Le Parole Valgono

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L’approccio dantesco alla filosofia, intesa come riflessione dei pensatori pagani sulla morale, la struttura del reale e l’intelligenza umana, dunque disciplina autonoma rispetto alla teologia, è contrassegnato dalla voracità tipica dell’autodidatta, unita a quella che Freud avrebbe chiamato epistemofilia, ovvero la ricerca quasi ossessiva della verità. Noi moderni possiamo apprezzare l’evoluzione del pensiero dantesco proprio per le continue correzioni di tiro, un ripensamento dopo l’altro, in una sorta di dialettica interiore che si snoda dai ragionamenti sulla nobiltà e sulla natura di amore della produzione stilnovista fino ai sillogismi di Beatrice nella terza cantica del poema, passando per le distese trattazioni in prosa del Convivio, le discussioni etiche dell’Inferno e del Purgatorio e la filosofia politica della Monarchia. I temi fondamentali (l’immortalità dell’anima, il libero arbitrio, l’ordine materiale dell’universo, il funzionamento dell’intelletto) sono oggetto di un’analisi incessante, che non si accontenta del principio di autorità o di una lettura superficiale delle opere aristoteliche.

In quanto cristiano, Dante non può non subire influssi irrazionali di tipo neoplatonico nell’ascesa verso le sfere celesti: «in particolare, come più volte è avvenuto nell’evoluzione del pensiero cristiano, lo schema neoplatonico di derivazione dall'Uno, attraverso una serie, rigorosamente stabilita, d'intermediari, assume la funzione di garantire un ordine e una razionalità immutabile nella struttura dell'universo, correggendo la concezione, desumibile dal testo biblico, di una natura costantemente sospesa alla volontà del creatore, ove questa volontà è spesso intesa in senso antropomorfico» (Marta Cristiani). La numerologia si sostanzia di suggestioni pitagoriche, ma rimane nell’àmbito estetico, utile a fini persuasivi.

 

Immagine: <a href="https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Raffael_058.jpg">Raphael</a>, Public domain, via Wikimedia Commons 

« [...] essa è la luce etterna di Sigieri, che, leggendo nel Vico de li Strami, silogizzò invidiosi veri». (Paradiso, X, 136-138)

Filosofo del XIII secolo, ricordato da Dante nel passo di Pd X 136, nel gruppo degli spiriti sapienti.

