Plàcito

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placito


plàcito s. m. [dal lat. placĭtum, der. di placere «piacere»]. – 1. a. Opinione espressa da persona autorevole, soprattutto nel campo filosofico: i p. degli antichi filosofi. b. Nel medioevo, sentenza data da un’autorità giudiziaria; per estens., il documento che ne conserva il testo: p. cassinesi, documenti del sec. 10°, di natura giuridica, conservati nell’archivio della badia di Montecassino, scritti in latino ma con singole frasi in volgare italiano, considerati i più antichi documenti in cui la nuova lingua è consapevolmente usata come tale, distinta dal latino e ad esso contrapposta. Per i consoli dei p. (o dei piati), v. piato. c. D’uso letter., non com., la locuz. a p., ad arbitrio; ant. a mio, suo p. (attualmente, a mio, suo beneplacito): mal si lassano Le pecorelle andare a loro ben placito (Sannazzaro). 2. Nel medioevo, assemblea generale del popolo libero (anche nella forma lat. placitum). In partic.: a. P. generale (o grande p.), assemblea che si soleva tenere per le deliberazioni più importanti due o tre volte all’anno, generalm. in maggio o in estate. b. Assemblea minore tenuta dai conti, o da chi in genere godeva della giurisdizione, innanzi alla quale si rendeva giustizia per gli uomini del distretto. 3. In epoca feudale, il tributo che il signore esigeva in corrispettivo dell’amministrazione della giustizia e riscuoteva appunto due o tre volte all’anno in occasione delle tornate giudiziali.

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