volgare1 (ant. vulgare) agg. [dal lat. vulgaris, der. di vulgus «volgo»]. – 1. non com. Del volgo, degli strati socialmente, culturalmente ed economicamente inferiori della popolazione: usi, tradizioni, pregiudizî v.; nell’uso ant., sostantivato al masch., persona, gente del volgo, del popolo: certe enfiature ..., le quali i volgari nominavan gavoccioli (Boccaccio). 2. a. Con riferimento a forme e aspetti linguistici, serve a qualificare quelli proprî e caratteristici delle classi popolari o comunque di minore cultura: lingua v. (e ant. parlare v., sermone v.), e dialetti, parlate v., la lingua e i dialetti parlati dal popolo, e comunque appartenenti all’uso corrente, colloquiale e familiare, soprattutto in relazione al periodo delle origini e della formazione delle lingue e delle parlate neolatine, in contrapp. al latino medievale, lingua della scienza e della cultura. Spesso come s. m., in opposizione, esplicita o implicita, al latino: il v. italiano (e assol., il v. illustre di Dante; parlare, scrivere, tradurre in v.; le opere in v. del Boccaccio); i v. francesi o d’oïl; l’affermarsi dei v. come lingue d’arte e di cultura; in partic., con riferimento alle singole varietà regionali o municipali: il v. siciliano, bolognese; i v. dell’Italia settentrionale; i v. settentrionali, letteratura v.; i testi volgari del Duecento. b. Con uso specifico, in linguistica, latino v., il particolare aspetto della lingua latina, contrapp. al latino letterario, e detto anche latino popolare o parlato o preromanzo, che è alla base delle lingue e dei dialetti romanzi, e la cui storia comincia quando (intorno alla metà del sec. 2° a. C.) nasce un’opposizione tra lingua scritta e lingua parlata, mentre la maggior parte delle sue caratteristiche si fissano nell’ultima età repubblicana e agli inizî dell’età imperiale; è in questa forma che il latino viene portato dai soldati e dai coloni romani in tutte le province dell’Impero, dove tuttavia la tradizione classica si mantiene ancora forte per influsso della scuola e della burocrazia, fino a quando lo sfaldamento di queste accelererà anche il processo di frantumazione della lingua che, per quanto ritardato dal latino cristiano, sarà poi reso definitivo dallo stabilirsi delle civiltà barbariche con le quali (dal sec. 6° in poi) l’unità linguistica dell’impero cede definitivamente il passo alle singole lingue romanze. c. In senso fig., nell’uso ant. e sempre come s. m., dire una cosa in volgare, o in buon volgare, e parlare in volgare, in modo chiaro ed esplicito, apertamente (in relazione al fatto che il volgare era compreso da tutti, mentre il latino era comprensibile solo alle persone colte); per estens., ant., in volgare, con semplicità, alla buona: oggi, a buon conto, s’è fatto tutto in volgare, e senza carta, penna e calamaio (Manzoni). d. Nella classificazione zoologica e botanica, nome v. di un animale, di una pianta, il nome con cui vengono indicati nell’uso comune, in contrapp. al nome scientifico con cui sono designati nella classificazione sistematica (oggi l’uso di volgare in questa accezione è stato abbandonato, e sostituito con comune). Con valore diverso, il lat. vulgaris è stato adottato nella nomenclatura binomia di Linneo per denominare la specie più nota e più diffusa di un genere (per es., Beta vulgaris, la barbabietola da orto). e. Per analogia con la lingua v. e in partic. col latino v., gli storici del diritto chiamano diritto v. il diritto così come è applicato in pratica (in contrapp. non tanto a legislazione, a diritto scritto, quanto a diritto ufficiale), e in partic. chiamano diritto romano v. quello che, in molte varietà, veniva applicato nelle varie province dell’Impero romano, risultando dall’incontro e dallo scontro del diritto di