Le Parole Valgono

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La lista, ideata con la supervisione e i contenuti esclusivi della Scuola dello Sport di Sport e Salute, propone 10 parole del mondo dello sport raccontate da 10 personaggi che hanno reso grande lo sport italiano.

Se interessati, vi invitiamo ad approfondire il tema attraverso i contributi enciclopedici proposti. Buona visione e buona lettura!

Tecnica di difesa di antica origine coreana. Praticato fin dal tardo 1° sec. a.C. come arte marrziale, si è affermato come disciplina sportiva di combattimento nella seconda metà del 20° secolo. Diffuso in molti paesi (sono circa 160 le nazioni affiliate alla World taekwondo federation, di cui 46 in Europa; quasi 50 milioni i praticanti), il t. è stato ammesso a titolo dimostrativo ai Giochi olimpici di Seul (1988) e di Barcellona (1992), per essere poi inserito nel programma ufficiale dei Giochi a partire da Sidney 2000.

Gli atleti sono suddivisi per sesso, età e categorie di peso (otto); indossano una divisa bianca (dobok) e sono obbligatoriamente muniti di protezioni (casco, corpetto ecc.). I colpi validi per il punteggio possono essere diretti solo al tronco e al volto dell’avversario, usando il piede o il pugno chiuso; in quest’ultimo caso, il tronco è il solo bersaglio valido.

Gli incontri si svolgono sulla distanza di 3 riprese della durata di 3 minuti ciascuna (con un minuto di intervallo). Si disputano su un quadrato di 8 m di lato, posto entro un’area di sicurezza (di 12 m di lato). Le gare sono dirette da un arbitro coadiuvato da 4 giudici d’angolo e da un direttore di campo. Un incontro di t. può concludersi, oltre che con la vittoria ai punti di uno degli atleti, per ko, intervento arbitrale, abbandono, squalifica, ferita. Dai punti validi si sottraggono le eventuali penalizzazioni per le tecniche proibite.

In Italia la pratica del t. è regolata dalla Federazione Italiana Taekwondo (FITA), fondata a Roma nel 1985. Nel dicembre 2000 il CONI l’ha riconosciuta ai fini sportivi come federazione sportiva nazionale.

 

Immagine: Republic of Korea, Flickr (https://www.flickr.com/photos/koreanet/6099427284/in/photostream/)

La parola atletica ‒ dal greco athlos "lotta", "combattimento" ‒ indica la pratica agonistica del correre, saltare e lanciare, non la semplice e isolata manifestazione di tali gesti. La storia dell'esercizio atletico nasce quasi con l'uomo, se non altro per la necessità che egli ebbe, fin dai tempi più remoti, di far ricorso ad atteggiamenti di difesa o di offesa che implicavano appunto correre, saltare, lanciare. Inoltre, al di là di ogni possibile contrasto, tali gesti corrispondono alle più semplici e spontanee manifestazioni dell'essere umano, che sia nella storia sociale sia nel quadro più soggettivo della crescita individuale è teso a scoprire e a esprimere le proprie risorse e potenzialità fisiche.
Tracce di un'attività atletica si trovano in bassorilievi egiziani risalenti a circa 3500 anni prima di Cristo, ma non si può escludere che manifestazioni del genere siano state in auge anche presso civiltà più antiche, per es. nelle Americhe e in Asia. Le prime notizie di sicuro rilievo su competizioni dell'Evo Antico si riferiscono comunque alla Grecia e all'Irlanda.
La letteratura greca dà notizia di gare di corsa tenute ancor prima del 1000 a.C., per lo più nell'ambito di funzioni religiose. L'origine dei Giochi Olimpici ‒ così chiamati perché si svolgevano ogni quattro anni a Olimpia nel Peloponneso nordoccidentale ‒ è fatta risalire da alcuni al 1222 a.C. e da altri all'884 a.C., ma il primo 'olimpionico' di cui ci sia stato tramandato il nome è Koroibos di Elide, vincitore della corsa veloce o stadion (600 pous o piedi, corrispondenti a 192,28 m, da percorrere in linea retta) nel 776 a.C., data che gli storici identificano con l'edizione inaugurale dei Giochi Olimpici. A partire dal 724 a.C. il programma si arricchì di un'altra corsa, il diaulos, distanza doppia dello stadion. Più tardi vennero ad aggiungersi il dolichos, una corsa di fondo che poteva variare da 7 a 24 stadi, e infine il pentathlon, che comprendeva corsa, salto in lungo, disco, giavellotto e lotta.

