Lo re de questa terra sì è quel angel re’
de Lucifèr ke diso: “En cel metrò el me’ se’,
e serò someiento a l’alto segnor De’”,
dond el caçì da cel cun quanti ge çé dre’.
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La cità è granda et alta e longa e spessa,
plena d’ogna mal e d’ognunca grameça:
li sancti tuti el diso, per fermo e per certeça,
ka ki là dentro à entrar, no ’d’ àlo ensiro en freça.
En l{o} profundo de inferno sì e colocaa,
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de raxa e de solfero sempro sta abrasaa:
se quanta aqua è en maro entro ge fos çetaa,
encontinento ardria sì com’ cera colaa.
Per meço ge corro aque entorbolae,
amare plui ke fel e de venen mesclae,
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d’ortig[h] e de spine tute circundae,
agute cum’ cortegi e taient plu ke spae.
Sovra la cità è fato un cel reondo
d’açal e de ferro, d’andranego e de bronço,
de saxi e de monti tuta muraa d’atorno
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açò k’el peccaor çamai no se’n retorno.
Sovra sì è una porta cun quatro guardïan,
Trifon e Macometo, Barachin e Sathàn,
li quali è tanto enoiusi e crudeli e vilan
ke dolentri quelor ke g’andarà per man.
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Ancora su la porta sì è una tor molt alta,
su la quala sì sta una soa scaraguaita,
la qual nui’ om ke sia çamai trapassar laga
per tute le contrae, ke lì venir no’l faça.
E ben è fera consa e granda meraveia
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k’ella no dormo mai, mo tuto ’l tempo veia,
façando dì e noito a li porter ensegna
k’igi no laxo andar la soa çento ramenga.
Il re di questa città è proprio quell’angelo malvagio ('re’, ‘reo’) di Lucifero, che disse “Nel cielo porrò il mio trono ('se’, ‘seggio’), e sarò somigliante all’alto Signore Iddio”, e perciò cadde dal cielo con quanti gli andarono dietro. La città è grande e alta e lunga e profonda, piena d’ogni male e d’ogni infelicità: tutti i santi lo dissero, come cosa sicura e certa, che chi entrerà là dentro non ne uscirà tanto presto. è posta nella profondità dell’inferno, brucia perennemente di resina e di zolfo: se quant’acqua c’è nel mare vi fosse gettata, arderebbe immediatamente come cera fusa. Al centro vi scorrono acque torbide, più amare del fiele e intrise di veleno, circondate da ortiche e spine, aguzze come coltelli e più taglienti delle spade. Sopra la città si estende un cielo rotondo, d’acciaio e di ferro, di andanico (ferro acciaioso) e di bronzo, (ed è) tutta circondata da rocce e dirupi affinché il peccatore non possa giammai tornare indietro. Sopra c’è una porta con quattro guardiani, Trifone e Maometto e Barachino e Satana, che sono tanto molesti e crudeli e ostili che guai a coloro che cadranno nelle loro mani. Sopra la porta c’è poi una torre molto alta, sulla quale sta una sua sentinella, che non lascia mai passare alcuno per nessuna via, in modo che debba venire lì. Ed è una cosa inquietante e stupefacente che essa non dorma mai, ma vegli per tutto il tempo, giorno e notte, facendo cenno al portiere che da lì non permetta che i suoi abitatori se ne vadano errabondi (‘raminghi’).
Secondo dittico di un poemetto veronese in quartine monorime o assonanzate di alessandrini (la cui prima parte è il De Jerusalem celesti), anche il De Babilonia civitate infernali fa parte, come il Libro de le Tre Scritture di Bonvesin da la Riva, dei cosiddetti precursori della Commedia di Dante. Vi si ritrovano il paesaggio orrido e rupestre, le mura turrite, la sentinella (di cui è sottolineata la minacciosa capacità di rimanere sveglia in eterno). Lo stile umile esprime una concezione ingenua dell’aldilà; la descrizione delle pene dell’inferno e delle gioie dei beati ricorre a rappresentazioni che intendono colpire l’immaginario popolare, attingendo al repertorio dei predicatori francescani che si richiama all’Apocalisse di san Giovanni e che ritroviamo nel mondo figurativo dei capitelli delle cattedrali.
Scelta, parafrasi, commento e note bio-bibliografiche a cura di Gigi Cavalli