Tabula rasa

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tabula rasa


tàbula raṡa〉 locuz. f., lat. (propr. «tavola raschiata»). – 1. Espressione con cui era designata in origine la tavoletta cerata usata dai Romani per la scrittura, quando ne era stato raso ogni segno ed era quindi completamente cancellata e pronta perché vi si potesse scrivere di nuovo. Nella terminologia filosofica medievale, la locuz. è stata usata per rendere il greco γραμματεῖον (la tavoletta spalmata di cera sulla quale si scriveva), cui Aristotele paragona l’intelletto in potenza rispetto agli intelligibili, prima di intenderli in atto; l’immagine è stata ripresa da Locke (che paragona la mente al foglio di carta bianca ove nulla ancora è scritto) per indicare l’origine, attraverso i sensi esterni o interni, di tutte le idee, e da Rosmini, il quale, contro le tesi sensiste, sostiene che la tabula rasa è l’idea indeterminata dell’ente, che è in noi dalla nascita. 2. fig. Essere una tabula rasa, essere del tutto privo di cognizioni, di preparazione in un dato campo, o anche avere la testa vuota. Con evidente interpretazione di tabula come «tavola da pranzo», fare tabula rasa, sparecchiare, portare via tutto, consumare ogni cosa, o anche cacciare via tutti da un luogo (cfr. l’espressione equivalente far piazza pulita), distruggere completamente, radere al suolo: c’erano quattro vassoi colmi di pizzette: sono venuti i ragazzi e hanno fatto t. r. di tutto; approfittando dell’assenza dei proprietarî, i ladri sono entrati nella villa e hanno fatto t. r. di tutta l’argenteria; il bombardamento, o il terremoto, ha fatto t. r. dell’abitato.