La track and field athletics, l'"atletica di pista e campo" quale la conosciamo noi, nacque per iniziativa degli inglesi, seguiti poco dopo dagli americani. A darle regole precise fu soprattutto l'élite che ruotava intorno alle università d'oltremanica. Molti storici considerano il primo incontro fra Oxford e Cambridge, tenuto al Christ Church Ground di Oxford nel 1864, come il foundational meeting dell'atletica moderna. Nel programma figuravano tre gare di corsa piana, tre a ostacoli e due di salto. I primi campionati inglesi si tennero a Beaufort House, Londra, nel 1866. Quelli degli Stati Uniti seguirono dieci anni dopo al Mott Haven Track di New York.
La prima federazione nazionale fu la AAA (Amateur athletic association), fondata a Oxford nel 1880. Le sue 16 regole, in gran parte riprese e applicate dagli organizzatori della prima Olimpiade moderna, possono essere considerate il 'codice sinaitico' dell'atletica moderna. Anche le distanze, i pesi e le misure ancora oggi adottate derivano in gran parte dal sistema inglese. Per es., i 400 metri, da tempo misura base delle piste, sono una traduzione libera delle 440 yards o quarto di miglio inglese (402,34 m). Se l'atletica moderna fosse nata nell'Europa continentale non c'è dubbio che le piste sarebbero di 500 metri, lunghezza che di fatto ebbero in certi stadi dell'Europa continentale (Milano, Parigi-Colombes, Colonia) fin oltre la metà del 20° secolo. Nelle gare dei pionieri anglosassoni la corsa sul miglio era considerata il glamour event, la "prova di maggior spicco", e non di rado veniva posta a chiusura del programma. All'evoluzione dei concorsi (salti e lanci) contribuirono largamente scozzesi e irlandesi.

 

Immagine: Citizen59, CC BY 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/3.0>, via Wikimedia Commons 

Questa disciplina, certamente conosciuta e praticata nella Grecia antica, non faceva tuttavia parte di alcun programma di giochi o competizioni. È un fatto singolare, ove si consideri l'istintivo desiderio dell'uomo di staccarsi da terra. Si può tuttavia dedurre che vi fossero problemi di regolamentazione e misurazione del salto, così come di sicurezza nella ricaduta, a suggerire l'esclusione della specialità da competizioni ufficiali. Al contrario, il salto in alto era regolarmente praticato in Africa: non mancano prove più o meno recenti, raccolte da vari esploratori tra i quali il duca di Mecklenburg, di competizioni di salto in alto organizzate in Congo, in particolare nelle zone abitate dai watussi, che certamente erano la continuazione di una tradizione antichissima. Alcune documentazioni fotografiche mostrano atleti africani superare misure stimabili in 2,50 m. Il salto probabilmente era effettuato con l'aiuto di pedane, attraverso le quali la velocità accumulata con la rincorsa poteva essere meglio trasformata in forza ascensionale.

In Europa una sorta di salto in alto faceva parte della tradizione celtica: gli atleti dovevano, a forza di garretti, balzare sulla sommità di un muro o di un ostacolo. L'impatto rendeva l'esercizio pericoloso e doloroso sia che si riuscisse nell'impresa sia, ancor più, in caso contrario. I vichinghi cominciarono a discendere lungo le coste dell'Europa attorno all'anno 800, effettuando incursioni in Inghilterra e in Irlanda e stabilendosi in Normandia; da qui, come normanni, mossero in seguito alla conquista della Gran Bretagna (1066). Essi ripresero ovunque la tradizione celtica del salto in alto, che non resse tuttavia alle trasformazioni di vita e costumi subentrate nel basso Medioevo.

