Il citato passo di Paradiso XXVI 124-138 dimostra che verosimilmente le ricerche condotte sulla letteratura patristica indussero Dante a maturare il suo pensiero dopo il De vulgari Eloquentia e a presentare qui la nuova dottrina, la quale, del resto, è ispirata al concetto d’ordine generale affermato nel trattato (I IX 6), e cioè che tutto ciò che è umano è transeunte e mortale. La differenza più sensibile tra la posizione dichiarata nel De vulgari Eloquentia e quella successiva del poema consiste in questo: nel trattato latino la lingua è fatta da Dio ed è concreata con l’anima “quanto ai vocaboli coi quali eran designate le cose, quanto alla costruzione delle parole e perfino quanto al modo di proferire il discorso” (Nardi, cit.), e tale doveva mantenersi sempre, prima e dopo la torre di Babele; nel poema, invece, la lingua parlata da Adamo era creazione sua, cioè opera naturale, e quindi come tale soggetta alla legge della mutabilità. La prima negazione riguarda la durata della lingua parlata da Adamo; essa viene dichiarata spenta prima dell’edificazione della torre di Babele; ne consegue una chiara affermazione di principio (la lingua come atto e fatto naturale) che rende ragione del tono perentorio dell’attacco iniziale e al tempo stesso introduce il citato concetto della mutabilità delle cose umane, inserendovi, per altro, una connotazione sulla libera scelta affidata anche in questo campo all’uomo, non senza un apprezzamento qualitativo di rilievo non meramente estetico o stilistico. Questa affermazione, nella convenienza del contesto paradisiaco, concorda ancora nell’assunzione, come termine esplicativo, del nome di Dio per dare ragione e prova della legge di variazione enunciata. Il motivo stesso è metaforicamente ribadito mediante l’analogia della fronda e del ramo […]
«Nell’ampia premessa sulla natura, genesi e storia del linguaggio che occupa, con gusto enciclopedico ed eziologico tipicamente medievale, la parte iniziale del De vulgari Eloquentia, ha un posto importante il tema del primiloquium, cui sono dedicati tre capitoli (I IV-VI). La tesi che il primo parlante sia stato A. è metodologicamente importante perché comporta, nel ragionamento di Dante, un’esplicita smentita da parte della ragione (verosimilmente basata sulle nozioni correnti della maggior peccaminosità di Eva rispetto ad Adamo e in genere dell’infermità razionale delle donne) a un passo della Scrittura (Gen. 3, 2-3), letteralmente citato in VE I IV 2, stando al quale le prime parole sarebbero state quelle pronunciate da Eva in risposta al serpente […] Quanto alla natura e origine della lingua adamitica, Dante è esplicito: dicimus certam formam locutionis a Deo cum anima prima concreatam fuisse (VE I VI 4: ‘forma concreata’ è tipica formula tomistica). Cioè, parafrasando col Terracini, Dante intende dire che “con Adamo Dio ha creato addirittura la struttura del linguaggio, il che è assai più determinante di una semplice facoltà di esprimersi per mezzo della parola”: e ciò in contrasto con le vedute nettamente prevalenti (anche se per lo più suggerite, piuttosto che formulate chiaramente) nella filosofia scolastica, secondo cui il linguaggio era stato insomma creazione adamitica, sulla base della concessione della facoltà di parlare da parte di Dio (e v. Gen. 2, 19-20)