Li granci

GIOVANNI MELI

       

       Un Granciu si picava
       di educari li figghi
       e l’insosizzunava
       di massimi e cunsigghi,
5        ’nsistennu: “V’àju dittu
       di caminari drittu”.
       Chiddi, ch’intenti avìanu
       l’occhi in iddu e li miri,
       cumprendiri ’un putìanu
10      “drittu” chi vulia diri;
       sta idìa tra la sua cera
       d’unni pigghiarla ’un c’era.
       Iddu amminazza, sbruffa,
       l’arriva a castïari,
15      ma sempri fici buffa:
       mittennulu a guardari,
       vidinu cosci e gammi
       storti, mancini e strammi.
       Alza l’ingegnu un pocu
20      lu chiù grannuzzu e dici:
       “Papà, lu primu locu
       si divi a cui ni fici:
       vaìti avanti vui
       ca poi vinemu nui”.
25      “’Nzolenti! Scostumati!”
       grida lu patri, “oh bella!
       A tantu vi assajati?
       L’esempiu miu si appella?
       Jeu pozzu fari e sfari,
30      cuntu nun n’aju a dari;
       si aviti chiù l’ardiri
       birbi, di riplicari...”
       Seguitau iddu a diri,
       Seguitar’ iddi a fari...:
35      tortu lu patri, e torti
       li figghi sinu a morti.


Parafrasi

I granchi. Un granchio si piccava di educare i figli, e li imbottiva di massime e di consigli, insistendo: “Vi ho detto di camminare diritto”. Quelli, che tenevano fissi su di lui gli occhi e l’intenzione (di obbedire), non riuscivano a capire che cosa volesse dire “diritto”: quest’idea, dal suo aspetto, non c’era verso che riuscissero a capirla. Quello minaccia, sbuffa, giunge a punirli, ma fece sempre fiasco: per quanto lo guardassero, vedevano cosce e gambe storte, sinistre e sbilenche. Il più grandicello ha un’alzata d’ingegno e dice: “Papà, il primo posto è dovuto a chi ci ha fatti: andate avanti voi, che poi verremo noi”. “Insolenti! Scostumati!” grida il padre, “oh bella! A tanto vi azzardate? Si osa esigere il mio esempio? Io posso fare e disfare, non devo rendere conto (a nessuno); se avete anche l’ardire, birbanti, di ribattere...”. Lui seguitava a dire, gli altri seguitavano a fare...: storto il padre, e storti i figli fino alla morte.

Commento

Tra le più note Favuli murali, quella dei granchi, in sestine di settenari, è un buon esempio della vena moralistica, didascalica e favolistica di Giovanni Meli, nelle forme più vivaci e ‘allegre’ del Settecento neoclassico, ravvivate anche dall’uso letterario del dialetto siciliano, adatto, più del toscano, a toni convenzionalmente melodrammatici. La favola rielabora quella, famosa, delle Fables di La Fontaine (L’écrevisse et sa fille), ripresa anche da Gasparo Gozzi nel sonetto Della gamberessa e sua figlia. Qui c’è anche il piglio da padre-padrone del genitore, che crede di predicare bene.
GIOVANNI MELI

GIOVANNI MELI

Giovanni Meli (Palermo 1740-1815) studia presso i gesuiti (1749-‘55) e dal 1766 al 1772 è medico nel feudo di Cinisi (Palermo). Tornato a Palermo, ove insegna chimica all’Accademia di studi, fonda l’Accademia Siciliana (1790) e ottiene la laurea honoris causa in medicina (1808). Fine letterato, membro di varie accademie, si ispira ai modi della poesia arcadica (odi, canzonette, elegie) in un dialetto siciliano di raffinata sensibilità letteraria, ponendosi, nel suo secolo, all’altezza del solo Giuseppe Parini, e raggiungendo una vasta notorietà, sì da far parte, con Carlo Porta, Carlo Goldoni e Giuseppe Gioachino Belli, delle cosiddette “quattro coroncine” dei poeti dialettali (a fianco delle ‘tre corone’ Dante, Petrarca e Boccaccio). Tra le opere: in italiano, Il trionfo della ragione (1759); Riflessioni sul meccanismo della natura (1777); Riflessioni sullo stato presente del Regno di Sicilia intorno all’agricoltura e alla pastorizia (1801); in siciliano, i poemi La Fata galanti (1761-62), L’origini di lu munnu (1768), Don Chisciotti e Sanciu Panza (1785-97) e le Poesie siciliane (1787, in 5 volumi, e 1814, in 7 volumi) comprendenti la Buccolica, le Elegii, le Odi, le Canzonette e le Favuli murali.

Scelta, parafrasi, commento e note bio-bibliografiche a cura di Gigi Cavalli