Nel Rinascimento il salto in alto era, invece, regolarmente praticato. Dopo la campagna d'Italia di Carlo VIII, re di Francia, sul finire del 1400, tra i tanti intellettuali e artisti italiani che si trasferirono alla corte del re arrivò anche Arcangelo Tuccaro, che impartiva al sovrano lezioni su vari argomenti, compreso il salto in alto, mettendo per iscritto la sua teoria nei Tre dialoghi sull'esercizio di saltare e volteggiare per l'aria.

Il salto in alto, per ovvie ragioni di utilità, diventò pratica corrente nelle scuole militari in Germania, in Gran Bretagna e in Irlanda circa tre secoli più tardi. I britannici, emigrando negli Stati Uniti, portarono poi sull'altra sponda dell'Atlantico questa disciplina: attorno al 1840, un canadese, John Overland, veniva accreditato di aver superato 1,675 m. In Inghilterra, intanto, dove lo sport e l'atletica si sviluppavano specialmente nei collegi universitari, emergeva la figura di Marshall Brooks. Questo studente di Oxford sarebbe stato indicato, dai giornali del 1876, come capace di superare 1,83 m (6 piedi). Ma non aveva certo finito di stupire: nell'incontro tradizionale con Cambridge, che ebbe luogo nello stadio di Lille Bridge a Londra, Brooks si migliorò in varie riprese, concludendo addirittura a 1,89 m.

 

Il tennis è il più conosciuto tra i cosiddetti giochi di rimando, quelli in cui si colpisce una palla con una racchetta per rimandarla da un giocatore all’altro. È un gioco decisamente individuale ma i due tornei a squadre nazionali, la Coppa Davis (maschile) e la Federation Cup (femminile), sono un appuntamento importante nel calendario internazionale.

Secondo la teoria più accreditata, il tennis è stato ideato dal maggiore Walter Clopton Wingfield che nel 1873 riprese molte delle regole del real tennis, la denominazione inglese della courte paume, un gioco molto diffuso in Francia nel Settecento; infatti, il Giuramento della pallacorda (Serment du jeu de paume), che segna l’inizio della Rivoluzione Francese, prende il nome proprio dalla palestra dedicata alla paume.

L’origine francese spiega alcune particolarità del gioco. Anzitutto il nome tennis deriva dal francese antico tenes («tenete»), la chiamata con la quale il giocatore di paume indicava che era pronto a servire la palla. E il francese anglicizzato spiega anche il punteggio, apparentemente stravagante: love (zero) viene da l’œuf, l’uovo, la cui forma ricorda lo zero, appunto, mentre deuce (quaranta pari) viene da à deux le jeu, gioco ai due giocatori.

Le regole sono state definitivamente stabilite nel 1877, in occasione del primo campionato di Wimbledon in Gran Bretagna e successivamente a livello internazionale nel 1913 con l’istituzione della federazione internazionale, International lawn tennis federation (iltf; International tennis federation, ITF, dal 1977). Il tennis, presente ai primi Giochi olimpici (Olimpiadi) di Atene, è stato insieme al golf la prima specialità femminile inserita nel programma olimpico (Parigi, 1900).