I dati della sua giovinezza sono molto oscuri; e, in realtà, sappiamo soltanto che all'università di Parigi egli fece parte della ‛ Nazionale piccarda ', mentre è illazione del tutto ipotetica, anzi scarsamente fondata, che fosse discepolo di Alberto Magno. Più probabile è la supposizione che Sigieri diventasse ‛ maestro delle arti ' negli anni tra il 1264 e il 1267, benché la prima notizia documentata risalga soltanto al 26 agosto del 1266, quando egli viene indicato come fautore di tumulti e conflitti studenteschi. Comunque, anche queste date hanno un loro valore: perché ci dimostrano la presenza di S. a Parigi in un momento molto delicato della vita universitaria, allorché erano già largamente diffuse nella facoltà delle Arti quelle concezioni, ispirate non solo ad Averroè ma anche ad autori e scritti di tradizione neo-platonica (il Liber de causis, Avicenna, Proclo, ecc.), alle quali viene spesso impropriamente attribuita l'etichetta di ‛ averroismo latino '. Secondo una tradizione che sembra ben fondata e difficilmente contestabile, Sigieri sarebbe stato uno dei battaglieri sostenitori della tendenza più radicale dei ‛ maestri delle arti ', decisi ad accettare integralmente le dottrine aristotelico-averroistiche, la scienza di origine greco-araba e le novità sconvolgenti che essa portava nel tessuto dottrinale della tradizione scolastica, e a distinguere, nel modo più reciso, l'ambito dell'indagine filosofico-scientifica da quello proprio della teologia e dell'esegesi della verità rivelata. Di questa tendenza (che ebbe tra i suoi rappresentanti anche Boezio di Dacia, Berniero di Nivelles e Gosvino de la Chapelle) sono rimaste tracce indubbie ed evidenti nella polemica universitaria ed ecclesiastica di quegli anni; e si sa che ben presto cominciarono a correre sul conto di Sigieri e dei suoi amici accuse molto gravi e pericolose. Già infatti nel 1267 e '68 Bonaventura da Bagnoregio prendeva posizione contro le dottrine esposte nei commenti aristotelici di quei maestri; due anni dopo, alla vigilia del diretto intervento delle autorità ecclesiastiche parigine, anche Tommaso d'Aquino pubblicava il De Unitate intellectus contra averroistas, il cui principale bersaglio era probabilmente Sigieri. Infine, nello stesso anno 1270, il vescovo di Parigi, Stefano Tempier, condannava e vietava una serie di proposizioni filosofico-teologiche tra le quali alcune sostenute nei commenti e nelle lezioni dei maestri ‛ averroisti '. Nonostante la condanna, Sigieri (il cui nome peraltro non era indicato esplicitamente nelle polemiche e condanne parigine) continuò a insegnare con molto successo alla facoltà delle Arti, come testimoniano il celebre ‛ pubblicista ' e ‛ regalista ' Pierre Dubois e il maggior teorico della teocrazia, Egidio Romano, concordi nel riconoscere la sua autorità magistrale e l'acutezza e profondità del suo pensiero. Ma, certo, il rinnovarsi delle polemiche e degli attacchi (come quelli mossi ancora da Bonaventura, nelle Collationes in Hexaemeron, 1273) rese sempre più difficile la sua permanenza sulla cattedra parigina, minacciando addirittura l'autonomia delle facoltà delle Arti, sempre guardata con sospetto dai maestri della facoltà teologica. Non è qui possibile entrare nei particolari di un conflitto universitario che divise anche la stessa facoltà delle Arti e che, dietro forme e apparenze disciplinari e accademiche, celava, in realtà, l'urto più profondo di concezioni filosofiche ormai inconciliabili. Basterà quindi ricordare che, nonostante la sentenza di compromesso emanata il 7 maggio del 1275 dal legato pontificio Simone de Brion, la posizione di S. divenne presto insostenibile. Dové così lasciare Parigi e la sua cattedra in una data non precisabile, ma certo antecedente al 23 ottobre 1276, quando l'inquisitore di Francia, Simone du Val, lo citò a comparire, con la formula usata per gli assenti. Poco dopo, l'intervento dello stesso pontefice Giovanni XXI, portava, il 17 marzo 1277, alla solenne condanna da parte del vescovo Tempier e dell'università di Parigi di un gruppo più nutrito di tesi (nel quale, insieme a dottrine tipiche di S., figuravano però alcune proposizioni tomiste e concezioni di origine e significato assai diverso), con l'espresso divieto di sostenerle anche soltanto come ipotesi vere dal punto di vista della ragione, ma false dal punto di vista della fede. Anche questa condanna non nominava però esplicitamente S. né alcuno dei suoi amici o seguaci.

Dico adunque che anticamente in Italia, quasi dal principio de la costituzione di Roma, che fu [sette]cento cinquanta anni [innanzi], poco dal più al meno, che 'l Salvatore venisse, secondo che scrive Paulo Orosio, nel tempo quasi che Numa Pompilio, secondo re de li Romani, vivea uno filosofo nobilissimo, che si chiamò Pittagora. E che ello fosse in quel tempo, pare che ne tocchi alcuna cosa Tito Livio ne la prima parte del suo volume incidentemente. (Convivio, III, XI, 3)

