiamo esser certi che, se ci mettessimo a discutere il significato di questa parola con i suoi legittimi proprietari, i Greci, emergerebbe subito una notevole diversità di opinioni.

Con mythos infatti i Greci indicavano la "parola", il "discorso", il "racconto". Ma chi si aspettasse di veder definito come mythos esclusivamente il racconto sacro, favoloso, o semplicemente la storia alla quale non si presta fede – tutti significati a cui ci ha abituati la fortuna posteriore di questo termine – sarebbe destinato a restare deluso. Agli inizi della letteratura greca, ossia in Omero ed Esiodo, mythos indica sì discorsi o racconti, ma non quelli incredibili o pieni di accadimenti soprannaturali. Al contrario, nella lingua dell’epica arcaica sono definiti mythos racconti o discorsi di carattere indiscutibilmente autorevole. È mythos, per esempio, il discorso che il falco predatore rivolge "con forza" all’usignolo, la sua preda (Esiodo, Opere e i giorni, 206). Allo stesso modo, in Omero viene definito mythos il discorso pronunziato con veemenza da maschi guerrieri sul campo di battaglia; e quando Poseidone respinge l’ordine di Zeus di abbandonare la lotta, la sua risposta "dura e potente" è definita mythos (Omero, Iliade XV, 202). Non diversamente sono definite mythos le orazioni pronunziate, in assemblea, da eroi che posseggono il prestigio necessario per farlo: come Agamennone quando caccia via dal campo acheo il sacerdote Crise, minacciandolo; o come Achille quando respinge gli ambasciatori di Agamennone (Iliade, I, 25; IX, 309). Il mythos dell’epica è un discorso assertivo, che chiede in qualche modo di essere eseguito: prova ne sia il fatto che esso non viene mai pronunziato da donne – "speaker" prive di autorità, perché a detenerla sono solo gli uomini – e suona male perfino sulla bocca di maschi troppo giovani. Il mythos insomma è, in primo luogo, un discorso autorevole pronunziato da locutori altrettanto autorevoli.

Buona parte dei Greci, durante l’età arcaica e classica, fa parte di piccole comunità autonome e tendenti all’autosufficienza, all’interno delle quali si sviluppano spesso violente lotte tendenti a determinare chi debba farne parte a pieno titolo e chi invece ne debba essere escluso. La polis è un’istituzione peculiare, della quale è impossibile fissare il luogo o la data di nascita: la sua origine va vista nell’ottica di un processo lungo e complesso, durante il quale acquista sempre più importanza lo spazio pubblico, attraverso la lenta crescita delle istituzioni.

Nel corso della loro storia, i Greci vivono per lo più in poleis (singolare polis). Si tratta di un’istituzione “piuttosto curiosa e in un certo senso effimera”, come ebbe a dire il grande storico Moses Finley.

Dovendone dare una definizione, si parlerà di comunità autonome generalmente di piccole dimensioni, che si autogovernano dopo aver stabilito, in primo luogo, chi di tali comunità debba far parte (il cittadino, polites) e chi invece ne è escluso (“inferiori”, stranieri, donne, schiavi): di tutte le traduzioni che sono state proposte, quella di città-stato è tutto sommato la meno errata; in linea di massima, noi abbiamo preferito mantenere il termine greco traslitterato.

Le poleis di cui si conosce almeno il nome (e spesso, purtroppo, poco altro) sono più di 1000, di cui oltre due terzi da collocarsi nella Grecia vera e propria, poco meno di un terzo fondate lungo le coste del Mediterraneo. Ciò non significa che i Greci non abbiano conosciuto altre forme di aggregazione (stati etnici, stati federali, stati territoriali ecc.) e non significa neppure, come pure si è sostenuto per lungo tempo, che la polis sia la forma statuale dei Greci. Significa solo, tautologicamente, che la polis è di enorme importanza nella storia greca e che, in linea di massima, i Greci “si pensavano” come abitanti di poleis.