Senza bisogno di risalire ai tempi dell'antichità, per cogliere le differenze basta soffermarsi per un attimo su quei giochi popolari che possiamo considerare gli antecedenti premoderni del calcio odierno, vale a dire quelle contese tra squadre avversarie in cui ci si disputava un pallone e che venivano praticate in varie forme in quasi tutta l'Europa in epoca medievale e durante il Rinascimento. Prendiamo a esempio la Francia. In questo paese troviamo la soule, un gioco che deve il suo nome a una palla di legno o, a seconda delle regioni, di cuoio, riempita di fieno o segatura e talvolta persino gonfiata d'aria (Jusserand 1901). Questa palla approssimativamente sferica veniva spinta con i piedi e i pugni, e qualche volta anche con l'aiuto di bastoni ricurvi, sebbene, in molti luoghi, le consuetudini tradizionali imponessero di usare soprattutto i piedi. Le due squadre avversarie avevano ciascuna una meta o un campo da difendere o da attaccare, e lo scopo del gioco consisteva nel far penetrare la soulenel campo avversario oppure nel farle raggiungere la meta opposta con qualunque mezzo a disposizione: calciandola, colpendola con le mani, con una corsa. I campi di gara e le mete potevano essere diverse e variare da luogo a luogo, anche se di norma erano abbastanza simili in ogni villaggio francese. La soule era un gioco antico e classico di cui bisognava conservare e trasmettere la tradizione: un muro, il limite di un campo, la porta di una chiesa, una riga tracciata per terra erano le mete da conquistare. Spesso uno stagno, in cui bisognava gettare o impedire che fosse gettata quella sorta di palla.

Una forma abbastanza simile di gioco del calcio si trova in epoca medievale anche in Inghilterra dove veniva praticata in due modi. Il primo, chiamato hurling at goal, consisteva nel gettare la palla in una porta ed era giocato entro uno spazio chiuso da due squadre composte ciascuna da un numero di giocatori variabile tra i trenta e i cinquanta. Il secondo, denominato hurling over country, veniva praticato in aperta campagna tra i giovani di due villaggi e aveva per obiettivo quello di far arrivare il pallone nel villaggio avversario. Così come in Francia, anche in Inghilterra ci troviamo in presenza di un modo di giocare la palla assai scarsamente regolamentato. Le poche regole di gioco, là dove ve ne erano, avevano specificità locali ed erano trasmesse oralmente di generazione in generazione, non vi era dunque nulla di scritto e non esistevano organi super partes che controllassero l'andamento del gioco.

Sono molte le testimonianze che confermano in cosa consistesse il divertimento e il fascino di questi folk games. Le cronache del tempo sono concordi nel tramandarci l'immagine di contese estremamente violente e pericolose. Prendiamo il caso dell'Inghilterra: in questo paese, le partite si svolgevano di solito nei periodi di festa, come Natale e Carnevale, oppure in occasione di fiere e sagre di paese. L'unico requisito che veniva richiesto ai giocatori che vi prendevano parte era di possedere forza bruta per i contrasti e una buona potenza di calcio, cosicché, non di rado, accadeva che l'accanimento prodigato dai contendenti sfociasse in mischie gigantesche che potevano talvolta prolungarsi per più giorni di seguito. Come racconta, per esempio, un cronista inglese, William Fitzstephen, in un opuscolo apparso durante il Carnevale del 1174 (citato in English historical documents1953, p. 960), lo spirito con cui la gioventù di Londra si dedicava a questo svago era caratterizzato a tal punto dalla brutalità e dalla più totale mancanza di rispetto per la proprietà e l'incolumità delle persone, che gli abitanti delle case vicine al luogo dell'incontro si vedevano spesso costretti a chiudere porte e finestre dei piani terreni. Per la verità, ciò non li tratteneva poi dal seguire le alterne fasi dell'incontro prudentemente al riparo dei piani superiori, da dove potevano sfogare il loro entusiasmo per i giocatori prediletti in tutta tranquillità. Non c'è da stupirsi, dunque, se le autorità pubbliche inglesi tentarono a più riprese di vietare questo gioco, in cui vedevano tra l'altro un pericoloso concorrente al tiro con l'arco, ritenuto un'attività molto più idonea a plasmare spiriti guerrieri.