La dottrina che caratterizza, più comunemente, la filosofia pitagorica è quella che considera il numero come essenza di tutte le cose, in quanto ogni aspetto del reale veniva ricondotto a una reciproca relazione o ‛ armonia ' di quantità numerabili (modello per eccellenza era ritenuta la concordanza dei suoni, la synphonia, realizzata nella musica attraverso intervalli matematici). Tutti i numeri, per i Pitagorici, erano suddivisi in due classi, dei pari e dei dispari (una terza era quella del parimpari, individuata nell'uno-monade). Pari e dispari formavano gli elementi universali dei numeri, e perciò delle cose. Il pari, rappresentato dal due, era considerato numero aperto e come tale illimitato; il dispari, simbolizzato dal tre, era considerato numero perfetto, limitato e in sé concluso. Connessa a questa opposizione fondamentale è la determinazione di dieci coppie di contrari che individuavano due serie di proprietà opposte costituenti il reale. Sotto il dispari-limitato cadevano le determinazioni positive e perfette, sotto il pari-illimitato quelle negative e impefette. In genere, l'antitesi limitato-illimitato veniva assimilata a quella bene-male.

Alla dottrina del numero e alla cosmologia pitagorica D. fa in più luoghi riferimento. In Cv II XIII 17-18 è detto: li principi delle cose naturali... sono tre, cioè materia, privazione e forma, ne li quali si vede questo numero. Non solamente in tutti insieme, ma ancora in ciascuno è numero, chi ben considera sottilmente; per che Pittagora, secondo che dice Aristotile nel primo de la Fisica, poneva li principi de le cose naturali lo pari e lo dispari, considerando tutte le cose esser numero. A meno che non debba leggersi nel primo de la [Meta] fisica (nel qual caso si tratterebbe di Metaph. I 5) resta il fatto che il rinvio alla Physica è in realtà senza preciso riscontro; nel I libro di essa Aristotele non parla mai di P. e fa solo un accenno a quelli che considerano come principi i contrari e, tra questi, alcuni ritengono il pari e il dispari (I 5, 188b 34). Molto probabile è il ricorso a un commento esplicativo; si veda quanto dice ad locum Tommaso (I lect. X): " Aliqui posuerunt principia parem et imparem, scilicet Pythagorici, existimantes substantias omnium esse numeros, et quod omnia componantur ex pari et impari " (v. anche Alb. Magno Phys. I III 2).

In ogni caso, l'interpretazione del passo resta ardua. La voluta oscurità di D. non chiarisce se il rinvio a P. è una semplice conferma per auctoritatem che i principi naturali, nel loro insieme e separatamente, hanno in sé ragione di numero o se è, piuttosto, una giustificazione dello schema ternario di materia, privazione e forma, sulla base dello schema binario pitagorico (pari-impari) da cui dovrebbe, per qualche ‛ sottile ' considerazione, derivare.

Averoìs che 'l gran comento feo (Inferno, IV, 144)

Con questo termine, non del tutto proprio, si suole indicare quella corrente o tendenza del pensiero filosofico occidentale dei secoli XIII e XIV che, in sede di interpretazione dei testi aristotelici, si richiamò ai commenti di Averroè (v.), accettandone esplicitamente anche quelle conclusioni - soprattutto il principio dell'eternità del mondo e la concezione dell'intelletto possibile (v.) unico e separato per tutta la specie umana - che sembravano contrastare con alcuni motivi fondamentali della tradizione religiosa e teologica cristiana.

