Già lungo spazio veggio
pender su ’l capo mio l’acuta punta
di così ingiusto ferro.
E quasi peregrin, ch’al far de l’alba
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si consigli lasciar notturno albergo,
fra le tenebre ancor s’adatta e veste
il duro piede et a l’incurve spalle
impone il picciol fascio, ove ravolte
porta le sue fortune, indi, ripresa
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la sua compagna verga, solo attende
che s’apra l’oriente; tale anch’io,
ne la notte acerbissima et indegna
de le sventure mie, solo aspettando
al mio estremo camin l’ora prescritta,
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di sofferenza l’anima vestita,
e posto il fascio dei miei gravi errori
sovra gli omeri amici di chi volse
sopra sé tôrlo, con la verga forte
de la speranza nata in mezzo al mare
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d’infinita pietade, apparecchiato
ho ’l piede al duro passo che m’ascrivi.
Ma perché orrido è troppo e dubbio ’l varco,
e più falle chi più vi s’assicura,
qualche spazio maggior chiamo al viaggio;
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non s’allunghi la vita, ma s’allunghi
il tempo di pensar come son vissa,
o come ho da morire.
Lieve grazia dimando, e nulla toglie
a chi darla mi può. Piangan questi occhi,
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un altro sole ancor, le colpe mie;
e la testa infelice, che mi chiami,
sia poi mercé de la mercé ch’io chiedo.
Già da lungo tempo vedo incombere sulla mia testa la punta acuminata di una spada tanto ingiusta. E come un pellegrino che allo spuntare dell’alba si decide a lasciare il riparo notturno ancora nel buio si sistema (le vesti) e riveste (con le scarpe) il piede indurito (dalla fatica), e si pone sulle spalle il piccolo involto in cui porta tutto ciò che possiede; e poi, ripreso il bastone che gli è compagno, attende soltanto che si schiarisca il cielo a oriente; così anch’io, nella notte crudelissima e non degna delle mie sventure, aspettando soltanto l’ora stabilita per il mio viaggio estremo, con l’anima vestita di sofferenza e dopo aver posto il fascio dei miei gravi peccati sulle spalle amichevoli di Colui (Gesù) che volle prenderlo su di sé, con il bastone robusto della speranza, nata in mezzo al mare della (tua) infinita pietà, ho il piede pronto a muovere il doloroso passo che tu mi prescrivi. Ma poiché il passaggio è troppo spaventoso e incerto, e maggiormente s’inganna chi è sicuro (di salvarsi), ti richiedo per il viaggio un po’ di tempo (in più); non per allungarmi la vita, ma per allungarmi il tempo di pensare a come sono vissuta e a come devo morire. Domando un lieve favore, e che non toglie nulla a chi me lo può concedere. Questi (miei) occhi possano piangere le mie colpe ancora per un altro giorno; e la mia testa infelice, che tu mi chiedi, sia poi la ricompensa della grazia che sto chiedendo a te.
Il soliloquio di Maria Stuarda, nella terza scena del quarto atto della Reina di Scotia, è dominato dall’attesa della morte, che le è stata annunciata dal conte di Cumberland, inviato dalla regina Elisabetta I d’Inghilterra a comunicarle la sentenza, e al quale lei si rivolge. Sono parole dolenti ma nobili e coraggiose, nella loro calma rattenuta: sicure nell’accettazione della volontà divina e del proprio destino, ma lievemente vaneggianti sia nella similitudine, simmetrica in tutti i particolari (il fardello, il bastone), tra la partenza del pellegrino e la propria dipartita, sia nella richiesta di un piccolo rinvio dell’esecuzione che le consenta di meditare sulla propria vita e sulla propria morte. Con austera grandezza, l’eloquio del poeta tragico, semplice ma solenne, e benché animato da uno spirito profondamente religioso pur nel suo pessimismo sulla vanità delle cose terrene, non nasconde (perché orrido è troppo e dubbio il varco) un umanissimo timore dell’ignoto.
Scelta, parafrasi, commento e note bio-bibliografiche a cura di Gigi Cavalli