Possiamo descrivere un modello ideale di polis che, almeno in qualche misura, inglobi tutti gli esempi storici che siamo in grado di elencare? Per quanto riguarda l’organizzazione politica si possono individuare due grandi modelli: la polis aristocratica e la polis democratica, ciascuna con una grande e fortunata anomalia, Sparta per il côté aristocratico, Atene per quello democratico. Se invece ci limitiamo a considerare l’aspetto fisico, dovendo trovare un minimo comun denominatore, ci si dovrà fermare a poche banalità: la polis greca comprende di solito un territorio di pochi chilometri quadrati (Atene, una polis dotata di un territorio particolarmente grande, eguagliava l’estensione del Lussemburgo; il 75 percento delle poleis non raggiungeva i 100 kmq, superficie superata da almeno 500 comuni italiani), spesso collinare o montuoso, con poche pianure (almeno in Grecia); quando possibile, con uno sbocco verso il mare. In tale territorio, con criteri insediativi diversi che salvaguardano comunque una sostanziale e fondamentale continuità di centro abitato e campagna, vivono generalmente da poche centinaia a poche migliaia di cittadini: le poleis con almeno 10 mila cittadini maschi adulti si contano, in tutta la storia greca, sulle dita di una mano.

I primi nomi propri che si incontrano nella letteratura greca sono quelli di Omero e di Esiodo. A Omero (molto probabilmente una figura leggendaria) gli antichi attribuivano la composizione di due poemi epici, l’Iliade e l’Odissea, messi per iscritto intorno al VI secolo a.C., che raccontano vicende legate alla guerra di Troia; Esiodo è autore di due poemetti più brevi, la Teogonia (il primo tentativo di sistemazione del complesso materiale mitico relativo alle origini del cosmo) e le Opere (l’esaltazione del lavoro umano e della giustizia divina).

All’inizio della letteratura greca si ergono, come due monoliti, i poemi omerici. Delle numerose leggende che costituivano il serbatoio mitico dei Greci ci sono rimaste integralmente, sotto forma di poema epico, due vicende legate alla guerra di Troia (chiamata anche Ilio), la lunga contesa tra gli Achei e i Troiani per il controllo dello stretto dei Dardanelli: l’Iliade racconta una parte delle alterne vicende che hanno luogo durante il lungo assedio della città, durato dieci anni; l’Odissea narra il faticoso ritorno di uno dei capi greci nella sua patria.

A partire dall’VIII secolo a.C., con la crescente diffusione dell’alfabeto greco, i poemi che fino a quel momento erano circolati oralmente sono trascritti in varie località del mondo greco. La più famosa di queste redazioni risale, secondo le fonti antiche, alla seconda metà del VI secolo a.C.: stando a quel che ci racconta Cicerone nel De oratore (riportando una notizia attinta molto probabilmente dal grammatico Asclepiade di Mirlea), il tiranno ateniese Pisistrato avrebbe fatto raccogliere i “canti sparsi” di Omero e li avrebbe disposti in quello destinato a diventare l’ordine tradizionale; secondo la testimonianza che leggiamo nell’Ipparco, un dialogo attribuito a Platone, Ipparco, uno dei due figli di Pisistrato, li avrebbe fatti recitare a turno, senza interruzione, nel capoluogo dell’Attica durante la festa delle Panatenee. 

Se l’esistenza di un poeta di nome Omero, autore dell’Iliade e dell’Odissea, non è sicura, non ci sono invece dubbi sull’esistenza di un poeta di nome Esiodo, autore di due poemi in esametri (la Teogonia e le Opere e giorni), rapsodo professionista vissuto tra l’VIII e il VII secolo a.C. Non sono poche le cose che conosciamo di lui, perché Esiodo parla spesso di sé: ci racconta che suo padre è un commerciante originario di Cuma, in Asia Minore, che si è poi trasferito in Beozia, nella città di Ascra, ai piedi del monte Elicona; che suo fratello Perse litiga con lui per l’eredità paterna; che vince la gara poetica che si tiene a Calcide, nell’isola dell’Eubea, durante i giochi funebri in onore del principe Anfidamante. Per questo motivo Esiodo è il primo autore della letteratura greca fornito di una biografia che, una volta messe da parte tutte le vicende inventate dagli autori successivi (che lo vollero parente, contemporaneo e rivale di Omero), rimane senz’altro attendibile.