Com'è noto, i commenti averroistici cominciarono a essere conosciuti in Occidente solo dopo il 1212, per mezzo della versione latina di Michele Scoto, astrologo e filosofo che operava alla corte di Federico II di Svevia. Tali versioni si diffusero abbastanza presto nei grandi centri universitari, come Bologna, Padova e Parigi; e anzi, secondo la testimonianza di Ruggero Bacone, i commenti averroistici sarebbero stati diffusi a Parigi già intorno al 1230, incontrando notevole interesse da parte dei professori e dei maestri specialmente della facoltà delle Arti. È difficile dire quando alla diffusione di questi testi e al loro uso nei vari corsi universitari seguì lo sviluppo di un atteggiamento filosofico che non si limitava soltanto a sottolineare, come Alberto Magno, la distinzione tra l'esercizio della filosofia e la spiegazione teologica, ma accettava proprio quei motivi averroistici capaci di accentuare il netto distacco tra l'orizzonte speculativo della dottrina aristotelica e i principi essenziali delle verità di fede. È probabile però che tale tendenza si manifestasse e maturasse poco dopo il 1260, se nel 1267 Bonaventura da Bagnoregio poteva già attaccare duramente gli averroisti. Nel 1270, poi, il vescovo di Parigi Stefano Tempier condannava esplicitamente quindici tesi sostenute da alcuni maestri parigini, alcune delle quali (unità dell'intelletto possibile, negazione del libero arbitrio, eternità del mondo, determinismo astrologico, mortalità dell'anima individuale) possono essere ricondotte all'influenza del commento averroista. Nello stesso anno il maestro domenicano Egidio di Lessines scriveva ad Alberto Magno comunicandogli quindici proposizioni di tal genere insegnate " dai più eminenti maestri delle scuole parigine " e invitandolo a confutarle. Alberto, che aveva già discusso gli " errori teologici " di Averroè, si affrettò appunto a scrivere il De Quindecim problematibus ove prendeva risolutamente posizione contro queste dottrine e i loro sostenitori, mentre Tommaso d'Aquino scriveva contemporaneamente l'opuscolo De Unitate intellectus contra averroistas, dove la critica alle concezioni sostenute dagli averroisti è evidentemente dominata dalla preoccupazione di ben distinguere l'uso lecito dei testi aristotelici dalle conclusioni affermate dai maestri eterodossi. Tra costoro il più eminente, o almeno quello che i contemporanei considerarono come l'esponente più tipico di questa tendenza, era appunto Sigieri di Brabante (v.) che, insieme a Boezio di Dacia e Berniero di Nivelles, dovè essere al centro delle polemiche filosofiche e universitarie di questi anni.

Il concetto di filosofia in Dante. Per filosofia, ai tempi di Dante, s'intendeva tutto l'ambito del sapere compreso nelle opere di Aristotele, il Filosofo per antonomasia. Anzi, negli ultimi secoli del Medioevo, essa aveva acquistato il significato di " sapere profano " in contrapposizione alla teologia. Dante ne dà l'etimo: amistanza a sapienza, o vero a sapere (Cv III XI 6; cfr. anche XI 1 e 9 [2 volte], XII 12, IV II 18), facendo risalire l'origine del vocabolo ‛ filosofo ', dal quale derivò quello di filosofia , a Pitagora; prima di quest'ultimo, afferma D., i seguitatori di scienza si denominavano non filosofi ma sapienti (§ 4), mentre Pitagora disse sé essere non sapiente, ma amatore di sapienza (§ 5, e cfr. anche Il XV 12), sicché filosofia è nome non d'arroganza ma d'umilitade (III XI 5; l'origine del vocabolo f. era stata trasmessa, in questi termini, da s. Agostino a tutto il Medioevo). Completando la definizione, Dante afferma che la filosofia , fuori d'anima, in sé considerata [cioè, senza riferimento a chi la possiede], ha per subietto lo 'ntendere, e per forma uno quasi divino amore a lo 'ntelletto, che sua cagione efficiente è la verità e fine... quella eccellentissima dilezione che non pate alcuna intermissione, o vero difetto, cioè vera felicitade che per contemplazione de la veritade s'acquista (§§ 13-14; cfr. anche XIII 10, XIV 1-2, IV XXX 5). Inoltre, il nome di filosofia, così come, per alcuno fervore d'animo, talvolta l'uno e l'altro termine de li atti e de le passioni si chiamano e per lo vocabulo de l'atto medesimo e de la passione, si suole estendere alle scienze (le quali tutte sono membra di sapienza, aveva detto D. in Cv III XI 9), ma specialmente a quelle verso le quali più spesso la f. termina la sua vista... come la Scienza Naturale, la Morale, e la Metafisica, la quale, perché più necessariamente in quella termina lo suo viso e con più fervore, [Prima] Filosofia è chiamata, così che le scienze sono denominate secondamente f. (III XI 16-17; cfr. anche § 18).

