dalla Leandreride

GIOVANNI GIROLAMO NADAL

       

       Cantus primus, in quo auctor discribit tempus
       quando opus istud agressus est et prohemizatur
       ad totam leandrheridem istam
       
5        Era già il tempo nel qual Phetone arse
       per mal guidar la quadriga paterna,
       onde nigra Ethïopia vide starse,
       alor che la magior fiamma superna,
       poscia che rosea surta era l’aurora
10      et ultimo nel cielo che si cerna
       stavasi ancor Lucifero, ne l’hora
       prima dil giorno nel carro ascendea,
       per mensurare il dì sanza più mora,
       l’orto di cui propinquo si vedea
15      quasi a l’ottavo grado di quel segno
       che come propria casa possidea,
       quando m’aparve, in habito benigno
       et aüstiero, dolce e segnorile,
       Cupido tal - che di narar so’ indegno -
20      qual suol mostrarsi a fidel servo humile,
       per tenerlo in timore e in speranza,
       né pio, né crudo, suo signor gentile.
       questi avea l’arco suo, che li altri avanza,
       e il strale acuto che rispiende de auro,
25      che non serva giustizia né billanza,
       per lo valor di cui già in cigno e tauro
       lo gram potente padre de li dei
       si trasformò più volte, e ’n thesauro.
       Tosto ch’i’ el vidi e cognobillo: “Ahi mei
30      - cominciai - lasso, or quando sarà tempo
       che poni fine a li aspri martir mei?”
       Et egli a me: “Tropo è ancora per tempo:
       quand’io vorò, io ti farò beato”.
       “Mentre - diss’io - cum duolo i’ pur mi atempo.”
35      Disse egli: “I’ volio che del tempo andato
       tu rinnovelli intento come l’arco
       mio valloroso e forte sempre è istato,
       narando quanto di mia fiamma carco
       morio Leandro con la giovenetta
40      che per lui fe’ di vita amaro varco”.


Parafrasi

Canto primo, nel quale l’autore descrive il tempo in cui quest’opera è iniziata e introduce l’argomento di tutta questa Leandreride. Era già il momento in cui Fetonte fece bruciare il carro di suo padre (Apollo), a causa della sua imperizia nella guida, e perciò l’Etiopia diventò nera, quando la maggiore fiamma del cielo (il Sole) - dopo il sorgere della rosea Aurora, e mentre, per ultimo, Lucifero (Venere) era ancora visibile nel cielo - saliva col suo carro nella prima ora del giorno, per misurare senza alcun ritardo la giornata, di cui si vedeva il sorgere in prossimità dell’ottavo grado di quel segno (il Leone) che possedeva come sua propria casa (zodiacale), quando mi apparve, con aspetto benevolo e austero, gentile e nobile, Cupido, tale - quasi non sono degno di raccontarlo - quale è solito mostrarsi a un suo umile servo fedele, per mantenerlo fra il timore e la speranza, né pietoso, né crudele, il suo nobile signore. Egli aveva il suo arco, che supera gli altri, e la freccia appuntita che splende d’oro, che non obbedisce né alla giustizia né alla (sua) bilancia, per il cui potere il gran padre degli dei (Giove) si trasformò più volte: in cigno (con Leda), in toro (con Europa) e in pioggia d’oro (con Danae). Non appena lo vidi e lo riconobbi, “Ahimè infelice”, cominciai, “quando verrà il momento in cui tu porrai fine alle mie crudeli sofferenze?” e lui a me: “è ancora troppo presto: quando vorrò io, ti farò felice”. “Mentre”, dissi, “intanto io invecchio nel dolore.” E lui disse: “Io voglio che, per quanto riguarda il passato, tu ponga mente a ricordare come il mio arco sia sempre stato valoroso e forte, narrando quando, colpito dalla mia fiamma, Leandro morì con la fanciulla (Ero) che per lui fece della propria vita un terribile varco” (verso la morte).


[La leggenda narra il tragico amore di Leandro, un giovane di Abido, e di Ero, sacerdotessa di Venere, che vive sulla sponda opposta dell’Ellesponto; per incontrarla segretamente, ogni notte il giovane attraversa a nuoto lo stretto, guidato da una lampada accesa da Ero su una torre. In una notte di tempesta il lume si spegne e Leandro perisce fra le onde; l’indomani la fanciulla, alla vista del suo corpo esanime, si getta dalla torre, morendo a sua volta.]

Commento

La tragica vicenda dei due infelici amanti Ero e Leandro, tanto breve quanto intensa, forse la più “moderna” delle storie d’amore dell’Antichità, si può paragonare a quelle di altre coppie d’innamorati, come Tristano e Isotta, Paolo e Francesca, Romeo e Giulietta, travolte dalla passione e dalla malasorte. Nelle terzine “dantesche” di Giovanni Girolamo Nadal manca irrimediabilmente il soffio della poesia. Tuttavia in questo inizio del poema, che si apre con la descrizione del sorgere del sole, ampiamente orchestrata con sfoggio di conoscenze mitologiche e astronomiche, ecco che si fa avanti un’arcana presenza, il dio Cupido, armato d’arco e di frecce, che dialoga col poeta: gli promette che l’amore lo renderà felice in un futuro non specificato, e intanto gli ordina di narrare una storia della quale - senza rimorso, anzi con l’innocenza dei fanciulli e degli dei - si vanta d’essere stato il regista.

GIOVANNI GIROLAMO NADAL

Giovanni Girolamo Nadal, mercante e uomo politico veneziano, morto nel 1383, è considerato l’autore della Leandreride (o Leandreide, o Leandride): un poema in terza rima, fortemente influenzato dalla Commedia di Dante, in cui si narra la vicenda di Ero e Leandro, ispirata - oltre che al poema dantesco (Purg., XXVIII) - alle Heroides di Ovidio e alle Vicende di Ero e Leandro di Museo Grammatico (V-VI sec.), e della quale è un’eco anche in un verso del Petrarca, molto noto anche se in realtà non dei suoi più felici, “Leandro in mare et Ero a la finestra” (Trionfo dell’Amore, III). L’interesse maggiore del poema è rappresentato dall’amplissima digressione (nel IV libro) che per bocca dello stesso Dante presenta una lunga serie di poeti greci, latini e italiani, antichi e moderni, ivi compresi i provenzali, a prova della conoscenza dello Stil novo e della poesia occitanica anche in area veneta.

Scelta, parafrasi, commento e note bio-bibliografiche a cura di Gigi Cavalli