Il mio Verdi: una testimonianza

Carlo Fontana

«Sì, vendetta, tremenda vendetta...» il grande baritono Carlo Tagliabue, già avanti negli anni, aveva trascinato la ‘difformità’ di Rigoletto per gran parte del vasto palcoscenico del Teatro Lirico di Milano e con la sua voce ancora ‘sana’ aveva dato inizio all’atroce invettiva. La porta del palco, dove insieme ai miei genitori assistevo allo spettacolo, si spalancò all’improvviso: «è morto il nonno» urlò con voce rotta dal pianto il cugino di mio padre. Era il giugno del 1959, un infarto aveva stroncato il mio adorato nonno Carlo mentre teneva un discorso celebrativo nella sua Magenta per il centenario della storica battaglia. Avevo dodici anni e fu così che Verdi entrò irresistibile nella mia vita, contrassegnando i momenti tristi e i momenti lieti, accompagnando nella gioia e nel dolore la mia esperienza umana e professionale.

Sovrintendente della Scala nel 2001, nel centenario della scomparsa, amministratore esecutivo del Teatro Regio di Parma nel bicentenario della nascita. Occasioni commemorative vissute da protagonista – per quanto protagonista possa essere un operatore musicale – nei luoghi verdiani per eccellenza: il suo teatro, la Scala, la sua terra, gelosa custode di memoria e tradizione. Quasi un segno del destino, un filo rosso che congiunge i risultati forse più significativi della mia lunga attività. Ed è curioso ricordare che la mia educazione musicale è stata di tutt’altro segno, formatasi sotto l’ala dell’altro grande protagonista di questo 2013, Richard Wagner.

Per molti anni, a Giuseppe Verdi fui portato a riconoscere solo una grandezza ‘teatrale’, legata ai racconti paterni del Rigoletto di Carlo Galeffi o del Falstaff di Mariano Stabile, entrambi sotto la leggendaria bacchetta di Arturo Toscanini, ai quali si andavano sovrapponendo nella mia memoria l’immagine sconvolgente dell’entrata in scena di Maria Callas, nel ruolo di Amelia in Un ballo in maschera, lo splendore vocale dello smagliante Duca di Mantova del giovane Luciano Pavarotti, l’emozionante finale del Simon Boccanegra di Abbado-Strehler, straordinario esempio di interpretazione musicale e teatrale.

Tuttavia mai passione autentica, mai una consentaneità profonda con questo autore. Qualcosa mi frenava. Forse la retorica gramsciana del ‘nazional-popolare’, la vulgata tendenziosa della prassi esecutiva che vuole ogni momento della partitura risolversi in gesti di atletismo vocale, e il conseguente formarsi di un ‘gusto’ che ha per lungo tempo consegnato l’ascoltatore a un’ignoranza supponente.

Tutte ragioni che mi allontanavano, e che in parte mi infastidivano se penso alle innumerevoli volte che ho sentito da parte dei cosiddetti appassionati ridurre Il trovatore al Do della «Pira», o il Rigoletto a un rosario di acuti buttati a casaccio, straparlando di interpreti del passato prossimo o remoto, ovviamente quasi mai ascoltati dal vivo. La mia è stata, pertanto, una scoperta tardiva; però progressiva, e a tal punto decisiva da segnare gli episodi più significativi della mia carriera, come se Verdi stesso mi guidasse in un percorso formativo non solo musicale.

Stagione 1977-1978, bicentenario della Scala. Giovanissimo assistente del sovrintendente Carlo Maria Badini, mi trovo a presidiare l’andata in scena di Don Carlo, lo spettacolo inaugurale diretto da Claudio Abbado, regia di Luca Ronconi, per una grave malattia che costringe Badini in un letto d’ospedale. Edizione in cinque atti, allestimento di stimolante, provocatoria, modernità per quel tempo. È dunque il Verdi maturo, dell’amara riflessione sulla solitudine dei potenti, della difficoltà, se non addirittura dell’impossibilità, dei rapporti umani autentici, che tiene a battesimo il mio primo, impegnativo, esame quale organizzatore. Non perdo una prova, giorno dopo giorno, minuto dopo minuto, entro nel mondo verdiano e mi abbandono alla lezione di Abbado, all’intelligenza interpretativa di Luca Ronconi, alla straordinarietà degli interpreti: Ghiaurov, Freni, Carreras, Cappuccilli, Obratzova... Emozione indimenticabile, ragione e sentimento si fondono in un equilibrio perfetto.

Verdi mi conquista e solo due anni dopo, quale amministratore delegato della Fonit-Cetra, il mio primo disco, quello che spalanca le porte della distribuzione internazionale dell’azienda fonografica di proprietà della Rai, è una raccolta di arie alternative verdiane cantate da Luciano Pavarotti, sotto la direzione di Claudio Abbado con l’orchestra della Scala.

Pure la mia prima sovrintendenza, al Comunale di Bologna, nasce e cresce sotto l’ala protettiva di Verdi, che consente a quella gestione di essere ancor oggi, a distanza di trent’anni, ricordata con nostalgia.

Il direttore principale Riccardo Chailly (allora già affermato trentenne) affronta, con fervore ed entusiasmo partecipativo che conquistano, grandi titoli: Vespri siciliani, Falstaff, Macbeth (per il grande schermo) e la giovanile Giovanna d’Arco; Myung-Whun Chung debutta con il Don Carlos, protagonista uno strepitoso Ruggero Raimondi; un altro debuttante destinato ad una luminosa carriera, Daniele Gatti, dirige Rigoletto con Leo Nucci e June Anderson e, da ultimo, ciliegina sulla torta, Luciano Pavarotti regala Un ballo in maschera che resta uno dei suoi esiti più ragguardevoli. E come non ricordare il Requiem di Sir Georg Solti in una delle sue rare apparizioni alla guida di complessi italiani?