Poeti e narratori nel corso dei secoli hanno descritto e illustrato l'esercizio fisico nei rispettivi linguaggi, coltivando diverse concezioni dell'atletismo, descrivendo tecniche e strategie di sfide e combattimenti, plasmando imprese e figure autentiche di campioni o creando eroi del tutto immaginari, investigando aspetti positivi e negativi della passione agonistica. La letteratura legata allo sport subisce nei secoli una costante metamorfosi, si trasforma seguendo i cambiamenti che investono varie attività atletiche, combattive e ludiche, risentendo congiuntamente delle mutazioni dei sistemi e dei modi della comunicazione, a seconda delle epoche e delle civiltà.

Un diverso modo d'intendere l'esercizio fisico e l'agonistica, a partire dalla fine dell'Ottocento e lungo il primo decennio del Novecento, affiora in maniera sparsa, non organizzata e programmata nell'opera di scrittori di varia formazione, lingua e cultura molti dei quali certamente 'non sportivi' ma in qualche modo attratti dalla nuova realtà rappresentata dagli sport moderni. Via via negli anni si elabora il processo di sviluppo del complesso e organizzato sistema dello sport che diviene parte integrante delle diverse sfere della società, sia pure con modalità non omogenee nei diversi contesti nazionali, e crescente appare l'interesse di scrittori e poeti verso il fenomeno sportivo. Il giornalismo sportivo e la stampa specializzata sono ai loro primordi: nuove forme di scrittura e un nuovo linguaggio iniziano ad affermarsi come strumenti di rappresentazione, di racconto e di commento di gare ed eventi sportivi, affiancandosi dunque alla poesia, alla narrativa, alla trattatistica le quali per secoli avevano illustrato caratteri e aspetti delle attività psico-fisiche, dell'educazione del corpo, del combattimento, del loisir.

Il legame stretto tra sport moderno e letteratura ‒ testimoniato dall'estesa produzione internazionale di argomento sportivo, da antologie di scritti in prosa e in poesia, e da numerosi repertori bibliografici ‒ è dunque frutto di un processo evolutivo sviluppatosi soprattutto lungo il Novecento. Oggi si può affermare che non vi siano discipline sportive, né aspetti, risvolti, avvenimenti, contorni e sfondi a esse collegati che non abbiano trovato espressione nella letteratura novecentesca la quale, con diversi gradi di maturità stilistica, ha offerto spazio alla piena complessità delle implicazioni sottese alla realtà e al fenomeno sociale dello sport, nonché alla sua essenza psicologica, emozionale, ideale.

Lo sport ha in effetti prodotto un genere letterario apparentemente classificabile come letteratura sportiva analogamente a quanto si fa per altre forme di produzione letteraria (la letteratura di viaggio, la letteratura fantastica, la letteratura poliziesca). Nel corso del Novecento è fiorita una produzione di studi, e soprattutto di antologie letterarie, entro la quale si è fatto ricorso a questa nozione di letteratura sportiva anche a proposito di opere e testi legati ad attività atletiche, combattive, ricreative e ludiche praticate nell'antichità greca e romana e nei secoli passati, epoca in cui tali attività possedevano caratteri e finalità precipui o erano fenomeni di costume assai diversi rispetto a quelli attuali.

Si ritiene che la prima gara sportiva di s. si sia disputata nel 1843 a Tromsø, in Norvegia. Proprio da questa nazione, considerata la patria dello s., tale sport cominciò a diffondersi nel resto d’Europa durante gli ultimi decenni del 19° secolo. In Italia, l’apparizione dello s. si ebbe intorno al 1896. Nel 1933 si ebbe la fusione della FIS (Federazione italiana sci) con le Federazioni degli sport del ghiaccio e il nuovo ente assunse l’attuale denominazione di Federazione italiana sport invernali (FISI).