Questi che m’è a destra più vicino, frate e maestro fummi, ed esso Alberto è di Cologna, e io Thomas d’Aquino. (Paradiso, X, 97-99)

Filosofo (nato a Lauingen tra il 1193 e il 1206; morto a Colonia nel 1280); studiò a Padova, dove si fece domenicano nel 1223. Negli anni 1228 e seguenti insegnò a Colonia, a Hildesheim, a Friburgo, a Ratisbona e a Strasburgo. Nel 1245 tenne corsi a Parigi, dove ottenne il grado di maestro in teologia, restandovi sino al 1248, quando tornò a Colonia per dirigere il nuovo ‛ Studium generale '. A Parigi, forse, e a Colonia, di certo, ebbe s. Tommaso tra i suoi discepoli (Dante mostra di conoscere questo rapporto: cfr. Pd X 97-99).

Il fatto che Dante ebbe conoscenza diretta dei libri di A. rende probabile l'ipotesi di una derivazione albertina di molte dossografie dantesche, in special modo di quelle che si rispecchiano solo in A., oppure in A. e in altri autori ignoti all'Alighieri (il che sembra valere, ad es., per la giustificazione neoplatonica della nona sfera in Cv II III 5: vedi oltre), e di quelle che rivelano un contesto o un colorito dottrinario (per esempio neoplatonico) comune al poeta fiorentino e ai testi albertini che egli lesse (il che sembra valere, ad es., per la dottrina del luogo proprio [Cv III III 2-5], rispetto al De Natura locorum di A.; cfr. B.Nardi, Nel mondo di D., p. 77).

De la quale induzione, quanto a la prima perfezione, cioè de la generazione sustanziale, tutti li filosofi concordano che li cieli siano cagione, avvegna che diversamente questo pongano: quali da li motori, sì come Plato, Avicenna e Algazel. (Convivio, II, XIII, 5)

Giurista, filosofo, teologo, riformatore e mistico, nato a Tūs, nel Kurāsān (Iran) circa nel 1058; il suo nome arabo è al-Ghazālī Abū Hāmid Muhammad b. Muhammad al Tūsī.

Dante lo ricorda in Cv II XIII 5 De la quale induzione, quanto a la prima perfezione, cioè de la generazione sustanziale, tutti li filosofi concordano che li cieli siano cagione, avvegna che diversamente questo pongano: quali da li motori, sì come Plato, Avicenna e Algazel, e ancora in IV XXI 2 Veramente per diversi filosofi de la differenza de le nostre anime fue diversamente ragionato: ché Avicenna e Algazel volsero che esse da loro e per loro principio fossero nobili e vili. Entrambi i passi, che riguardano l'opinione dei filosofi sull'origine e la nobilità delle anime, come il Nardi ha dimostrato con una serie di raffronti testuali, giungono a Dante per il tramite di Alberto Magno (Somn. et vigil. III I 6). e non da una lettura diretta del testo.

Oltre a queste citazioni, dove Dante  si rifà direttamente all'autorità di Algazel e Avicenna, il Nardi pone in rilievo anche alcune coincidenze sostanziali tra il pensiero di Dante  e quello di Algazel per quanto riguarda la dottrina del sogno divinatorio (If XXVI 7, Pg XVIII 13-18, IX 16-18, Cv II VIII 13) che, per Dante  e per gli autori a cui si rifaceva, avviene quando l'anima è più libera dalle impressioni dei sensi esterni, cioè sia nello stato di veglia che in quello di sonno; anche queste coincidenze, sottolinea il Nardi, giungevano da lgazel  a Dante  tramite Pietro d'Abano e Alberto Magno.

Ciascuna forma sustanziale procede da la sua prima cagione, la quale è Iddio, sì come nel libro Di Cagioni è scritto, e non ricevono diversitade per quella, che è semplicissima, ma per le secondarie cagioni e per la materia in che discende. (Convivio III, II, 4)