La parola italiana “musica” e le espressioni corrispondenti in molte altre lingue europee (musicmusiqueMusik ecc.) derivano senza dubbio, attraverso la mediazione del latino, dal termine greco mousike: ma se oggi per “musica” s’intende una pratica che, oltre a fare uso di suoni (strumentali e/o vocali) organizzati in base a regole culturali, solo in alcuni casi li mette anche in relazione con parole e/o gesti coreutici, nell’antica Grecia la formula mousike techne (alla lettera l’“arte delle Muse”, le divinità che sovrintendono a ogni disciplina artistica) è correlata a un evento nel quale vengono armonizzati non solo canto e accompagnamento strumentale, ma anche poesia e danza. Tenendo conto di questa differenza di significato tra i due termini, questa sezione si concentrerà su quelle pratiche nelle quali la mousike techne dei popoli dell’antica Grecia si è realizzata in maniera più significativa e sulle riflessioni che il pensiero antico ha elaborato su tali pratiche, soprattutto su quelle più intimamente connesse con le vicende musicali successive.

Diverse trattazioni saranno dedicate a sottolineare come gli eventi musicali nella Grecia antica abbiano una fruizione prevalentemente pubblica (anche quando l’occasione della performance scaturisce da una circostanza che oggi definiremmo “privata”, come può essere il caso di un funerale o di un matrimonio) e ampiamente condivisa da parte della collettività. La musica è inoltre considerata dagli antichi parte integrante della formazione e dell’educazione di ogni cittadino, in virtù dell’enorme potere psicagogico (cioè “che muove l’anima”) e terapeutico ad essa attribuito.

In Grecia si fa musica nei periodi e nei contesti più vari, dalle corti micenee alla quotidianità delle poleis, il cui calendario religioso e civile è scandito da esibizioni artistiche talora circoscritte a gruppi limitati della cittadinanza (per esempio uomini, come nei simposi, o donne, come in celebrazioni religiose che segnano il passaggio dall’adolescenza all’età adulta), ma più spesso allargate a tutto il corpo civico (quali le rappresentazioni teatrali di epoca classica) o a un ambito addirittura panellenico, come nelle occasioni festive che richiamano esecutori e pubblico da tutto il mondo ellenizzato.

In un’area ristretta del Mediterraneo, tra l’Egeo e lo Ionio, è nata quella che chiamiamo ancora oggi filosofia. È stato detto che tutta la storia della filosofia occidentale altro non è che un ininterrotto commento a Platone. Se non fosse che il pensiero aristotelico nasce in parte riprendendo e in parte trasformando i temi platonici, si potrebbe dire che tutta la storia del pensiero occidentale altro non è stata che un commento ad Aristotele, visto che ancora si discute se sia possibile una metafisica o una ontologia e quali siano le leggi della logica.

In ogni caso, anche se oggi, fatti avveduti da studi di antropologia culturale e di storia delle letterature extraeuropee, sappiamo benissimo che esistono altre modalità di pensiero che non sono quelle tramandateci dal mondo greco, è pur sempre ai modelli greci che la filosofia occidentale si rifà (quando vuole essere filosofia, e non religione o poesia).

La filosofia contemporanea si affanna ancora intorno ai temi delineati ab initio da quel pensiero e così fa la scienza che, interrogandosi sulle origini e le dimensioni dell’universo, altro non fa che ricominciare dai presocratici.

Nel Sofista platonico appare un modello di ragionamento per disgiunzioni binarie che rimane fondamentalmente quello su cui si basa l’intelligenza di un computer; qualcuno ha sostenuto, e con verisimiglianza, che se vogliamo trovare lo schema essenziale che presiede a un perfetto film western ci viene in soccorso la Poetica di Aristotele, che pure intendeva parlarci della grande tragedia dei suoi tempi. Le nuove geometrie esistono in opposizione a quella di Euclide, e solo da poco si è dimostrato quell’ultimo teorema di cui Fermat prometteva la prova a margine di una copia dell’Arithmetica dove Diofanto trattava delle sue equazioni.

La filosofia contemporanea si ispira al pensiero greco anche quando diffida delle trattazioni razionali e si affida al dialogo o all’equivalente dei poemi filosofici, percorrendo le vie dell’intuizione, dell’illuminazione, della visione. Ma anche quando, all’opposto, intende relativizzare i grandi principi o la stessa nozione di verità, ricorre alle tecniche della sofistica, che non era la pratica negativa di cui parlava il Socrate platonico, grande ed abile sofista se mai ve ne furono.