Le gare di s. si dividono in prove nordiche e in prove alpine. 2.1 Prove nordiche. Le prove nordiche comprendono il fondo, il salto, la combinata nordica e il biathlon/">biathlon. Le gare di fondo si svolgono, a livello sia agonistico sia amatoriale, su piste con tratti pianeggianti, salite e moderate discese, preparate da apposita macchina battipista dotata di piastre per tracciare il cosiddetto binario, cioè due solchi tra loro paralleli nei quali scorrono gli sci. Due sono gli stili adottati. Nella tecnica classica (TC), che è vincolata all’esecuzione di determinati passi, le andature più utilizzate sono il passo alternato, il passo spinta, la scivolata spinta. Nella tecnica libera (TL), introdotta ufficialmente nel 1985, le andature più comuni sono il passo di pattinaggio con spinta (in piano o in salita), con doppia spinta, alternato, senza spinta. Attualmente le gare previste nelle principali competizioni internazionali sono: 10 km TC, 15 km TL, 30 km TC, 50 km TL, sprint (a squadre di due concorrenti), staffetta 4×10 km TC/TL (uomini) e 5 km TC, 10 km TL, 15 km TC, 30 km TL, sprint (a squadre di due concorrenti), staffetta 4×5 km TC/TL (donne).

La combinata nordica prevede una prova di salto dal trampolino (in genere K, cioè punto critico, 90 m) e una prova di fondo sulla distanza dei 15 km ( anche bia;thlon). 2.2 Prove alpine. Le prove alpine comprendono gare di discesa nelle specialità: discesa libera, slalom (speciale), slalom gigante, supergigante, slalom parallelo, combinata alpina, grande combinata alpina. Le gare di discesa libera si svolgono, in un’unica manche, su piste di lunghezza variabile (di solito, per gli uomini, attorno ai 3000 m) con un dislivello massimo di 1000 m (uomini) o di 700 m (donne). Lo slalom (speciale) è la prova tecnica per eccellenza, nella quale i concorrenti devono seguire un tracciato, meno ripido e delineato da una serie di porte, più strette e frequenti (55-75, per gli uomini). La gara si svolge in due manches, su percorsi diversi, e la classifica viene stilata in base alla somma dei tempi delle due prove portate a termine completamente, cioè con il passaggio attraverso tutte le porte. Lo slalom gigante si disputa, pure in due manches, su una distanza (per gli uomini) di 2500 m circa, mentre il supergigante (o superG) è una specialità intermedia tra la discesa libera e lo slalom gigante. Si disputa, in un’unica manche, su un tracciato con alternanza di curve larghe o medie, con un dislivello massimo di 650 m, superando un numero minimo di 35 porte. La combinata alpina prevede una classifica in base ai tempi e ai piazzamenti conseguiti in una prova di discesa libera e di slalom (speciale).

La maratona, più propriamente corsa di maratona, si disputa sulla distanza di 42,195 km. È una gara lunga e faticosa che mette a dura prova non solo tutte le capacità fisiche, ma anche la forza di volontà e l’impegno a superare i propri limiti. Negli ultimi anni si sono sviluppate le maratone di città e le cosiddette ultramaratone, su distanze molto più lunghe.

L’origine della maratona è legata alla storia della battaglia di Maratona: secondo la tradizione, nel 490 a.C. l’esercito persiano, sbarcato sulla costa greca per una spedizione contro Atene, si attestò a Maratona. Gli Ateniesi mandarono il messaggero Fidippide a chiedere aiuto a Sparta. Fidippide, un emerodròmos («colui che può correre per un giorno intero») capace di percorrere le lunghe distanze più velocemente di un cavallo, coprì i 237 km da Atene a Sparta in un giorno e mezzo.

Nel 1896 alle prime Olimpiadi moderne di Atene fu istituita, su suggerimento del filologo francese Michel Bréal, una corsa che ricordasse l’ultima impresa di Fidippide. Il percorso, ripristinato per l’occasione, misurava 40 km, dalla città di Maratona all’antico stadio di Atene. Nel 1908, in occasione delle Olimpiadi di Londra, il percorso fu allungato in modo che la linea di partenza fosse situata al castello di Windsor e il traguardo sotto la tribuna reale dello stadio di Londra. Da allora la distanza è rimasta invariata e fissata a 42,195 km.

Dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso si sono moltiplicate le maratone e le mezze maratone (21 km circa) di città, con un percorso lungo le strade di una città o da una città a un’altra. Sono aperte a tutti, atleti di alto livello, corridori della domenica, bambini e anziani, e si distinguono per un particolare clima festoso. La più celebre è senz’altro la maratonadi New York, che si svolge ogni prima domenica di ;novembre dal 1970. La popolarità della gara è tale (34.729 partecipanti nel 2003!) che gli organizzatori hanno istituito un sistema di sorteggio per limitare le iscrizioni.

Sport acquatico, derivante dal surfing; si effettua su una tavola, costruita in resina o, più modernamente, in vetroresina, della massa minima di 18 kg, di lunghezza variabile da m 3,60 a m 3,95, priva di timone e con una o più lamine di deriva, alla quale è fissata una grande vela triangolare, armata su un albero snodato, retto e controllato dall’atleta con il solo ausilio di un boma a forma di forcella, per sfruttare la spinta del vento. Le manovre principali sono virata e strambata.

Le gare, cui prendono parte i concorrenti suddivisi in categorie di peso (anche femminili), consistono ciascuna in più regate che si svolgono secondo il regolamento olimpico della vela; le competizioni nel 1984 sono state ammesse ufficialmente ai Giochi olimpici (dal 1996 la classe olimpica è il Mistral).

Alessandra Sensini è una velista italiana. Nel corso della carriera ha collezionato 42 vittorie nelle regate internazionali più importanti. Ha disputato 21 campionati del mondo nelle tre categorie giovanili, juniores e seniores, collezionando 11 ori, 5 argenti e 5 bronzi. Alle Olimpiadi, invece, ha vinto la medaglia d’oro a Sydney nel 2000, 1 argento a Pechino nel 2008 e 2 bronzi (Atlanta 1996 e Atene 2004). Ha partecipato a 9 campionati europei conquistando 5 ori, 3 argenti e 1 bronzo. Nei 20 campionati italiani disputati è sempre arrivata prima. 

Sin dall'antichità il cavallo ha occupato un posto privilegiato nella vita dell'uomo e, nel corso dei secoli, è stato impiegato in moltissime attività economiche e militari. L'equitazione è l'arte e la tecnica del cavalcare, cioè quell'insieme di nozioni tecniche e scientifiche che permette al cavaliere di mantenersi correttamente in sella, addestrare il cavallo e guidarne a piacimento i movimenti.

L'evoluzione delle tecniche di equitazione segue lo sviluppo dei mezzi utilizzati per sfruttare al meglio le capacità del cavallo e per aiutare il cavaliere a mantenersi in equilibrio su un animale molto emotivo, dalle reazioni spesso imprevedibili.

L'uso del morso, che serve a frenare e a dirigere il cavallo, risale all'Età del Bronzo; mentre lo sviluppo della sella in Occidente comincia in epoca romana. Il suo impiego può essere studiato anche sulla base delle raffigurazioni sui monumenti antichi. Le sculture della Colonna Traiana (113 d.C.) mostrano una gualdrappa apparentemente di stoffa leggera con piccoli rilievi che sostengono appena la coscia del cavaliere. Sull'Arco di Costantino (315 d.C.) al posto della gualdrappa si vede già una struttura rigida con imbottiture fortemente rilevate destinate a fissare la posizione delle gambe.

Con la diffusione in Europa delle staffe, tra 7° e 8° secolo, si completa la bardatura tipica della cavalleria medievale, che assicura al cavaliere, ricoperto da una pesante armatura e incassato in una sella profonda, la stabilità di assetto necessaria per lanciarsi poderosamente contro il nemico. A quell'epoca si usava una lancia molto lunga e pesante, da tenere sottobraccio e bilanciata su un gancio, detto resta, applicato alla corazza (da cui l'espressione 'lancia in resta' per indicare un cavaliere pronto all'attacco).