Le tre fiere del primo canto dell’Inferno incarnano gli impulsi maligni che alimentano tutti i peccati: la lonza, infatti, rappresenta la lussuria (per cui si rinvia al numero precedente della rubrica), ovvero le seduzioni del mondo, alle quali soggiace l’anima sensitiva, sotto l’influsso di Marte e Venere (vis irascibilis e concupiscibilis); il leone è allegoria della superbia, non punita come peccato specifico nell’abisso infernale, ma ben presente nei vari gironi, sia come eccessiva confidenza nelle proprie capacità intellettuali (Ulisse) sia come sfida blasfema al Creatore (Vanni Fucci, Capaneo); la lupa richiama la cupiditas, che va ben oltre la mera avarizia (o il suo opposto, la prodigalità, in quanto desiderio smodato di denaro da scialacquare) e costituisce il movente di molti peccati (ad es., la simonia).
Se è vero che Dante ammette per sé stesso la tendenza alla superbia (Pg 13.136-138), nondimeno non riesce a concepirla come un peccato specifico degno del castigo eterno, a differenza della lussuria e dell’avarizia. Eppure, a ben vedere, la superbia sottende la ribellione dello stesso Lucifero, ricordato con un giudizio non tanto dissimile da quello che Beatrice riserva a Dante:
S’el fu sì bel com’elli è ora brutto,
e contra ’l suo fattore alzò le ciglia,
ben dee da lui procedere ogne lutto» (If 34.34-36)
Considerato anche il peccato originale, si può dire che nelle Sacre Scritture tutti i peccati discendono dalla superbia.
Mentre il purgatorio può essere strutturato secondo i sette vizi capitali, l’inferno richiede, data l’eternità della condanna, una maggiore attenzione per gli effetti della condotta viziosa. In base all’ordinamento etico esposto da Virgilio nell’undicesimo canto dell’Inferno, se è ovvio che l’incontenenza riguarda quattro cerchi (dal secondo al quinto), gli esegeti hanno discusso sul senso della malizia e della matta bestialitade dei vv. 82-83: l’invettiva di If 32.13-15 depone a favore dell’inclusione dei traditori (Caina, Antenora, Tolomea e Giudecca) nella categoria della bestialità, in quanto la frode contro chi si fida infrange il patto fondativo della convivenza umana; dunque la malizia sembra riferirsi agli altri peccati compiuti con deliberata intenzione (sesto, settimo e ottavo cerchio).
Come per i vizi, così per le virtù il sistema dantesco rielabora in modo originale la tradizione aristotelica e le varie formulazioni dell’etica cristiana. Tra le virtù di Beatrice, già nella Vita Nova, spicca l’umiltà, intesa come interiore benevolenza di chi riconosce sé stesso come amorevole servo del Signore. Alla fine del canto dei superbi Dante-personaggio sente cantare Beati pauperes spiritu, la prima delle beatitudini evangeliche, chiave di volta del percorso di redenzione.
Agli antipodi della lussuria, la carità costituisce la suprema sublimazione dell’Amore della lirica cortese, come si precisa nella risposta a san Giovanni, in cui il mar de l’amor torto (Pd 26.62) si contrappone alla riva del diritto (63).
Ogni sentenza ultraterrena (pene, penitenze e premi) trova la sua giustificazione preliminare nella dottrina del libero arbitrio, che discende da un dogma di fede: poiché l’intelletto possibile è infuso nel feto direttamente da Dio, non solo è immortale, ma è anche dotato di una virtù deliberativa libera da condizionamenti meccanicistici. Né gli influssi delle stelle né altri fattori materiali possono annullare la libertà dell’essere umano, che può indirizzare l’appetito a buon fine, secondo «lo fedele consiglio de la ragione» (VN 2.9 [numerazione Barbi]). Ciò in contrasto con quanto asserito dai sostenitori dell’averroismo latino (incluso Sigieri di Brabante), per i quali l’agire umano è libero solo quando la volontà si muove «ex iudicio rationis»; il che porterebbe a confermare il paradosso socratico secondo cui nessuno compie il male volontariamente.