Apòstrofo

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apostrofo


apòstrofo s. m. [dal lat. tardo apostrŏphus, gr. ἀπόστροϕος, propr. «vòlto indietro», der. di ἀποστρέϕω «volgere altrove»]. – Segno grafico in forma di virgoletta (’), che nell’ortografia italiana si adopera normalmente per indicare elisione vocalica, e in taluni casi anche troncamento, mentre in altre lingue e in sistemi alfabetici diversi ha altri valori; per es., nelle trascrizioni fonetiche di voci straniere in questo Vocabolario, indica pronuncia palatalizzata di una consonante: l’, n’, = gl(i) e gn come nell’ital. aglio e gnomo.

Grammatica. – Nell’ortografia italiana, l’apostrofo serve a indicare: 1) l’elisione di una vocale finale, per es. l’arte, l’indigeno, quell’albero, grand’uomo, sant’Antonio, vent’anni, quand’entrammo; 2) l’aferesi di una vocale iniziale seguita da consonante della stessa sillaba, per es. lo ’ngegno, tra ’l sì e ’l no, «E ’l sol montava ’n sù con quelle stelle» (Dante); 3) le abbreviazioni dei millesimi, per es. il ’48 (il 1848), nel ’29 (nel 1929), la guerra del ’15-’18, il ’400 (il sec. 15°); l’apostrofo non è qui obbligatorio, sicché si può anche scrivere il 48, il 400, e di solito si evita di scriverne due di seguito (l’800 non l’’800). Può essere inoltre segno di troncamento, limitatamente però ai seguenti casi: 1) nelle riduzioni del dittongo discendente di voci monosillabe come a’, da’, de’, co’, que’, i’ e sim., per ai, dai, dei, coi, quei, io, e come gli imperativi da’ (e rida’ o ridà’), fa’, sta’, va’, riduzioni delle forme toscane dai (e ridai), fai, stai, vai (di fronte alle forme , fa, sta, va); 2) quando il troncamento di un’intera sillaba lascia la parola con terminazione vocalica, come be’ per bene, di’ (e ridi’ o ridì’) per dici (e ridici), gua’ per guata, ma’ per mali, me’ per meglio, po’ per poco, te’ per tieni (più propriam. abbrev. del lat. tene), to’ per togli, ve’ per vedi, vo’ per voglio (ma ca’ o o ca per casa, fe’ o per fece, fra’ o frà o fra per frate, mo’ o per modo, pro’ o prò o pro per prode); ciò anche quando l’apocope è tale solo rispetto a un altro tipo linguistico, come per es. nel romanesco so’ (so’ stato «sono stato»), che è forma normale per quel dialetto e si apostrofa per confronto con l’italiano letter. sono. Eccettuato quest’ultimo caso, ed eccettuati anche i casi già citati di ca’ fe’ fra’ mo’ pro’, le parole apostrofate non vogliono mai dopo di sé il raddoppiamento sintattico. Tutti i casi di troncamento non menzionati sopra escludono l’apostrofo; questo non viene quindi segnato quando la caduta di una vocale finale costituisce troncamento e non elisione (quando cioè l’apocope può avvenire tanto davanti a vocale quanto davanti a consonante): si scrive perciò un uomo, un angolo, nessun altro, alcun amico, buon appetito (e non un’uomo, un’angolo, ecc.), nello stesso modo che un soldato, nessun danno, alcun libro, buon viaggio (invece nel femm. un’isola, nessun’altra, alcun’amica, buon’anima, con l’apostrofo); tal altro e femm. tal altra, qual è, qual orrore e femm. qual idea (cfr. in tal caso, la tal via, qual dolore, qual vista); e così ancora nobil uomo, suor Agnese, fin allora, ancor ella, ben accolto, far entrare, venir avanti, sapor amaro, e sim. Nelle edizioni (moderne) di testi antichi sono possibili alcuni usi dell’apostrofo altrimenti ignoti alla moderna ortografia italiana: es. nel tipo costu’ per costui, nel tipo anda’vi per andaivi, nel tipo ver’ per verso, nel tipo fior’ per fiori (ma fior per fiore), nel tipo pon’ per poni imperativo (ma pon per poni indicativo). L’uso dell’apostrofo in fin di riga è comunem. considerato errore, sul fondamento d’una regola più tipografica che grammaticale, destituita peraltro di validi motivi (regola da interpretare, a ogni modo, nel senso che si debba spostare la sillaba che contiene l’apostrofo al principio della riga seguente, non nel senso che si debba ripristinare al posto dell’apostrofo la vocale elisa).