Il De C. è un piccolo trattato scritto in arabo verso la metà del sec. XII dal giudeo Avendauth (Ibn Daoud), secondo le ultime indagini di A. Pattin (Le " Liber de c. ". Édition établie à l'aide de 90 manuscrits avec introduction et notes, in " Tijdschrift voor filosofie " XXVIII [1966] 92-98). Fu composto con l'utilizzazione degli Elementi di teologia di Proclo, principale sostenitore dell'emanatismo neoplatonico. Pertanto insegna, tra l'altro, che le cause intermedie producono le inferiori " dal niente di sé e del soggetto ". Tradotto in latino da Gerardo da Cremona nella seconda metà del sec. XII, si diffuse principalmente con il titolo Liber de causis. Attribuito per un certo tempo ad Aristotele, continuò a godere di grande autorità presso gli scolastici anche quando venne scoperto apocrifo e anche presso quelli che, come s. Tommaso, erano più contrari al neoplatonismo. Era libro di testo nella facoltà delle Arti per l'insegnamento della metafisica (cfr. F. Van Steenberghen, Siger de Brabant d'après ses oeuvres inédites, II, Siger dans l'histoire de l'aristotelisme, Lovanio 1942, 417). Fu commentato da Alberto Magno, Tommaso d'Aquino, Egidio Romano e parecchi altri scolastici (cfr. Pattin, art. cit., pp. 122-130).

Secondo R. Murari (in " Giorn. stor. " XXXIV [1899] 107), D. avrebbe studiato direttamente il De C.; secondo G. Salvadori (Sulla vita giovanile di D., Roma 1906, 206) lo avrebbe studiato sul commento di Alberto Magno; secondo il Busnelli (op. cit. I 459 e 464-465, II 591) lo avrebbe studiato sul commento di s. Tommaso; secondo M. Barbi (Introduzione a Busnelli, op. cit., I, p. L) " è difficile pensare che Dante l'abbia conosciuto fuor dei commenti e delle correzioni che ne fecero e Alberto Magno e Tommaso d'Aquino ". Invece secondo Nardi (Saggi, cit., p. 84) " la maggior parte dei riferimenti danteschi riguardano... passi del De causis che sono fra quelli più comunemente sfruttati [nei trattati filosofici e teologici del sec. XIII e XIV]. Cosicché è ben difficile stabilire con qualche probabilità, se Dante conoscesse direttamente l'opera, ovvero derivasse le sue citazioni da altri autori da lui letti. Ancor meno probabile è ch'egli conoscesse il commento tomistico; non così forse quello albertino ".

 

Immagine: Biblioteca Nazionale Marciana, Public domain, via Wikimedia Commons

Esce di mano a lui che la vagheggia [...] l'anima semplicetta che sa nulla (Purgatorio, XVI, 85-88)

Medico e filosofo persiano nato nel 980 (370 egira) presso Buchara, morto ad Hamadān nel 1037 (428 egira). Scrisse alcune opere in persiano e altre, le principali, in arabo.

E' interessante vedere se e fino a qual punto Dante, senza riferirsi esplicitamente ad Avicenna, ha conosciuto e ha seguito, o meno, dottrine di ispirazione avicenniana. Lo studioso che in Italia ha messo in luce rapporti di questo genere tra Dante e Avicenna è stato Bruno Nardi, e ne ha trattato specialmente nei saggi del volume Dante e la cultura medievale, Bari 19492. Nell'ultimo luogo del Convivio dianzi citato, Dante riferisce la sua opinione circa l'origine dell'anima umana, argomento trattato ugualmente in Pg XXV 37-75: nel seme maschile, che non ha propriamente un'anima, l'anima del generante produce una virtù formativa, destinata a sviluppare e ‛ formare ', una volta unitosi il seme alla materia preparata dalla madre, dapprima un'anima vegetativa e poi un'anima sensitiva, conducendo tali anime dallo stato di potenzialità in cui si trovavano nella materia, sia materna che paterna, allo stato di attualità, concorrendo con la virtù formativa, per la produzione dell'anima sensitiva, una virtù o calore proveniente dalle costellazioni celesti, e una virtù derivante dalla diversa ‛ complessione ', o combinazione, dei quattro elementi da cui il seme è costituito. Una volta in atto l'anima sensitiva, non potendosi trovare altro di più perfetto nella potenzialità della materia, una tale anima riceve da la vertù del motore del cielo lo intelletto possibile; lo quale potenzialmente in sé adduce tutte le forme universali, secondo che sono nel suo produttore, e tanto meno quanto più dilungato da la prima Intelligenza è (Cv IV XXI 5). Una tale dottrina è sostanzialmente comune ad Aristotele (Gen. anim. II 3), ad Avicenna (Animal. XVI 1), e a s. Tommaso (Sum. theol. I 118 1: rimane dubbia la precisazione se la virtù formativa sia essa stessa che diventa dapprima anima vegetativa e, divenuta sensitiva, le sia aggiunto, da parte di Dio, l'intelletto possibile (Anima fatta la virtute attiva, Pg XXV 52; l'anima in vita... riceve... lo intelletto possibile, Cv IV XXI 5), interpretazione aristotelica di Avicenna e di Dante secondo il Nardi, oppure se sia soltanto strumento del succedersi delle anime vegetativa, sensitiva e intellettiva (spirito novo... / ciò che trova... tira / in sua sustanzia, e falsi un'alma sola, / che vive e sente e sé in sé rigira, Pg XXV 72-75), interpretazione di s. Tommaso secondo il Busnelli. Aristotele, inoltre, chiama ciò che viene dal di fuori (θύραθεν), intelletto (νου̃σ); s. Tommaso parla di anima intellettiva; l'espressione intelletto possibile (v.) adoperata da D., allude evidentemente alla distinzione aristotelica tra intelletto possibile e intelletto agente, ma qui è un'eco delle interpretazioni arabe di tali intelletti.

