MEROPE: Figlio mio, amato figlio, ohimè infelice,
quasi t’ho offerto a dispietata morte.
Ahi, che mentr’io di te giusta vendetta
cercava, e del mio duolo e del mio pianto,
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di raddoppiar cercava il pianto e ’l duolo.
Ohimè, s’io t’uccidea,
qual Acheloo con le sue lucid’onde
potea giamai lavare
così nefanda abbominevol colpa?
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qual pena è così atroce,
dove fiammeggia la città di Dite,
che picciola non fosse a l’error mio?
qual nel profondo centro
ombra sì scelerata erra d’abisso,
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che non fugisse al mio primo apparire?
che non temesse a una parola sola
restar contaminata, a un sol mio sguardo?
o che gelato orrore
m’ingombra tutta, mentre ch’io ripenso,
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quanto siamo vicini ambeduo stati,
io a l’esser scelerata et empia madre,
e tu per le mie man misero, e morto.
TELEFONTE: Con travagli e perigli
vuol Dio, che qui si compre
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lo stabile piacer, la vera lode.
Poni, madre diletta, e mia Signora,
a le triste querele, al pianto fine.
Tempo verrà che con diletto ancora
di rimembrar ci darà grazia il cielo
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il presente periglio
e le passate noie.
Io qui tuo figlio, io qui tuo servo sono,
e di quanto soffersi Dio ringrazio,
poich’abbracciarti, e riverirti posso.
Merope: Figlio mio, amato figlio, povera me, per poco non ti abbandonavo a una morte spietata! Ahimè, proprio mentre cercavo di vendicarmi a ragione su di te, e di raddoppiare il pianto e il dolore con il mio dolore e il mio pianto. Ahimè, se ti avessi ucciso, quale Acheloo (l’Aspropotamo, secondo fiume della Grecia, e mitologico dio fluviale, figlio di Oceano e di Teti), avrebbe mai potuto lavare con le sue limpide acque una colpa tanto nefanda e abominevole? Quale pena tanto terribile tra le fiamme della città di Dite (Plutone, la divinità sotterranea) non sarebbe parsa piccola rispetto al mio errore? Quale ombra va errando nel centro più profondo dell’abisso infernale tanto scellerata da non fuggire al mio primo apparire che non temesse di restare contaminata da una mia sola parola, da un mio solo sguardo? Oh, che gelido orrore mi pervade tutta, mentre ripenso a quanto entrambi siamo stati vicini io a essere una madre scellerata ed empia, e tu a essere miseramente morto per mano mia! TIMOLEONTE: Iddio vuole che qui (su questa terra) il piacere sicuro, il vero riconoscimento (del nostro agire rettamente) si conquisti attraverso i dolori e i pericoli. Madre amata, e mia Signora, poni dunque fine ai tristi lamenti e al pianto. Verrà un momento felice in cui, ancora, il cielo ci concederà di ricordare il pericolo di oggi e le difficoltà del passato. Eccomi qui, adesso, come tuo figlio e tuo servo, e ringrazio Iddio di quanto ho sopportato, poiché posso abbracciarti e onorarti.
La trama della Merope di Pomponio Torelli è la prima rielaborazione moderna di un soggetto mitologico poi ripreso da Scipione Maffei, da Voltaire e da Vittorio Alfieri. In questa scena l’agnizione tipica della tragedia antica - l’improvviso e inaspettato riconoscimento dell’identità di un personaggio, che determina una svolta decisiva nella vicenda - è addirittura doppia: la regina Merope riconosce il figlio Telefonte proprio mentre, credendolo il presunto assassino del figlio stesso, sta per ucciderlo e si prepara a togliersi la vita, e lui a sua volta riconosce la propria madre. Gli endecasillabi e i settenari, nobilmente retorici, il cui tono altisonante prelude già al barocco, presentano temi animati da una tensione drammatica nuova - nel conflitto fra i sentimenti familiari e gli interessi politici dell’ambizione e del potere - che sarà propria della tragedia francese e italiana del XVII e del XVIII secolo.
Scelta, parafrasi, commento e note bio-bibliografiche a cura di Gigi Cavalli