Una sequenza impressionante di successi che in quella seconda metà degli anni Ottanta comincia a indicare una via, a quel tempo poco battuta, nell’esecuzione delle opere di Verdi, coniugando abilmente tradizione e innovazione, dove per innovazione si deve intendere il rispetto per la pagina scritta. Il ‘mio’ Verdi – sono sincero – è però quello di Riccardo Muti nei miei quindici anni di sovrintendenza scaligera.

In quei difficili anni Novanta, nella Milano frastornata e smarrita di ‘tangentopoli’, che si aggrappava al suo teatro simbolo, la sola istituzione non toccata dalle inchieste della magistratura, affidandogli il compito di difendere con il suo livello artistico l’immagine compromessa della città, non era impresa facile affrontare il ‘grande repertorio’ verdiano, in particolare la famosa trilogia popolare, assente da troppi anni dalla sala del Piermarini. Bene, quando nella stagione del centenario, 2000-2001, Traviata, Rigoletto, Trovatore, vennero eseguite l’una dopo l’altra, con grandissimo successo di pubblico, la sfida si dovette ritenere vinta.

Indubbiamente Muti era riuscito a ridurre l’eredità del pregiudizio divistico, che di fatto aveva portato a escludere la rappresentazione di queste opere, ma era anche riuscito ad affermare – l’ho già scritto in altre occasioni ma lo ripeto per una convinzione profondamente radicata – che la tradizione ha senso ed è vitale in quanto sia stimolo e punto di riferimento per il presente e non nostalgica commemorazione di un passato comunque irripetibile.

Ci volle del coraggio. Molto coraggio con quel pubblico che invocava «Maria!», la Callas ovviamente, a ogni piè sospinto, che aveva costretto Herbert von Karajan a uscire dal teatro da una porta secondaria, riportare in scena la Traviata. E altrettanto coraggio ci volle per il Rigoletto eseguito come Verdi lo scrisse, senza le licenze e le ‘puntature’, a volte i berci, dei cantanti che lo snaturano.

È indelebile il ricordo di quella sera della tarda primavera del 1994, ‘prima’ di Rigoletto. Un’atmosfera pesante, gravida di tensione palpabile, la sensazione quasi di combattere una battaglia: quella del Piave, dissi tempo dopo ironizzando.

Il primo atto scorre veloce nel silenzio della sala. Si chiude il sipario e scatta un applauso, grande, liberatorio: il pubblico si era ‘scaldato’ e finì in un trionfo per Muti, per Renato Bruson, Andrea Rost, Roberto Alagna e per tutto il teatro.

Era evidente che il lavoro di Muti con l’orchestra e i cantanti si rifaceva alla lezione di Toscanini, maturata anche attraverso il suo maestro Antonino Votto, che di Toscanini fu assistente negli anni Venti.

Il Verdi di Muti ha certamente portato avanti, forse addirittura esasperandolo sotto il profilo della fedeltà assoluta al dettato musicale, l’insegnamento toscaniniano.

Il risultato è stato la restituzione di un musicista colto e raffinato, autore di arie che, se eseguite rispettando i segni espressivi, sono dei veri e propri Lieder; un Verdi uomo del suo tempo che si poneva il problema di comunicare con il pubblico indagando le psicologie, le passioni, i conflitti dell’anima e del potere.

Gli esiti complessivi di questa ricerca vennero esemplificati nella stagione del centenario, quando tutti i titoli di Verdi in programma (sette più il Requiem, senza contare le produzioni dei teatri stranieri ospiti) andarono in scena sotto la direzione di Muti. Una scelta meditata e consapevole che, al contrario, venne dai più letta come un omaggio al solipsismo del grande direttore.

Curiosamente, ma non troppo, fu proprio la stampa estera più autorevole – un nome per tutti, il Financial Times – a sottolineare l’importanza della proposta.

La Scala aveva esaltato il suo ruolo e la sua funzione di teatro di Verdi con un progetto fortemente identitario che ne valorizzava il posizionamento internazionale. E non a caso in quella storica stagione il confronto venne cercato con le produzioni di grandi teatri europei (Vienna, Monaco, San Pietroburgo) che furono ospitati con i loro complessi. Nell’Italia di questi anni recessivi si parla spesso di internazionalizzazione, dimenticando che nella cultura e nello spettacolo, nell’epoca della globalizzazione, si è tanto più ‘internazionali’ quanto più si afferma la propria identità: il mondo della moda insegna. Ma sono discorsi oziosi che rischierebbero di farci sembrare inutilmente polemici: «tal dei tempi è il costume», purtroppo.

In questo 2013, anno del bicentenario,Verdi la fa da padrone sui palcoscenici di tutto il mondo. L’augurio e la speranza sono che da tutti questi allestimenti venga un nuovo contributo alla riflessione affinché si possa conoscere e amare Verdi per quello che è, e non per quello che si è preteso fosse.

Scrivo questa testimonianza alla vigilia del mio primo Festival Verdi a Parma. Nuovamente mi incontro con questo Grande che questa volta tiene a battesimo la mia ‘seconda vita’ professionale dopo qualche anno di distacco. Caso? Predestinazione? Quel filo rosso di cui parlavo all’inizio? Non so, giudicate voi. Per quanto mi riguarda, mi auguro che continui a essere il mio compagno segreto delle più stimolanti avventure del cuore e della mente.