L’oratoria è un prodotto tipico della democrazia ateniese, nella quale compaiono per la prima volta veri e propri specialisti del discorso. I luoghi della comunicazione collettiva, l’assemblea, i tribunali, feste e cerimonie pubbliche, hanno ognuno la propria forma di discorso: la demegoria, l’oratoria giudiziaria, l’epidittica. I protagonisti di questa nuova disciplina hanno storie diverse, dal meteco Lisia, celebrato logografo e conferenziere alla moda, a Isocrate, la cui scuola rappresenta un punto di svolta per l’affermazione della retorica in ambito pedagogico, a Demostene, passionale politico e figura tragicamente emblematica del declino della polis di fronte al trionfo macedone.

L’oratoria come genere letterario ha la sua sede naturale nell’Atene classica. È qui che si sviluppa una produzione specifica di discorsi per i diversi momenti della vita pubblica nella polis ed emergono personalità professionalmente dedite alla loro composizione; è qui che l’oratore diventa un protagonista della politica. Già il mondo antico lo riconobbe, con il canone alessandrino dei dieci oratori attici e l’affermazione di Cicerone sull’esclusività ateniese dell’eloquenza greca classica. La forza dell’oratoria come strumento di comunicazione non è, tuttavia, scoperta attica.

Essa appare già nei poemi omerici: nel libro IX dell’Iliade Nestore, Odisseo e Fenice, nel fallito tentativo di convincere Achille a tornare a combattere, pronunciano discorsi che rappresentano altrettanti modelli di stile oratorio. Achille ribatte alle loro argomentazioni e mantiene il suo rifiuto. Anche il guerriero per antonomasia conosce l’arte della parola, il cui dominio sapiente è attributo esclusivo degli eroi. Nella prospettiva tutta aristocratica dei poemi, solo a loro è concesso legittimamente di usarla, come dimostra il caso di Tersite. L’autorità di chi pronuncia il discorso è premessa decisiva alla possibilità stessa di esporre pubblicamente i propri argomenti: un rigoroso filtro sociale seleziona i potenziali oratori.

 

Con il termine paideia si indica il processo educativo dei giovani nell’antica Grecia, inteso come trasmissione di quei valori fondamentali alla formazione di cittadini adulti e consapevoli ad opera di insegnanti privati pagati dalla città. Tradizionalmente gli insegnamenti comprendono la capacità di leggere, scrivere e fare di conto, l’abilità ginnica e la musica. Nel tempo, con i sofisti, con la scuola platonica e quella aristotelica e le altre scuole filosofiche, a queste discipline tradizionali viene affiancato lo studio della filosofia, della retorica e della dialettica, intese come discipline utili alla partecipazione del cittadino alla vita pubblica. L’introduzione di questi nuovi ambiti di studio porterà poi, in epoca medievale, all’articolazione dell’educazione nelle sette arti liberali.

Nell’Odissea (I 296) la dea Atena invita il giovane Telemaco, figlio di Odisseo, a lasciare i giochi da bambino, non più consoni alla sua età. I poemi omerici, l’Iliade e l’Odissea, messi in forma scritta e recitati, attraverso le rappresentazioni delle azioni dei loro eroi, forniscono i modelli di questa formazione. Ancora Platone avrebbe detto che Omero “aveva educato (pepaideuken) l’Ellade” (Repubblica X 606 e). Questa educazione tradizionale consisteva nel saper combattere e nel saper parlare in pubblico ai propri pari, ma anche nel saper suonare la lira. Funzione rilevante nella preparazione all’addestramento militare svolgono gli esercizi ginnici, praticati appunto a corpo nudo (gymnòs) e attività che noi denominiamo sportive e che includono le gare che avrebbero caratterizzato i giochi di Olimpia. Anche la caccia o l’equitazione sono funzionali a tale scopo. Tutte queste attività rafforzano lo sviluppo di uno spirito competitivo, inteso a raggiungere l’eccellenza nelle varie prestazioni per godere dell’approvazione pubblica. Non in tutte le città, però, il peso attribuito alla componente guerriera dell’educazione sarebbe stato altrettanto rilevante quanto lo era, per esempio, in una città come Sparta. 

Una svolta decisiva nella costruzione di una paideia dotata di contenuti intellettuali più complessi è impressa, nella seconda metà del V secolo a.C., da quelli che Platone avrebbe qualificato con l’appellativo comune di “sofisti”, da lui usato in senso svalutativo. Il nucleo dell’insegnamento sofistico consiste nell’insegnare a conoscere le proprietà del linguaggio e dei vari tipi di discorso – dall’esortazione alle molteplici forme di argomentazione e alla capacità di rispondere alle domande – e ad usare tali conoscenze allo scopo di convincere gli ascolatori.