 

Immagine: Guarda la pagina per l'autore, CC BY 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/4.0>, attraverso Wikimedia Commons

E non ha contradizione perchè alcuno litterato sia di quelli; chè, sì come dice il mio maestro Aristotile nel primo de l'Etica, «una rondine non fa primavera». (Convivio I, IX, 9)

Le opere di Aristotele (che tranne alcune tradotte in latino da Boezio, vennero tradotte in arabo e in siriaco, rimanendo così sconosciute al Medioevo latino fin quasi al Duecento) nel giro di un secolo circa (tra il XII e il XIII) vennero di nuovo tradotte in latino dal greco e dall'arabo, insieme con alcune parafrasi e commenti (primi per importanza quelli di Averroè tradotti in prevalenza da Michele Scoto). Esse erano divenute, attorno alla metà del XIII secolo, i testi fondamentali e pressoché unici su cui si insegnava la filosofia nelle facoltà delle Arti: anche a Parigi, ove la ‛ lettura ', cioè la spiegazione scolastica degli scritti di Aristotele era stata proibita nel 1210 e nel 1215, questi ebbero egualmente diffusione fino ad essere assunti come libri di testo nello statuto dello Studio parigino del 1255. Sicché l'aristotelismo, dalla metà del secolo, viene a costituire la ‛ filosofia ' per eccellenza e unica, cui tutti i maestri fanno riferimento, anche se per alcuni punti più controversi (ove più netto appariva il contrasto tra aristotelismo e tradizione teologica) se ne davano diverse interpretazioni: diverse in rapporto sia al prevalere dell'interpretazione avicennistica o averroistica, sia ai tentativi di concordia con le auctoritates della tradizione scolastica. Così nella prima metà del secolo XIII l'aristotelismo, penetrato soprattutto con certe accentuazioni platoneggianti date dalle parafrasi di Avicenna, trova negli ambienti agostiniani un meno difficile inserimento, dando origine a quella corrente avicennistico - agostiniana in cui dottrine aristoteliche sembravano potersi saldare con dottrine agostiniane nel comune fondo platonizzante dell'interpretazione di Avicenna. D'altra parte una più complessa, spesso eterogenea, interpretazione di Aristotele si aveva con Alberto Magno che nelle sue parafrasi aristoteliche utilizzava ampiamente fonti greche e arabe, spesso in polemica coi tentativi di concordismo teologico promossi da altri ‛ dottori latini ': Alberto Magno è senza dubbio uno dei veicoli più importanti della diffusione dell'aristotelismo e di certe sue interpretazioni così platoniche come averroistiche. Una più coerente e unitaria interpretazione di Aristotele si sforzarono di dare gli averroisti che, sulla scorta del commentatore di Cordova ( le cui dottrine cominciarono a essere conosciute e discusse poco dopo la metà del secolo) si proponevano di presentare una filosofia aristotelica che fosse scevra da preoccupazioni di concordismo teologico, affermando la legittimità di esporre l'insegnamento di A. anche quando dovevano constatarne il contrasto con gl'insegnamenti teologici. Ancora, diverso l'insegnamento di Tommaso d'Aquino che, se per un lato si proponeva anch'egli di recuperare il ‛ vero ' Aristotele, dall'altro si sforzava di mostrarne la concordia con la dottrina cristiana e ne tentava anzi l'utilizzazione a fini apologetici e anche nell'ambito del discorso teologico. Assai più cauto in genere fu l'atteggiamento degli agostiniani che, pur accettando l'aristotelismo per alcune generali strutture, non si stancarono di indicarne i limiti ‛ mondani ' e i contrasti con la tradizione teologica.

