da Le api

GIOVANNI  RUCELLAI

       

       I vasi ove lor fabbriche fan l’api,
       o sien ne’ tronchi d’alberi scavati,
       o ’n corteccie di sugheri, e di quercie,
       ovver con lenti vimini contesti,
5        fa ch’abbian tutti le portelle strette
       quanto più puoi: perché l’acuto freddo
       il mel congela e ’l caldo lo risolve;
       è l’un soverchio e l’altro nuoce all’api,
       ch’amano il mezzo tra il calore e ’l gelo.
10      Né senza cagion travaglian sempre,
       con le cime dei fior viscosi e lenti
       e con la cera fusile, e tenace,
       in turar con grand’arte ad uno ad uno
       i fori e le fessure donde il sole
15      aspirar possa vapor caldi, o ’l vento
       iI freddo boreal che l’onda indura.
       Tal colla, come visco, o come pece
       o gomme di montani abeti, e pini,
       serban per munizione a questo ufficio:
20      come dentr’ai navai de la gran terra,
       fra le lacune del mar d’Adria posta,
       serban la pece la togata gente:
       ad uso di lor navi e lor triremi,
       per solcar poi sicuri il mare ondoso,
25      difensando la patria loro e ’l nome
       cristiano dal barbarico furore
       del re de’ Turchi; il qual, mentre ch’io canto,
       muove le insegne sue contra l’Egitto,
       che pur or l’aspro giogo dal suo collo
30      ha scosso, e l’arme di Clemente implora.
       Spesso ancor l’api, se la fama è vera,
       cavan sotterra l’ingegnose case,
       o certe cavernette dentro a’ tufi
       o nell’aride pomici o ne’ tronchi
35      aspri e corrosi delle antiche quercie.
       Ma tu però le lor rimose celle
       leggermente col limo empi, e ristucca,
       e ponvi sopra qualche ombroso ramo.
       Se quivi appresso poi surgesse il tasso,
40      sbarbal dalle radici, e ’l tronco fendi,
       per incurvare i lunghi, e striduli archi,
       che gli ultimi Britanni usano in guerra.
       Né lasciar arder poi presso a quei lochi
       gamberi, o granchi con le rosse squame;
45      e fuggi l’acque putride, e corrotte
       della stagnante, e livida palude,
       o dove spiri grave odor di fango,
       o dove dalle rupi alte, e scavate
       il suon rimbombi della voce d’Eco,
50      che fu forse inventrice delle rime.


Parafrasi

Fa’ in modo che gli alveari in cui le api costruiscono le loro fabbri- che, nei tronchi d’albero scavati o nelle cortecce di sugheri o di querce, oppure fatte di flessibili vimini intrecciati, abbiano tutti le aperture strette il più possibile, perché il freddo pungente congela il miele, mentre il calore lo scioglie; uno è troppo, e l’altro nuoce alle api, che preferiscono un via di mezzo tra il caldo e il gelo. E non senza ragione sono sempre in attività, con le cime dei fiori vischiosi e molli e con la cera fondente e appiccicosa, a otturare con grande perizia a uno a uno i fori e le fessure da cui il sole possa far passare l’aria calda, o il freddo invernale, che trasforma l’acqua in ghiaccio, faccia filtrare il vento. Conservano come scorta, a tale scopo, que- sta colla, come vischio, o pece, o la resina gommosa di abeti e pini di montagna; come dentro agli arsenali della grande città (Vene- zia) che giace nelle lagune del mare Adriatico quel nobile popolo conserva la pece, da usare per le navi e le triremi in modo da poter solcare con sicurezza il mare agitato, difendendo la loro patria e il nome della Cristianità dalla furia barbarica del sovrano dei Tur- chi; il quale, mentre io canto, muove con le sue insegne contro l’Egitto, che però si è appena scrollato di dosso il suo duro giogo e chiede aiuto alle armi di (papa) Clemente (VII). Inoltre - se è vero quanto si dice - spesso le api scavano sotto terra ingegnosa- mente le loro dimore, e piccole particolari cavità nel tufo o nella secca pomice, o nei tronchi duri e corrosi delle vecchie querce. Tu, comunque, riempi con un po’ di fango le loro cellette piene di fessure, e ristuccale, e coprile con qualche ramoscello che le mantenga al- l’ombra. Se poi lì vicino cresce un tasso, estirpalo dalle radici, e ta- gliane il tronco per curvare i lunghi e fischianti archi che i discendenti dei Britanni usano in guerra. E non bruciare nelle vici- nanze gamberi o granchi dalle squame rosse;ed evita le acque pu- tride e malsane della palude stagnante e livida, o dove si senta un forte odore di fango, o dove dalle rupi alte e piene di caverne rim- bombi il suono della voce di Eco, alla quale (per il suo ripetere l’ul- tima parola) si attribuisce l’invenzione delle rime.

Commento

Anche in un breve passo del poemetto sull’apicoltura Gio- vanni Rucellai mostra i principali caratteri della sua maniera di trattare, in eleganti e scorrevoli endecasillabi sciolti, un argomento tecnico-scientifico-letterario. Da un lato segue passo passo, con animo d’artista, e con una simpatia amore- vole per gli industriosi insetti, il modello del IV libro delle Georgiche di Virgilio (cui aggiunge gli aggiornamenti delle tecniche più moderne); dall’altro inserisce nel discorso avve- nimenti di viva attualità, come le vicende guerresche tra Ve- neziani e Turchi per il dominio del Mediterraneo, ivi compresa la politica di papa Clemente VII, con la rapidissima descrizione delle navi da guerra in navigazione, e - en passant - la supposta origine della rima.
GIOVANNI  RUCELLAI

GIOVANNI  RUCELLAI

Giovanni Rucellai (Firenze 1475 - Roma 1525) è di nobile famiglia fiorentina: la madre, Nannina, è sorella di Lorenzo il Magnifico; il padre, Bernardo, storico e umanista, promuove nei giardini della sua villa – gli Orti, dal suo nome detti Oricellari - le riunioni dell’Ac- cademia platonica, con il concorso dei maggiori ingegni italiani. Ec- clesiastico, a Roma, nel 1515, diviene grande amico di Gian Giorgio Trissino, con il quale condivide le teorie sulla tragedia, e che gli de- dica il dialogo Il Castellano. A sua volta compone due tragedie: la Rosmunda, finita nel 1516 - una contaminazione tra le vicende della regina longobarda e dell’Antigone di Sofocle - e l’Oreste, parafrasi dell’Ifigenia in Tauride di Euripide, terminato verso il 1525: opere non molto significative, benché interessanti per l’impiego del set- tenario sciolto e della sestina petrarchesca. Nunzio di papa Leone X (figlio di suo zio Lorenzo) in Francia, nel 1523 è nominato da papa Clemente VII (nipote di Lorenzo) castellano di Castel Sant’Angelo a Roma: qui compone la sua opera più riuscita, il poemetto didasca- lico sulle Api (1060 versi), pubblicato postumo nel 1539.

Scelta, parafrasi, commento e note bio-bibliografiche a cura di Gigi Cavalli