L'affermazione dell'aristotelismo non fu senza contrasti e polemiche: anche cessata l'eco delle condanne parigine dell'inizio del secolo, i sempre maggiori progressi dell'aristotelismo averroistico e alcune tesi dell'aristotelismo che Tommaso d'Aquino aveva promulgato suscitarono conflitti vivacissimi e condanne precise: notevoli gli accenti polemici nelle opere degli agostiniani intorno al 1270 e dopo, come pure le condanne parigine di tesi peripatetiche nel 1270 e nel 1277.

Tutti lo miran, tutti onor li fanno: quivi vid’ïo Socrate e Platone, che ’nnanzi a li altri più presso li stanno; (Inferno, IV, 133-135)

L'apporto determinante del platonismo e del neoplatonismo alla cultura medievale è dovuto soprattutto alle due grandi correnti della tradizione patristica (greca e latina) e della filosofia araba, in cui p. e aristotelismo sono spesso inestricabilmente connessi: si aggiunga, evidentemente, la grande diffusione del Timeo (v.) nella fortunata traduzione di Calcidio, con il relativo commento. Per quanto riguarda la tradizione cristiana, non c'è dubbio che essa abbia trovato fin dall'inizio nel p. uno strumento per tradurre le nuove esigenze religiose nel linguaggio della cultura ellenistica (il procedimento analogo di Filone nei confronti della tradizione giudaica è, sotto questo punto di vista, determinante). D'ispirazione platonica risulta, in primo luogo, una nozione di filosofia come ricerca del fine ultimo dell'esistenza, facilmente identificabile con il cristianesimo (cfr. alcuni, fra i numerosissimi esempi, in Clemente Aless. Strom. II 5; Gregorio di Nissa Oratio catech. XVIII; Agost. Civ. VIII 8). A questo principio s'ispirerà la grande tradizione platonico-agostiniana del Medioevo, che trova in Bonaventura uno degl'interpreti più felici.

Dante ritrova tuttavia l'originaria intuizione neoplatonica, che localizza la realtà sensibile all'interno della mente da cui è generata e definita nelle sue strutture: Questo è lo soprano edificio del mondo, nel quale tutto lo mondo s'inchiude, e di fuori dal quale nulla è; ed esso non è in luogo, ma formato fu solo ne la prima Mente, la quale i Greci dicono Protonoè (Cv II III 11). Più vicini ancora a questa intuizione i versi ispirati del poema: E questo cielo non ha altro dove / che la mente divina, in che s'accende / l'amor che 'l volge e la virtù ch'ei piove. / Luce e amor d'un cerchio lui comprende, / sì come questo li altri; e quel precinto / colui che 'l cinge solamente intende (Pd XXVII 109-114; cfr. Ep XIII 67 ss.; a proposito degli ultimi versi si potrebbe opportunamente richiamare una fra le soluzioni neoplatoniche più originali, e meno note, al problema del luogo, formulata da Scoto Eriugena, sulla scorta di Massimo il Confessore, ove la nozione di luogo è decisamente risolta nella nozione di attività dell'intelletto, che definisce, comprende e quindi localizza le cose).